Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Brigantesse, carnefici e vittime del nuovo regno

Posted by on Nov 27, 2024

Brigantesse, carnefici e vittime del nuovo regno

Ritratti Una galleria giornalistica di ritratti femminili legati all’Unità d’Italia. Donne protagoniste nell’economia, nelle scienze, nella cultura, nello spettacolo, nelle istituzioni e nell’attualità. Ogni settimana due figure femminili rappresentative della storia politica e culturale italiana passata e presente.

Le cronache del suo processo a Catanzaro, scritte nel 1864 da Alexandre Dumas, allora direttore dell’Indipendente di Napoli, la fecero diventare la fuorilegge più celebre del Sud postunitario e tramandarono il mito della brigantessa bella e crudele, “druda” senza cuore di uomini feroci. Ed in effetti Marianna Oliviero, detta Ciccilla, moglie di Pietro Monaco, ex sergente borbonico datosi al brigantaggio sulla Sila insieme a sbandati come lui e diventato il terrore dei possidenti e dei loro squadriglieri, offriva la storia perfetta per far fremere di orrore romantico i ricchi lettori dell’epoca. La leggenda nera che la porta ad essere condannata a morte – unica tra le brigantesse, poi commutata ai lavori forzati a vita per dimostrare la clemenza del nuovo Regno – la vede uccidere la sorella Concetta a colpi d’ascia quando scopre che piace al marito, poi rivaleggiare con lui in crudeltà, uccidendo e infierendo sui corpi dei nemici uccisi. Quindi – sopravvissuta nel 1863 all’agguato di briganti traditori nel quale Monaco finisce ucciso -, prepara la catasta di legna per bruciare il corpo del marito, come da codice brigantesco e guida la banda per altri 47 giorni, fino alla resa. E’ di questi suoi ultimi giorni di resistenza la foto che la tramanda con il bel volto solcato da un sorriso beffardo, sotto il cappello alla calabrese, la giubba da uomo, il braccio al collo per la ferita dell’agguato scampato, la pistola alla cintura, la doppietta stretta tra le mani. I calabresi cantavano di lei: “Lu cori comu na petra mpttu tinia”.  E di quei cuori di pietra tenuti in petto aveva paura anche Garibaldi. “Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato”. E’ uno dei passaggi della lettera del 7 settembre 1868 con cui l’eroe spiega perché si è dimesso da deputato del nuovo Regno d’Italia, “un mandato divenuto ogni giorno più umiliante”. Nel suo esilio volontario di Caprera il vecchio generale scrive ad Adelaide Cairoli. Alla donna che venera “impareggiabile madre”, che gli ha sacrificato tre figli garibaldini e che si prepara a piangerne un altro per le ferite subite a Villa Glori, Garibaldi esprime tutta la sua amarezza perché le popolazioni meridionali “care al mio cuore, perché buone, infelici, maltrattate ed oppresse”, neanche dieci anni dopo l’impresa dei Mille, “maledicono oggi coloro, che li sottrassero dal giogo di un dispotismo, che almeno non li condannava all’inedia per rigettarli sopra un dispotismo più orrido assai, più degradante e che li spinge a morire di fame”. C’è intatta e aggravata l’accusa di “guerra fratricida” che sette anni prima, nel suo primo discorso alla Camera, il 18 aprile 1861, a Torino, in camicia rossa e poncho grigio, aveva lanciato contro un pallido Cavour, reo di aver dimenticato l’esercito meridionale che aveva tanto combattuto per il sogno unitario. Ad un certo punto Garibaldi aveva buttato via i foglietti del discorso moderato che gli avevano preparato, per tuonare tutto il suo disprezzo contro chi lo aveva “fatto straniero in Italia”. Aveva quindi messo in guardia dal pericolo degli sbandati dell’ex esercito borbonico, dai rischi del brigantaggio politico se non fossero state mantenute le promesse attese dalle genti del Sud. L’aula si era infiammata, c’era chi era arrivato ad agitare il pugno sotto il volto di Cavour, la seduta era stata sospesa. Ma, in quei sette anni, tutto si era purtroppo avverato. E in modo ancor più agghiacciante. Sotto le 160mila bombe