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BRIGANTAGGIO-NELLE PROVINCIE NAPOLETANE DAI TEMPI DI FRA DIAVOLO SINO AI GIORNI NOSTRI-MARCO MONNIER (V)

Posted by on Ago 28, 2023

BRIGANTAGGIO-NELLE PROVINCIE NAPOLETANE DAI TEMPI DI FRA DIAVOLO SINO AI GIORNI NOSTRI-MARCO MONNIER (V)

Ci sono dei testi che hanno fatto la storia del Sud, partecipando a quella “guerra delle parole” che ci ha ridotti a dei servi senza dignità. Ebbene i libri scritti da Marco Monnier, scrittore che ebbe accesso alla documentazione delle gerarchie militari piemontesi (del La Marmora tanto per citarne uno a caso…) fanno parte di quei testi. 

I suoi scritti sul brigantaggio e sulla camorra verranno scopiazzati da tutti coloro i quali si occuperanno di tali argomenti dopo di lui. Nessuno dirà più di lui nè aggiungerà nulla a quanto detto da lui. Salvo rare eccezioni, quali il Molfese, secondo il nostro modesto parere.

I termini scelti da Monnier, i suoi giudizi, la sua valutazione degli eventi, tutto verrà ripetuto migliaia di volte sui giornali, nelle accademie dove si formano le classi dirigenti, nelle scuole di ogni ordine e grado.

Le sue omissioni saranno le loro omissioni – vedi le deportazioni dei Soldati Napolitani, giusto per non restare nel vago.

Zenone di Elea, 23 Dicembre 2008

IV

La cospirazione – Napoli garibaldina – I partiti dopo la partenza del Dittatore – L’opposizione dei letterati – La consorteria e il municipalismo – L’opposizione del popolo – L’opinione della paura – Viva Garibaldi – L’ opposizione del clero – Le leggi contro i conventi  – La falsa moneta e gli anelli di zinco – Il brigantaggio assume carattere politico.

L’eroiche gesta di Garibaldi erano state una sorpresa, un colpo di fulmine. Già compiute, ad esse non si prestava fede. Tutti si chiedevano: È egli davvero sul continente? E nel tempo istesso Garibaldi entrava in Napoli. In nessun luogo avea trovato resistenza. Eroe leggendario avea colpito la immaginazione del popolo, continuando per conto suo le favole dell’Ariosto. Le sue avventure meravigliose in terra e in mare, nelle quattro parti del mondo, le tempeste e i combattimenti,le vittorie e i naufragi, l’interesse che in questo paese suscita quanto havvi di strano, d’irregolare, di superiore alla legge; perfino la parte spettacolosa, la camicia rossa, e per soprappiù il terrore, le memorie di Velletri narrate e sparse dai soldati sconfitti, e per ultimo la superstizione, che ingrandiva e consacrava il semiDio (quando è colpito, dicevano, scuote la camicia e le palle cadono), tutte queste circostanze insieme riunite aveano reso Garibaldi quasi eguale a san Gennaro…

Ho parlato di terrore, e torno a discorrerne, perché questo sentimento qui spiega tutto, nè mi stancherò mai di ripeterlo. La paura regola il mondo; è massima continuamente proclamata da Garibaldi. La paura rese trionfante la causa italiana, e non solo quel timore misterioso ispirato dall’eroe popolano, il quale a dieci anni di distanza sconfisse due volte da Roma e da Napoli a Gaeta l’armata del padre e’ l’armato del figlio,

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ma ancora quel terrore sparso dalla turba sanguinosa ed oscena dei soldati borbonici. I loro recenti eccessi in Sicilia, l’incendio di Carini, il bombardamento di Palermo, e sovra ogni altra cosa le loro brutalità nella stessa Napoli, le memorie del 15 maggio 1848, le aggressioni del 15 luglio 1860, tenevano in un continuo spavento i pacifici borghesi. Dev’esservi noto quest’ultimo avvenimento. Alcuni granatieri del Re si erano slanciati una domenica al tramonto del sole, non già sopra sediziosi attruppamenti, ma sopra una folla tranquilla, e prendendo chiunque passava per la gola (anche gentiluomini in carrozza, e personaggi aventi carattere officiale, fra i quali il console d’Inghilterra), li aveano minacciati, colpiti e perfino uccisi a colpi di sciabola, urlando

Viva il Be!

