Brigante Alfonso CARBONE
Alfonso Carbone nacque in Montella nel 1847; cioè in quel paese che dette all’avellinese il maggior contingente di brigantaggio. Nei suoi sogni adolescenti, in quell’età così gioconda e spensierata, egli s’era dipinto un avvenire di quiete e di pace, nella grande poesia del lavoro dei campi e dell’affetto domestico. Invece, quando aveva solo venti anni, il destino gli aveva già addensato sul capo la procella più nera.
Un suo fratello, in un processo estremamente dubbio e indiziario, veniva condannato ai lavori forzati unicamente in omaggio alla deposizione rabbiosa e violenta d’un nemico, Salvatore Gambone; e non basta: è uopo anche aggiungere che la sua disgraziata famiglia da quel processo in poi non fu lasciata più tranquilla; ogni inezia diventava una buona ragione per farla bersaglio a tormentose persecuzioni. E come se tutto ciò fosse stato poco, il Carbone, per quel suo carattere risentito e vivace, fu preso in sospetto di manutengolo, e la giustizia, non perdendolo di vista, lo additava come un pericolo sociale e gli si stringeva dattorno con misure esagerate, le quali ad un cuore già tanto scosso ed esacerbato dovevano riuscire addirittura lame penetranti di pugnali. Egli, inoltre, non ignorava che essere in quei tempi sospettato in connivenza coi briganti, era la più tremenda delle iatture; e non ignorava… che una giustizia troppo rapida e affrettata aveva, non di rado, travolto rei e innocenti nella medesima rovina… Intravide nel suo buio avvenire la galera o anche la fucilazione, e alla giustizia che, tra l’aprile e il maggio del l868, lo ricercava, egli, atterrito, si sottrasse con la latitanza.
Esule dal suo paese e dalla sua famiglia, incalzato, come lupo mannaro, a quella età e vergine d’ogni reato, errando di montagna in montagna, con lo sgomento e la desolazione nel cuore, ebbe ancora la sventura d’imbattersi in Ferdinando Pico, quel Pico, che adescò tanti giovanetti al brigantaggio. Inesperto com’era e col cervello travolto dalla sua disperata situazione, la quale gli dava, inesorabile, un diritto di scelta tra la galera o la vita e lege e libera del masnadiero, cedé alle persuasioni di quel ribaldo… si fece brigante. Ma il Carbone non era nato al mal fare, era un delinquente di occasione, e non un delinquente nato.
Appena caduto nell’impeto disperato dei suoi disinganni, dappoichè egli si sentiva vittima dell’altrui malvagità si lasciò trasportare ad atti di violenza selvaggia contro i suoi persecutori; ma questi uragani di lava rovente, questi scoppi improvvisi di passioni e di energie, che valsero, in un mese, a dare sì triste celebrità al suo nome, si spensero in un momento. Egli tra l’aprile ed il maggio del 1868 diventava brigante e nel settembre di quell’anno aveva già compiuta la sua carriera criminosa, e non seguiva che macchinalmente gli sciagurati compagni. Chi studia i numerosi processi della banda Ferrigno-Pico (Archivio del Tribunale di Avellino N. 3083 e 3783) trova che la figura del Carbone non emerge singolarmente che nei primi quattro mesi della sua vita brigantesca, dal maggio al settembre 1868, per tutti i reati che si commisero in seguito, sia nel Salernitano che nell’Avellinese, non s’incolpava il Carbone, se non per la celebrità che lo circondava, e soprattutto perché era notorio ch’egli prima fosse stato un masnadiere della banda Ferrigno-Pico e che poscia, sparito il Ferrigno, avesse egli, assieme al Pico, ricostruita la banda ed avveniva che questa consumava i reati, e nei processi naturalmente venivano rubricati tutti, in blocco, senza darsi pensiero della parte rappresentata da ciascuno.
Ma, come si vedrà, il Carbone aveva in orrore quella vita tra i patimenti ed i delitti: dopo lo scoppio violento dei primi quattro mesi, nei quali egli fece le vendette sanguinose di colui che lo aveva condotto indirettamente alla disperazione di cercar quartiere tra le masnade brigantesche, in mezzo al sibilo dei serpenti, e di due spie le quali, fintesi briganti con l’accordo della Pubblica Sicurezza, tentarono mille insidie alla banda e a lui soprattutto non escluso il veleno. Dopo, il Carbone, quasi scompare dalla scena e il suo nome, nella banda, figura solo come numero. Insomma la sua vita delittuosa segna una linea parabolica dal 10 maggio al 6 settembre del 1868, dall’omicidio di Salvatore Gambone, che è il solo e vero reato, che egli consumava, cedendo ad un sentimento di vendetta cieca e furibonda al ratto di Dora… la bella creatura quindicenne della quale egli era perdutamente innamorato.