che portano il 13 febbraio 1861 alla caduta della fortezza di Gaeta e la fuga di Francesco II, ultimo Re di Napoli, è nata la questione meridionale. La povera gente con crescente rabbia non vede mantenuta la promessa di prendere il possesso delle terre demaniali espropriate, che vengono vendute invece all’asta ai nuovi accaparratori del nord Italia. Come con i Borboni, si ritrovano di nuovo a lavorare terre che sono di aristocratici e latifondisti. Ma ora sono più affamati di prima, tra degrado e corruzione crescenti. Lo Stato sabaudo affronta la sua bancarotta e finanzia le sue industrie triplicando le tasse e abolendo antichi usi contadini come il legnatico e l’erbatico. La leva militare obbligatoria, che toglie ai campi le braccia migliori, costringe i giovani contadini a diventare disertori. E a darsi alla macchia trovando nei boschi altri sbandati come loro: ex soldati, evasi, vittime di faide che lo sconquasso sociale ha scatenato. Tutti, nella disperazione, credono alle sirene dei cospiratori filoborbonici sulla necessità di lottare per il ritorno dei Borbone sul trono. E la furia repressa contro i “baroni” del vecchio ordine esplode contro quelli del nuovo, che regna da un paese sentito come “straniero”. Esplode così la ferocia del brigantaggio, prima politico, poi solo criminale.  Una tipica “creatura” di questa deriva è Carmine Crocco, figlio di un pastore di Rionero incarcerato ingiustamente, la madre chiusa in manicomio per il dolore, vittima fin da bambino delle vessazioni dai signorotti, arruolato a forza nell’esercito borbonico, uccisore di un uomo che ha sfregiato la sorella che lo ha rifiutato, combattente nella battaglia del Vulture perché Garibaldi ha promesso l’amnistia dei reati commessi sotto i Borbone. Amnistia che con il nuovo Regno però non concede. Per non finire in cella Crocco deve darsi alla macchia e si mette al servizio dei legittimisti. Nella Pasqua 1861, a 31 anni, è già diventato il “generale dei briganti”. Grazie alla sue capacità militari arriva a comandare 2mila uomini, per 43 bande, sparsi tra Basilicata, Campania, Molise e Puglia. Mette nel castello di Logopesole il suo quartier generale e fa del Vulture-Melfese il cuore della ribellione contadina. E’ tale la sua fama che i carlisti spagnoli, alleati stranieri del re Borbone in esilio, gli inviano un loro “eroe”, il generale catalano José Borjes, per trasformare la brigantesca avanzata in una offensiva  militare (ma Borjes finisce per essere allontanato dal diffidente capobrigante e fucilato, l’8 dicembre 1861, vicino Tagliacozzo, mentre tenta di varcare il confine pontificio). Malgrado l’avvertimento di Garibaldi il nuovo Regno risponde alla ribellione dei contadini senza terra con un agghiacciante massacro: quello del 14 agosto 1861, a Pontelandolfo e Casalduni, nel  Beneventano, ordinato dal generale Cialdini come rappresaglia per l’uccisione e lo scempio dei cadaveri di un drappello di bersaglieri. In 400 quel mercoledì mattina entrano a passo di carica nei due paesi, agli ordini del luogotenente colonnello Gaetano Negri, che sarà sindaco di Milano, quando ormai i briganti sono già lontani e abbattono chiunque si trovi loro davanti, con ferocia disumana. Non risparmiando i bambini, anche lattanti. E le donne. Muoiono uccise a colpi di baionetta, dopo stupri collettivi, Maria Izzo, Maria Ciaburri e la 18enne Concetta Biondi. Quest’ultima la ricorda una lapide, insieme a 13 nomi. La cifra ufficiale. Ma la cifra ufficiosa è di 164 vittime, considerata anche sottostimata visto che i due paesi vennero rasi al suolo. Poi, nel 1863, quando ormai i briganti sono diventati il nemico invisibile – coperto dall’omertà popolare -, che crocifigge, mutila e arde vivi i bersaglieri, arriva la legge Pica con 120mila soldati, tribunali di guerra, fucilazioni sommarie, distruzione dei villaggi sospetti. E’ la dittatura dell’orrore che dal 1861 al 1870, anno dell’abolizione delle zone militari al Sud, farà più morti