Da quel giorno la città era rimasta in diffidenza: essa guardava i cannoni puntati sopra di lei in tutti i forti, e non vedeva dovunque che miccie accese. I ricchi negozianti avevano noleggiato vapori o brigantini per porvi in salvo dal saccheggio mercanzie e valori. I gentiluomini più borbonici erano nobilmente fuggiti. I vascelli stranieri ancorati nella rada erano popolati di fuggitivi a carichi di casse preziose. Gli stranieri aveano compilato l’inventario degli oggetti di loro pertinenza, e lo avevan depositato presso i consoli rispettivi. Ad ogni istante nellacittà, sopraffatti dalla paura i cittadini chiudevano le botteghe e le case, spopolavano le strade, facevano correre a precipizio carrozze, cavalli, pedoni, mercanti ambulanti, in una confusione strana, in una fuga insensata. Io stesso ho veduto questi fatti co’miei occhi, e giorno per giorno ne ho preso nota.

Così la stessa paura, ossia la pubblica opinione, intravide in Garibaldi un salvatore. Tutti lo chiamaron con gridi d’angoscia: e quando fu giunto, la città intiera calma? rassicurata potè liberamente respirare.

In realtà il pericolo cominciava in quel momento.

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II giorno dell’ingresso di Garibaldi seguito tutto al più da venti uomini, restavano sei mila soldati a Napoli. Una palla fortunata avrebbe messo la città a ferro e a fuoco. Il grosso dell’armata trova vasi a due miglia di distanza. I cacciatori, i Bavaresi volevano battersi, e si batterono infatti. Garibaldi rimase quasi per due mesi dinanzi a Capua senza prenderla. Il primo ottobre le truppe reali furono ben vicine a ritornare in Napoli; il giorno di poi ve ne erano tuttora molte migliaia in C^serta, che avevano presa, e che avrebber conservata forse, se non perdevano il tempo nel saccheggiare una casa. – Tuttavia tale era la fede in Garibaldi, che in faccia a questi gravissimi pericoli la città rimase gaia, Viva, imbandierata, illuminata tutte le sere, screziata allegramente da costumi diversi, ripiena di camicie rosse, affiochita e assordita a forza di fanfare e di acclamazioni, ebbra e pazza di giubbilo!

Durante questa esplosione di entusiasmo, non fuvvi partito borbonico, e non vi furono neppur borbonici. Alcune congreghe eransi formate intorno ai grandi capi di tutti i movimenti italiani, Mazzini, Cattaneo, Saffi e altri riuniti allora a Napoli, allettati o chiamati dalla giovane rivoluzione. Ma queste congreghe non erano che frazioni di tutto il partito liberale. Avevamo mazziniani, repubblicani indipendenti, democratici monarchici, garibaldini puri, garibaldini moderati, moderati non garibaldini, unitari e Unionisti, partigiani dell’Italia

ima,

e partigiani dell’Italia

unita,

annessionisti con o senza condizioni, Piemontesi i quali non giuravano che per Torino, e Napoletani che non pensavano che a Napoli; ma non un circolo, non una conversazione osava più pensare a Francesco II. – Tutto questo durò fino all’arrivo di Vittorio Emanuele e allo stabilimento dell’autorità regolare.

Allora i Napoletani si intiepidirono ad un tratto.

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Formaronsi due opposizioni, ogni giorno più distinte, l’una fra i letterati, l’altra fra il popolo.

Studiamoci di disegnare nettamente queste due opposizioni. Io mi avventuro in terreno lubrico, ma il miglior, mezzo per non cadére è quello di camminarvi risolutamente. Parlerò dunque con tutta la sincerità. Ho già bastante esperienza per sapere che l’arte suprema sta nella piena sincerità.