Ma, quando rapì la sua Dora, egli non era più che un brigante di nome, e il racconto della rapita, che nello studio dei processi ferma vivamente l’attenzione, ha note non prive d’interesse se non addirittura tenere e commoventi, le quali fanno tralucere la palingenesi morale, che, dopo soli quattro mesi di vita elege, già andavasi operando nel cuore del masnadiere. Imperocchè tratta seco la giovanetta e lontano le mille miglia da ogni pensiero losco, era solo pago di ripeterle, nell’effusione del suo cuore giovanile, che l’amava tanto, che doveva farne la sua sposa e che per essa avrebbe affrontato tutti i pericoli. Essi, narra la fanciulla, erano sempre uniti, erranti di foresta in foresta, e la sera, lungi dalla masnada, si trovavano addormentati l’uno accanto all’altro… Ebbene, se si pon mente che tutto questo non era che un amore… perfettamente platonico… il masnadiere si perde di vista, e tanta raffinatezza di sentimentalismo delicato, sullo sfondo della scena, dipinse la figura nobile e gentile di un cavaliere errante. Gli amanti vissero così parecchio nella purezza immacolata di un idillio soave, verginale… Se non che una notte, continua la rapita, la fibra rigogliosa dei venti anni si ridestò, e, dopo tante notti candide e innocenti, venne la prima notte di nozze… nell’aura balsamica della montagna… sopra un talamo di ginestre… al cospetto del cielo stellato! E fu il suo ultimo atto illegale, consumato in mezzo a un nimbo di poesia e di luce. Dicemmo che dal settembre del 1868 Carbone seguiva macchinalmente la banda.
Questa, forte di ventiquattro persone, non commise nulla di notevole fino al principio della primavera del 1869. Da quest’epoca, si rinnovano ricatti ed estorsioni e incominciarono a venire in mezzo, fra i due capi, dei dissidi tanto che sulla montagna di Solofra vi furono, fra i due comandanti, scambi di colpi di rivoltella, per cui restarono ambedue feriti. In seguito a detti fatti la banda si suddivise in due squadre, una, con a capo Andrea Ferrigno, si riversò nel Salernitano, dove il 28 maggio fu in buona parte distrutta dalla Guardia Nazionale di Castiglione, e l’altra, diretta prima dal solo Pico, e poscia anche dal Carbone, restò nell’Avellinese. Il Carbone convinto che col generale Pallavicini, che aveva il comando della zona, con poteri eccezionali, non ci si poteva tanto scherzare, pensò di deporre le armi e mettersi a discrezione delle autorità. Questo suo desiderio lo fece partecipe prima ai suoi dipendenti e poscia al Pico. Costui, pur simulando, incominciò ad insinuare nell’animo degli altri sentimenti di rivolta contro il Carbone, affermando che questi avrebbe finito per sacrificarli e condurli al macello, come pecore; e, quando gli parve giunto il momento opportuno, si oppose a visiera alzata alla presentazione. Il Carbone dapprima lo pregò, poi lo scongiurò e, quando si avvide che quel ribaldo non solo non cedeva, ma era addirittura riuscito a trarre dalla parte sua buona parte della banda, venuto il 2settembre (1869) a contesa con lui lo freddò con un colpo di fucile al petto. Il giorno 5 settembre all’1 p. m., al mulino comunale di Montella, al cavaliere Capone e al maggiore Orso, coi quali il Carbone aveva impegnata la sua parola, ed alla presenza di una immensa popolazione costituivasi l’intera banda, composta di undici briganti e dell’Antonietta Scarano da Solofra druda del Pico. Essi andarono difilato alla Chiesa parrocchiale ed ivi deposero solennemente le armi. I patti della resa furono:
1° Salva la vita per tutti.
2° Espiazione della pena in un isola.
3°Raccomandazione per la grazia Sovrana a tutti per diminuzione di pena dopo la causa.
4° Liberazione di tutti i parenti.
Alfonso Carbone fu condannato a morte; ma per grazia Sovrana, la fucilazione gli venne commutata in lavori forzati a vita. Nell’agosto del 1891, come abbiamo detto, gli uomini di cuore Paolo Anania De Luca e Nunziante Palmieri domandarono al nostro Re Umberto I la grazia per Carbone ed in tale occasione l’ex brigante così scriveva al Palmieri:Bagno penale di Orbetello
il dì 8/7/1891
Stimatissimo Signore
Riscondro alla vostra in data 4 giugno nel sentire tale lavoro fatto dalle Signorie loro, mi sono portato dal mio superiore, e desso mi ha data ciò ch’Ella mi accennava; Giammai mi credeva che le signorie loro fossero fatto si alto lavoro perme, io non so in che modo ricompensargli, spero che il nostro incomparabile sovrano vorrà dargli un benigno sguardo e allenirmi i miei patinienti mi racomando alle Signorie loro se v’è qualche buon esito me ne terreti avvisato. Io sono puro vostro patriotta, quindi mi pare che nella mia giovindù non furono in nessuna disgrazia. Però se Iddio mi darà un po’ di forza e il nostro Stato vorrà scemarmi un po’ la terribile perpetuità, io farò il tutto per fare che le signorie loro non rimanessero con viso oscuro verso di me e qualche mio buono fattore. Il lavoro fatto dalle Signorie loro è molto elegante, non mi credeva che vi erano persone che si fossero occupate per me chi sa un giorno potrebbe sdebitarmi di si beneficio. Le Signorie loro mi scuseranno al mio ritardo, darò i più distinti ossequi al Signore D.Paolo, e il comm. Capone, a lei vi auguro i più felici giorni e sono l’umile di lei servo
CARBONE ALFONSO
D.S. Perdonatemi che vi è degli errori perché scrivo si alla lungo.
fonte