che tutte le guerre di indipendenza messe insieme: 5mila uccisi e 7mila condanne a morte le cifre ufficiali (laddove le guerre risorgimentali avevano causato 6262 morti e circa 20mila feriti); 250 mila vittime e 500mila condannati secondo le cifre ufficiose. A chiudere il brigantaggio l’esodo biblico oltreoceano di 6 milioni di meridionali su una popolazione di 9 milioni. E, nel 1870, l’uccisione in strada a Napoli del brigante Pilone, scalpellino di Boscotrecase per anni intoccabile signore delle malefatte sotto il Vesuvio. E la chiusura del campo di concentramento di Fenestrelle in cui erano stati rinchiusi, dal 1861, 24mila soldati borbonici meridionali: una fortezza a 2mila metri sulle montagne piemontesi, in celle con palle al piede da 16 kg, senza finestre e sotto zero, in cui si resisteva in vita in media tre mesi, i cadaveri poi sciolti nella calce viva. Otto giorni prima che Garibaldi scrivesse la sua lettera-denuncia, il 31 agosto 1868, il cadavere nudo e seviziato della contadina Michelina De Cesare veniva fotografato. Era stato appeso in piazza di Mignano, il paese del Casertano in cui Michelina era nata 27 anni prima, accanto a quello del marito, il brigante Francesco Guerra, uno dei più temuti in Terra di Lavoro, ucciso in una imboscata sulle pendici del monte Morrone. La storia racconta che anche Michelina perisce nella sparatoria “digrignando i denti per la rabbia di essere stata vinta e non per l’orrore dei misfatti compiuti”. E invece viene torturata perché riveli il nascondiglio della sua banda. Quella foto del suo corpo martoriato viene fatta per spregio. Ma diventa il simbolo del dramma delle brigantesse. Ribelli per rabbia e per amore. La bellissima Michelina per sei anni ha condiviso le scorrerie della banda del suo Francesco, ex sergente dell’esercito borbonico, abile nelle tecniche di guerriglia – rapidi spostamenti, segnali di fumo, rami spezzati e richiami di uccelli usati come avvertimenti – che lo hanno reso inafferrabile. E’ così orgogliosa del suo ruolo di brigantessa che si fa fotografare in abiti tipici, in pose da diva, insieme al suo fucile. Ma la nuova “tattica” attuata dal 1868 dal generale Emilio Pallavici dà i suoi frutti. Il generale (che, dopo aver fatto ferire Garibaldi sull’Aspromonte è diventato, insieme a Cialdini, il braccio armato della repressione del brigantaggio) minaccia le popolazioni di deportazioni di massa se i manutengoli dei briganti non si decidono a collaborare. Già in primavera vengono sbaragliate le bande di Ciccone e Pace che spadroneggiavano tra Caserta e Campobasso. Il 30 marzo, in un combattimento nei boschi di Presenzano, resistono strenuamente prima di arrendersi la 18enne Maria Capitanio, di San Vittore del Lazio, compagna da tre anni del brigante Agostino Luongo, ex operaio delle ferrovie e due ventenni contadine di Cervinara, nell’Avellinese: Giocondina Marino, compagna del capobanda Alessandro Pace, di Mignano e Carolina Casale, druda del suo luogotenente, Michele Luppiello, di Roccamonfina. Al momento dell’arresto la prima è incinta al quarto mese, la seconda al quinto. Erano diventate fedeli e agguerrite brigantesse dopo essere state rapite dai briganti. Loro verranno condannate ai lavori forzati mentre Maria, che aveva invece scelto di darsi alla macchia liberamente, verrà prosciolta grazie a testimoni pagati dal padre che racconteranno di un sequestro inesistente.  