L’opposizione dei letterati (non dico borghesi, perché a Napoli sarebbe,una parola impropria) fu suscitata da mille cause, ma soprattutto da passioni di campanile e da ambizioni disilluse. Una consorteria potente erasi impadronita del potere, e componevasi in special modo degli emigrati. Queste vittime del 1848 erano i cittadini più ragguardevoli delle due Sicilie. Dispersi in tutta l’Europa, in gran numero congregati in Piemonte, vi aveano trovato non solo un asilo, ma l’accoglienza più simpatica e più generosa. Il Piemonte fu l’Olanda dei

whigs

di Napoli. Nell’esilio si cospira sempre un tantino; e i nostri emigrati cospirarono, ma con moderazione. Guidati dapprima da Manin, che li dirigeva da Parigi, consigliarono la resistenza legale. Scrissero manifesti e

memorandum,

ne’ quali chiesero all’Europa un Ferdinando II liberale. Manin morì, e Ferdinando restò il monarca più assoluto. Allora gli emigrati sperarono salute da Francesco II, e taluni anche da Murat. Ma l’Inghilterra teneva avvinte le braccia del pretendente. Rispetto a Francesco II, ascendendo il trono, annunzio che non sperava poter agguagliare le sublimi virtù del padre.

Frattanto l’emigrazione erasi fortificata. Prima di morire il penultimo re di Napoli avea dischiuso le prigioni. Il barone Poerio ne era uscito con la sua lacrimevole coorte. Voi ricordate ciò che avvenne: deportato in America, ebbe l’audacia di sbarcare in Manda, d’onde si rese a Torino. Notate che egli era

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rimasto in relazione con tutti i proscritti e con tutta l’Europa. Sotto la sua veste di forzato, non avea mai cessato di cospirare. Egli dirigeva i liberali di Napoli; li frenava dal fondo della sua galera, e trascinando la catena, li confortava a sperare.

Perciò adunque essendo egli con i suoi compagni d’infortunio a Torino, l’emigrazione fu completa; falange stretta e ornai celebre e formidabile, in specie a causa delle sue sventure. Avea disperato di Ferdinando, di Francesco, di Murat: cresciuta sotto la protezione del Piemonte, era divenuta Piemontese. La campagna di Lombardia, l’annessione de’ Ducati, delle Legazioni, della Toscana, sbozzò innanzi ai suoi occhi l’immagine sì lungo tempo sognata e tante volte respinta come una fatale illusione, dell’Italia una. D’altra parte era quella la soluzione sola possibile! E qui l’audacia e la saggezza si trovarono concordi.

Quando Francesco II proclamò la costituzione e l’amnistia, gli emigrati tornarono in frotte, e con ogni possa alimentarono la universale sfiducia, che respingeva le coatte franchigie strappate al giovane re. Tentarono di prevenire Garibaldi, che era ancora in Sicilia, e di sollevar il paese senza l’intervento di lui. Il cannone di Sant’Elmo glie lo impedì. Allora si rassegnarono a stender le braccia al Dittatore, a dirigere il Comitato segreto, che altre volte ho chiamato il governo secreto. Mercé loro, Garibaldi, fin dal suo arrivo, il 7 settembre 1860, non trovò soltanto un popolo preparato, ma un ministero già fatto.

Io ho insistito su questi precedenti de’

consorti

(come qui si appellano) per render giustizia ad essi. Ho voluto costatare i loro servigi, prima di censurare i loro falli. Aggiungo, che durante la dittatura essi forse salvarono il paese, dacché ebbero il coraggio e la forza di contenere la rivoluzione. Non prenderei giuramento che senza di loro essa non fosse corsa a urtarsi

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contro i Francesi alle frontiere romane. Con alte grida chiamarono Vittorio Emanuele.

Ma giunto il re, essi furono i padroni, e credo ne abusassero. Non raccolgo qui le calunnie della piccola stampa; non voglio credere alla venalità, al favoritismo de’ nuovi signori: ma opino soltanto che fossero troppo ciecamente sommessi a Torino, d’onde mal giudicavasi la questione di Napoli.

In due parole, ecco qual’ era tale questione. I Napoletani avevan dichiarato col plebiscito, che loro volontà era di unirsi all’Italia una sotto la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele. A Torino si credè che chiedessero di esser annessi e assimilati al più presto possibile. Di qui le discordie e i malcontenti.