Innumerevoli furono le storie di amore di donne che si trasformarono in esistenze sanguinarie. Maria Maddalena De Lellis, detta la Padovella, casertana di S. Gregorio Matese, unica brigantessa non analfabeta di cui si abbia conoscenza, diventa brigantessa al fianco dell’ex caporale borbonico Andrea Santaniello. E’ lei che scrive le lettere con cui la banda minaccia le popolazioni. Ad un prete di Mignano chiede un riscatto per il nipote sequestrato, allegando un pezzo d’orecchio del giovane. Ma le 900 piastre che il religioso invia non la soddisfanno. Lei gli scrive di inviare altro denaro, ma il religioso alla fine verrà comunque ucciso. Santaniello, braccato, nel 1869, si rifugia nel suo paese, Bracigliano, nel Salernitano, dove viene però tradito e catturato. Bracigliano è anche al centro di una macabra contesa per aggiudicarsi le teste dei due amanti-briganti Giacomo Parra detto Scorzese e Giuseppina Gizzi, detta Peppinella. Anche lei, bellissima, è stata rapita da Scorzese cui la bella popolana aveva portato viveri e biancheria. L’ex  manutengolo che li tradisce e li fa cadere in una imboscata promette le loro teste al sindaco di Muro Lucano, in cambio dell’impunità, ma poi le vende al miglior offerente: ossia il sindaco di Bracigliano. Ancora un favoreggiatore prezzolato è quello che il 13 marzo 1864, presso Lagopesole, fa uccidere il 31enne Giuseppe Nicola Summa, alias Ninco Nanco, il più sanguinario dei luogotenenti di Crocco, ex guardiano di vigne di Avigliano, nipote di bandito, omicida a 20 anni, rifiutato anche dalle file garibaldine. Ninco Nanco, catturato vivo, viene fulminato sul posto, ufficialmente, da un colpo a tradimento. Ma in realtà viene freddato per impedirgli di svelare i nomi di complici insospettabili. Il giorno dopo il cadavere è esposto in piazza, in una Potenza che festeggia entusiasta, a suon di banda, accanto alle teste di altri tre briganti uccisi nel bosco di Lagopesole. Nove giorni prima Ninco Nanco era scampato ad un agguato in cui aveva salvato il fratello Francescantonio ma era rimasta catturata, armi in pugno e nella classica tenuta maschile, la sua amante 18enne, Lucia Pagano, bella bracciante, abbandonata piccolissima dai genitori, rapita da Francescantonio. Verrà condannata a 10 anni di reclusione, la metà trascorsi nell’isola del Giglio. Qui finisce anche Luigia Cannalonga, contadina di Serre, acerrima nemica di Garibaldi, che aiuta il figlio Gaetano Tancredi, ex soldato borbonico, a diventare il bandito Tranchella, il terrore dei monti Alburni dal 1861 al 1864. In carcere trova altre contadine donne di briganti: Giovannella Mazzeo, Angela Iacullo, Sofia Martuscelli. Finito ucciso il figlio, ad Eboli, Luigia viene scarcerata e va in cerca della donna dalla quale Gaetano ha avuto una bambina: Francesca Cerniello, una contadina di Altavilla diventata la “regina” del bosco di Persano, a fianco di Tranchella, poi arresasi  e condannata a 15 anni di lavori forzati. Stessa pena inferta alle compaesane Giuseppa Cantalupo, Anna Rocco e Carminella Arietta, le vivandiere di Tranchella. Dopo la morte del bandito serrese la sua banda continua a colpire tra Eboli e Battipaglia con i suoi sottocapi Vitantonio D’Errico detto Scarapecchia, dai lunghissimi capelli e Nunziante D’Agostino. Il primo si prende per sé anche una delle amanti del capo, Filomena Di Ponte, arrestata nel 1865. Perché minorenne è condannata “solo” 15 anni di lavori forzati. Il secondo ha al suo fianco Chiarina Di Nardo. A Postiglione (Salerno), suo paese di origine, nel marzo 1867 uccide, perché sospette spie, Francesco Amoroso e i figli Gaetano e Lorenzo, quest’ultimo decapitato e fatto a pezzi dal brigante Raffaele D’Ambrosio, che pulisce la scure insanguinata con le labbra. Un testimone dell’eccidio descrive Chiarina come colei che, dopo il massacro, si infila gli stivaletti di una delle vittime. Nella banda di Scarapecchia viene ricordata anche Orsola D’Acquisto, di Palinuro, folta capigliatura corvina, occhi celesti, che muore il 13 marzo 1867, a 27 anni, in un conflitto a fuoco ad Acerno. Spira in carcere Arcangela Cutugno, di Montescaglioso, condannata a 20 anni, moglie di Rocco Chirichigno, detto Coppolone, diventato brigante, nel circondario di Matera, per delusione. Come accaduto a Crocco, dopo aver combattuto per Garibaldi non gli era stato dato nulla, nemmeno il pezzo di terra promesso. Anche l’unica brigantessa pugliese impegnata in azioni di guerriglia, Elisabetta Blasucci, da Ruvo di Puglia, donna del brigante lucano Giovanni Libertone, condannata a 20 anni di carcere, muore dietro le sbarre. Una setticemia uccide nel 1866, a 21anni, nel carcere di Potenza, Serafina Ciminelli, di Francavilla in Sinni, condannata a 15 anni di lavori forzati. Era la minuta amante del gigantesco Giuseppe Antonio Franco, che per tre anni seminò il terrore nel Lagonegrese. La coppia, il 27 dicembre 1865, viene catturata in una casa di Lagonegro, tradita da una guardia nazionale che aveva promesso loro dei passaporti falsi. Franco viene fucilato il 30 dicembre  sulla collina di Monte Reale.  