I consorti posero le mani su tutto, non d’altro curandosi se non di affrettare l’assorbimento di Napoli nel nuovo Regno d’Italia. Le tariffe doganali furono rovesciate da un giorno all’altro; provvedimento del quale la industria locale soffrirà per lungo tempo. I codici furono modificati in senso piemontese; e fu grave rammarico per i giureconsulti dei paese, che giustamente considerano come ottime le loro leggi, e null’altro lamentarono, ne’ tempi de’ Borboni, che non fossero eseguite. In quasi tutti i rami dell’amministrazione si cambiarono i nomi conservando le cose, mentre l’arte suprema, dopo una conquista, sta nel cambiar le cose, conservando i nomi. Invece di render meno sensibile la transizione, si fece il contrario, aumentando i poteri di Torino a spese di quelli di Napoli. Invece di dissimulare la questione della capitale, la fu posta innanzi, e fu un fallo enorme, tanto più poi, perché quella capitale lontana, ignorata, quasi straniera, era in qualche modo una specie di

parvenue,

e non aveva a favore proprio che il suo re, per buona ventura galantuomo.

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In brevi parole tali furono le lagnanze dell’opposizione dei letterati. A questi malcontenti si unirono i borghesi senza politica, amanti de’ loro affari, i quali accusavano il potere delle rimesse che non giungevano; poi gli impazientì, sempre innumerevoli, i quali esigono da ogni rivolgimento istantanei benefizi, e lo condannano senza misericordia, quando questi benefizi non si rivelano immediatamente. Napoli avea bisogno di scuole, di ospizi, di prigioni cristiane, di strade, di ferrovie, di porti, di fari, di tutto. Nulla si concedè, salvo leggi inopportune e premature. L’opposizione si sparse e divenne forse generale, o almeno i fiduciosi, gli ottimisti, i soddisfatti, si trovarono ben presto in minoranza.

Ma questa opposizione, è utile prenderne nota, restò conservatrice: non chiese reazione, ne rivoluzione, né Francesco II, né Mazzini. Si lagnò del Piemonte senza pensare in guisa alcuna a staccarsi dall’Italia: ed ecco come avvenne che un paese malcontento inviò in gran quantità deputati ministeriali in parlamento. A malgrado di tutto il malumore, questi uomini Conosciuti, illuminati, moderati erano ancora coloro che meglio rappresentavano la opinione pubblica. I liberali più spinti ispiravano paura e repugnanza, perché nella maggior parte patriotti scapigliati, inetti, violenti e ignoti.

L’opposizione non avea colore; era napoletana: nel Parlamento ne avemmo le prove. I Napoletani che hanno interpellato il ministero sul loro paese appartenevano a tutte le opinioni; ve ne erano della destra, della sinistra, del centro. Tutti i loro discorsi furono profondamente improntati di municipalismo, il quale è la vera opinione, il vero partito di Napoli. Più municipale di tutti è quegli che ha assordato la Camera sui mali del suo paese, il signor Ricciardi, uomo d’altra parte onestissimo. Ei si crede repubblicano; s’inganna: non è che napoletano.

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Ho discorso dell’opposizione de’ letterati; ora scendo a dire di quella del popolo, che è più franca e più decisa, e dichiara che non ama i Piemontesi, né Vittorio Emanuele.

Contro i Piemontesi la plebe di Napoli ha (o almeno avea) l’avversione degli uomini del mezzogiorno per gli uomini del settentrione. Brusco e violento era il contrasto fra le camicie rosse e i cappotti bigi. Dopo i volontari veementi, rumorosi, pittoreschi, gloriosi, che spargevano il loro danaro a piene mani, desiderosi di viver bene pria di ben morire, dopo questi eroici zingari, giunsero a un tratto soldati ben ordinati, disciplinati, tranquilli, sobrii, poveri, freddi. I nuovi venuti andavano a piedi, non bevevano, e appena fumavano; non erano quindi in grado di recar guadagni alla classe povera. Avevano una sola uniforme, e la domenica erano vestiti come gli altri giorni; non gridavano nelle vie; sembravano spostati sotto il cielo di Napoli: parlavano un dialetto quasi francese. Il popolo s’allontanò da essi. I Piemontesi vissero fra loro separati, come altra volta gli Svizzeri.

Contro il re l’opposizione popolare fu anche più ingiusta. Quando Vittorio Emanuele giunse a Napoli, ebbe un gran torto; trascurò i galloni e gli ori: non sguainò la sua grande sciabola, ebbe stivali troppo corti. Il popolo ama le grandi sciabole e i grandi stivali. In breve il Re galantuomo non avea di Murat che il coraggio; ma qui neppure il coraggio riesce senza i pennacchi; forse né qui, né altrove.