Il resto della banda, per vendetta, piomberà sul paese facendo strage del presidio rimasto sguarnito. Alla stagione dei tradimenti dei manutengoli, che accompagna i colpi di coda del brigantaggio, si giunse dopo anni di pressoché completa omertà.  Lo dimostra il fatto che Maria Pelosi, druda del brigante Angelo Croce, nel suo processo a Salerno, accusa pubblicamente il sindaco e lo aggredisce tentando di strangolarlo con il pubblico che grida “Viva Maria”.  I più sanguinari briganti militavano nelle bande di Carmine Crocco. A loro si devono gli stermini più efferati, come quello nel febbraio 1863 di 17 soldati nei pressi di Benevento e del marzo 1863 di 15 cavalleggeri di uno squadrone di Saluzzo, a S. Nicola di Melfi. Vincenzo Tortora, Giovanni “Coppa” Fortunato, Vincenzo Di Giovanni, detto Totaro, tutti di Sanfele, tutti renitenti alla leva, fanno subire ai nemici catturati orribili sevizie. Il primo si vanta di aver sgozzato oltre 100 soldati e spesso di averli suppliziati. Il secondo uccide a tradimento i suoi stessi compagni sospetti di tradimento (in un sola notte ne scanna 8) ed è noto per bere il sangue delle sue vittime e godere delle torture dei prigionieri. Viene ucciso da Tortora, che sarà condannato ai lavori forzati a vita, dopo che ne aveva violentata e uccisa l’amante ventenne. Altro “bevitore” di sangue è il Totaro, dai lunghi canini, la barba ispida, lo sguardo feroce: anche lui pulisce con la lingua le lame con cui uccide. Fa a pezzi un fante dopo averlo torturato, legato ad un albero, tagliandogli le orecchie ed evirandolo. Manda come trofeo a Sanfele il cadavere di un ricco possidente impalato. Sequestra una ragazza, dopo due mesi chiama la madre per venirsela a riprendere. Ovviamente la donna la trova morta ed uccide anche lei. Nel massacro dei fanti a Benevento c’è anche il 26enne Michele Caruso di Torremaggiore, uno dei più temibili briganti che infestano la Capitanata, il Sannio e il Molise. Viene soprannominato “Il Colonnello”. Ha emanato un editto che richiama gli sbandati alle armi sotto le insegne di “Sua Maestà Francesco II” promettendo soldi, gradi, vitalizi. E’ un folle sanguinario e non fa differenze di censo: decapita i possidenti, per provare la polvere spara sui contadini. Teme una sola persona. Una bellissima ragazza 18enne, Maria Luisa Ruscitti, sguattera di un possidente di Cercemaggiore, in Molise, che ha rapito e resa sua amante. Il folle assassino, dopo i suoi massacri, sfugge gli occhi puri della ragazza. E’ nascosta in un pagliaio con lui, a Molinara, quando cadono in una imboscata. Lui viene fucilato il 12 dicembre 1863, a Benevento, davanti ad una folla enorme accorsa da tutto il circondario. Lei verrà condannata a 25 anni di prigione. Caruso era alleato di Giuseppe Schiavone, detto Orecchiomuzzo, contadino di S. Agata di Puglia, renitente alla leva diventato il terrore delle valli dell’Ofanto. Dal 1862 cavalca al suo fianco, con schioppo e pugnale e cappello alla calabrese, la 21enne Filomena Pennacchio. Bruna irpinese di San Sossio Baronia, figlia di un macellaio, a 18 anni si nasconde nel bosco di Lucera, dopo aver ucciso il marito geloso, un cancelliere del tribunale di Foggia, trafiggendolo con uno spillo d’argento. Qui incontra il brigante il 39enne Giuseppe Caruso, guardiano di nobili di Atella che si è dato alla macchia dopo aver ucciso una guardia nazionale ed è diventato il più famigerato