Vi ebbero motivi più seri di opposizione. Il popolo non ha mai ben compreso, perché Vittorio Emanuele sia venuto a Napoli. La questione italiana pareagli complicata, e comincia ora soltanto a rendersene conto; per lo innanzi non l’ebbe mai a cuore. Nel primo momento la nostra plebe non vide che una cosa sola: il Re che giungeva e Garibaldi che partiva.

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La partenza trista, solitaria, sconfortante di colui che era stato padrone di Napoli, e avea dato nove milioni di sudditi al suo sovrano, suscitò rammarico. Vi si scorse un’ ingiustizia flagrante, una ingratitudine crudele. E i Garibaldini malcontenti furono di questo parere. Lo scopo della rivoluzione, il plebiscito furono posti in oblio: si ripetè dovunque (e si ripete ancora nelle classi incolte) che Vittorio Emanuele, terza potenza nemica delle altre due, era venuto a prender Napoli e a scacciarne Garibaldi, il quale ne avea scacciato Francesco II.

Tali furono i motivi della opposizione popolare. Coloro che ne hanno enumerati altri, li hanno inventati. Dire che l’ex-lazzarone è francescano o repubblicano, è lo stesso che confessare che non si è mai posto piede in questo paese. Non si tratta qui di principii o di convinzioni, ma di simpatie o di antipatie.

Aggiungete frattanto che la paura (io ne terrò sempre conto) non assoggettava al Piemonte né i letterati, né il popolo. La estrema mitezza del governo tollerava nei giornali il linguaggio il più vivo, e lasciava che nelle vie si gridasse ciò che più piaceva. I soldati mostravano una mansuetudine e una pazienza ammirabile; perciò non spaventavano: non erano gli sciabolatori del 15 luglio, o i saccheggiatori del 15 maggio. Mi ricordo che un giorno pochi mascalzoni coll’intendimento di dar causa ad una sommossa, avevano cominciato dal fare una dimostrazione ad un ufficiale pubblico e dal percorrere le strade gridando:

Morte a Spaventa!

Volevano anche invadere il palazzo de’ Ministeri. A guardia di questo furono inviati alcuni soldati coll’ordine espresso di evitare lo spargimento del sangue. Ebbene: io ho veduto que’ soldati insultatì, oltraggiati ignobilmente: sulla faccia di essi si gettarono delle sozzure: aveano in cima ai loro fucili le baionette: tornavano dalla Cernaia, da Palestro, da Gaeta;

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erano valorosi, erano irritati, e ben si scorgeva dal loro volto alterato; sapevano che una finta scarica avrebbe disperso quella plebaglia. Eppure nessun di loro si mosse!

In qualunque altro luogo questa condotta avrebbe disarmato i malcontenti. A Napoli incoraggi al disordine; ma queste turbolenze non ebbero mai alcun che d’inquietante; la dimostrazione di cui ho fatto cenno fu la più violenta di tutte e terminò vilmente in schiamazzi. Spaventa restò come prima alla Polizia, ne si pensò neppure a innalzare barricate.

L’opposizione puramente popolare non fu mai politica. Si contentò di rimpiangere e di acclamare Garibaldi; e ciò fece in ogni occasione, a torto, o a ragione, con un costante entusiasmo. Tutte le volte che la città era illuminata, vedeansi passare per le vie processioni di plebei, che agitavano le loro bandiere e scuotevano le loro torcie alle grida di

Viva Garibaldi.

Talvolta portavano il busto dell’eroe, racchiuso in una cassa da santi, tolta in prestito da qualche chiesa.

Viva Garibaldi,

fu il grido di tutte le sere di trionfo. Quando Cialdini prese Gaeta,

Viva Garibaldi;

quando Oavour proclamò il Regno d’Italia,

Viva Garibaldi;

quando Napoli festeggiò l’anniversario di Vittorio Emanuele,

Viva Garibaldi.

Se per caso si dovesse celebrare il ritorno di Francesco II, il popolo per abitudine griderebbe forse

Viva Garibaldi.

Così noi avevamo un malcontento quasi generale nel paese; in alto, per spirito di contraddizione e di municipalismo; in basso, per pietà verso l’eroe di Caprera. Il partito borbonico vide queste disposizioni, e alzò la testa.

La reazione cominciò dal clero. I preti erano ostili al potere condannato dal papa; pure la loro ostilità era meno generale di quella che s’immagina. A Palermo il 4 aprile 1860 furono i monaci della Gancia che

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avevano dato il segnale della insurrezione. In Basilicata, provincia liberale che non avea aspettato Garibaldi per sollevarsi, erasi formata una legione di preti ed erasi armata per marciare innanzi al popolo. A Napoli stessa eminenti predicatori (fra gli altri il prete Giuseppe De Foria) aveano posto la loro eloquenza a servizio della causa italiana. Ne basta: la rivoluzione avea dalla parte sua alcuni vescovi, specialmente quello di Ariano, monsignore umilissimo, in particolar modo per i

Te Deum.

Sarebbe stato dovere l’incoraggiare queste inclinazioni. Il supremo buon senso di Garibaldi rispettava le superstizioni popolari.

Il giorno appresso al suo arrivo a Napoli, il Dittatore avea adempito il borbonico pellegrinaggio di Piedigrotta. Alla sua preghiera il miracolo di san Gennaro erasi operato, come d’ordinario, e anche più sollecitamente. Garibaldi religiosissimo si faceva seguire da un cappellano, al bisogno soldato e prete, nelle città, il quale predicava con unzione e con calore.

Il governo regolare dapprima segui la stessa via, e richiamò perfino il cardinale Riario Sforza che avea lasciato Napoli. Poi ad un tratto, mal consigliato dagli impazienti e dai logici (la logica è l’opposto della politica; ciò non si ripeterebbe abbastanza) la Direzione dei culti credè dar segno di forza facendo ciò che Garibaldi, il savio audace, non avea ardito, e pronunziò tre decreti contro il clero. Uno de’ quali, il più violento, sopprimeva la massima parte delle corporazioni religiose.

In tempi ordinali questo sarebbe stato atto di giustizia. Ma allora era necessario non inasprire i preti, per le cause che ho già esposto, e perché poi il governo non avea tanta forza per lottare contro essi. Il coraggio di promulgare le leggi non mancò, mancò per altro il potere di imporne la esecuzione;

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errore irreparabile: i preti furono offesi e non colpiti, irritati e non indeboliti. Il governo avea mostrato il suo cattivo volere e la sua impotenza. Credo che anche oggi se ne penta.

Il clero dichiarò la guerra all’Italia in tutte le provincie e anche in Napoli: dapprima timidamente, di notte, in prediche clandestine, poi in pieno giorno, in prediche piene di allusioni in cui Vittorio Emanuele era designato sotto lo pseudonimo di Erode; in vece di Francesco II i curati dicevano Gesù Cristo. Nelle campagne la sottana e la cocolla peroravano apertamente contro il re scomunicato, congiuravano per una crociata regolare. I conventi si posero in corrispondenza con Roma: quelli di Napoli ricettavano uniformi e sopra tutto képis di guardia nazionali, per vestire poi mercenari e gettarli col pugnale in mano, nei corpi di guardia dei liberali.

All’ombra di queste frodi furono ben presto commessi furti e assassinio Ovunque vi erano depositi d’armi, magazzini di munizioni, fogli reazionarii. In Aquila, in casa d’un certo Cocco, assai sospetto, fu rinvenuta una lista di nomi liberalissimi. Gli fu chiesto cosa fosse: rispose che poteva essere una lista de’ suoi debitori – «Vi debbo dunque qualche cosa?» domandò l’ufficiale che erasi recato ad arrestarlo: «vi trovo il mio nome!» – Cocco perde i sensi.

La fucina della cospirazione era a Roma, residenza del re decaduto. Era egli già d’accordo co’ suoi partigiani? Lo ignoro, ma non lo credo. So bene che gli si è attribuito un motto patetico e fatidico, mentre ei partiva da Gaeta. Prima d’imbarcarsi, abbracciò uno de’ suoi soldati, l’ultimo che trovò sulla spiaggia, e gli disse: – «Da’ per me un bacio a tutti quelli che mi amano, e di’ loro che prima che corra un anno, ci rivedremo.»

Ma d’altra parte Francesco II avea solennemente

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promesso innanzi all’Europa, in un proclama pubblicato ovunque, che non darebbe opera ad alcun tentativo per agitar il suo regno. l’Amo credere che «mantenesse la sua parola… da principio almeno.

Tuttavia a Roma, intorno a lui, nel seno della sua famiglia già si cospirava. Ignoro se i comitati, de’ quali parlerò in appresso, fossero in que’ giorni organizzati. Ma so che si riunivano armi, si batteva moneta in nome di Francesco II, e si spargeva questo denaro nell’exreame; e perché vi fosse ricevuto, le nuove monete aveano la data del 1859, ed erano state astutamente annerite, non so con quale preparato chimico. Ne ho avute in mano: erano false; avevano un valore nominale di venti centesimi, e saranno appena costate dieci.

Questo denaro serviva agli arruolamenti, i quali furono aperti in Napoli nei monasteri, e nelle case de’ preti: una visita domiciliare in casa di uno di questi a San Giovanni a Carbonara, fece scuoprire una ragazza nascosta sotto un letto: narrò tutto, per non esser gettata nelle carceri delle prostitute. La polizia si stabilì nella camera del prete, e tenne essa stessa l’uffizio di arruolamento. Quanti vennero ad iscriversi furono presi e inviati, credo, nelle isole.

Nel tempo stesso fu arrestato il duca di Cajanello, che era stato ministro di Francesco II in Francia: si sospettava che ei corrispondesse con Roma: rimase molti mesi in prigione. Non ripeterò tutte le voci, calunniose forse, sparse a carico di lui: ne mancano le prove. È ignota la vera parte che ei potesse avere nella cospirazione, e si sa soltanto che questa esisteva, e doveva scoppiare in Napoli nel mese di aprile, che i prigionieri della Vicaria dovevano essere posti in libertà ed armati, che i loro custodi appartenevano al complotto, che la ribellione era fomentata nel tempo stesso nella città e nelle provincie,

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e che le bande de’ briganti furono ben tosto riconosciute e pagate dai Comitati Borbonici.

Allora soltanto il brigantaggio divenne politico. La reazione trovò questi uomini già riuniti, già fuori della legge, né ebbe scrupolo di adoperarli. Per parte loro i saccheggiatori non domandarono meglio che ricevere venti, trenta e perfino cinquanta soldi al giorno, e legittimare così le loro rapine; non erano più ladri, ma partigiani: ebbero rosarii ed amuleti; le loro dita furono adornate di anelli di zinco: poi riceverono bottoni ne’ quali era inciso una corona e una mano che impugnava uno stile con questo motto: Fac et Spera: fu loro concesso di continuare il loro mestiere, senza alcun timore: soltanto ebbero la raccomandazione di assalire di preferenza le proprietà de’ liberali, di disarmare i picchetti della Guardia Nazionale, di svaligiare più volentieri i patriotti, di porre ovunque i Gigli dov’era la Croce di Savoia, e di saccheggiare le borgate al grido di

Viva Francesco IL

E questo fecero, ed ecco in qual modo i ladroni senza cessar di essere ladroni addivennero campioni del diritto divino.

Allora cominciarono ovunque i. disordini, eccitati dai soldati licenziati che portavano l’anello di zinco. La banda di Somma (montagna unita al Vesuvio) quelle di Noia, di Gargano, delle Calabrie si formarono. A Castiglione il giorno di Pasqua e il giorno successivo (31 marzo e 1 aprile) avvennero gravi turbolenze, orribili eccidii: per ultimo si manifestarono i moti di Basilicata, sola provincia in cui durante questa lunga annata di civili scaramuccie, l’insurrezione si mantenne per qualche giorno.

Io mi tratterrò quindi con maggior diffusione sopra questa male augurata istoria, che ci fornirà una idea esatta di tutte le altre, e ci permetterà di procedere in seguito con maggior velocità nella nostra narrazione.

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D’altra parte noi troveremo in Basilicata una guida preziosa nel signor Cammillo Battista, che ha pur voluto raccontarci con semplicità quanto egli stesso co’ proprii occhi ha veduto nel suo paese natale.1 Ottimo esempio, che tutti gli scrittori dovriano seguire in tempi di rivolgimenti, anzi che sprecare il loro inchiostro in apologia o in sentenze premature. I cronisti esatti e modesti, come il signor Battista, forniscono un’opera migliorie, più utile e più duratura di quelle che non lo sieno le miriadi di opuscoli dei nostri oratori e dei nostri magistrati sorti per caso.

La istoria innanzi tutto esige i testimoni: vien poi il tempo degli avvocati e de’ giudici.

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa/Notizie_storiche_documentate_sul_brigantaggio_monnier.html#cospirazione

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