luogotenente di Crocco, insieme a Ninco Nanco. Ne diviene amante ma poi viene “passata” anche a Crocco. Si pensa che sia stata la rivalità tra Caruso e Crocco per Filomena ad aver convinto il primo ad arrendersi, nel settembre 1863, a Rionero. E a diventare il grande pentito che porta alla fine il brigantaggio nel Vulture-Melfese: aiuta infatti il generale Pallavicini a braccare Crocco, su cui pende la stratosferica taglia di 20mila lire, facendogli terra bruciata intorno, sbaragliando la sua banda sull’Ofanto il 25 luglio 1864 e spingendolo a cercare aiuto nello Stato Pontificio dove però viene arrestato, a Veroli. La lista dei delitti di Crocco, letta in tribunale a Potenza, è impressionante; computa anche 1 milione e 200mila lire di danni bellici. L’11 settembre 1872 la condanna a morte, commutata nei lavori forzati a vita. Finirà i suoi giorni nel carcere di Portoferraio nel 1905, a  75 anni, dopo aver scritto le sue memorie. Grazie alla cattura di Crocco, Caruso si conquista la grazia e la nomina di brigadiere delle guardie forestali di Monticchio. E questo malgrado, in quattro anni di latitanza, avesse uccise 124 persone e non ne avesse rimorso. Lui stesso confessa che disseminava le sue fughe di morti proprio per costringere i suoi inseguitori a fare delle soste pietose.  Quando, dopo gli amori rusticani con Caruso e Crocco, Filomena arriva tra le braccia di Schiavone, si fa una fama di fredda sanguinaria. In un podere di Trevico, nell’Avellinese, sgozza un bue davanti agli occhi della atterrita proprietaria taglieggiata dalla banda. Partecipa anche al massacro del 4 luglio1863, sulla consolare tra Napoli e Campobasso, di 10 soldati piemontesi. E la sua entrata in scena porta alla fine di Schiavone. Una sua ex amante gelosa, Rosa Giuliani, conduce i soldati sulle tracce degli amanti che si trovano a Melfi. Qui Schiavone viene fucilato il 28 novembre 1864. Come ultima volontà chiede al generale Pallavicini di poter abbracciare la sua Filomena. Il generale accetta e ovviamente arresta anche la donna, sebbene in stato di avanzata gravidanza.  Verrà condannata a 20 anni di lavori forzati, scontati a 7 perché farà arrestare Agostino Sacchittiello, ex caporale borbonico a capo di una banda di 160 briganti, la metà a cavallo, che dominava in alta Irpinia e Basilicata  e la sua amante, Giuseppina Vitale. Fa arrestare anche Maria Giovanna Tito, prosperosa e fedele amante di Crocco, dopo che questi aveva lasciato la moglie Olimpia, (che poi divenne compagna di Luigi Alonzi detto “Chiavone”, capobanda di 500 uomini tra Sora e l’alta Terra di Lavoro,  nominato da Francesco II  “comandante in capo di tutte le truppe del Re delle Due Sicilie”, che vestiva l’uniforme da generale e pagava i suoi banditi 6 carlini al giorno, più del triplo della paga dei contadini e che finirà “giustiziato” nel giugno 1862 a Trisulti dai fedeli degli avventurieri stranieri che si erano associati alla banda). Crocco rimpiazzò poi Maria Giovanna Tito con una vivandiera di Sacchittiello, nella cui banda si ricorda anche Rosa Reginella, che combatte per non farsi catturare a Bisaccia (Avellino) nel novembre 1864, malgrado l’avanzato stato di gravidanza e partorisce due mesi dopo ai lavori forzati. Partorisce in carcere anche Maria Rosa Marinelli, poverissima contadina di Marsicovetere, dal 1862 druda di Angelantonio Masini, capobanda lucano, terzo tra i massimi ricercati dopo Carmine Crocco e Ninco Nanco. E’ con lui quando, il 20 dicembre 1864, il brigante viene sorpreso dalla guardia nazionale nella casa di un ex manutengolo di Padula. Masini viene ucciso, lei fugge saltando sui tetti delle case vicine. Poi si costituisce e viene condannata a 4 anni di carcere. Nella banda di Masini militano anche la vivandiera Reginalda Cariello, 24enne contadina di Padula, rapita da un brigante compaesano e che veste come un uomo (ma sarà assolta nel 1865 per mancanza di prove, quindi condannata in appello a 4 anni), Filomena Cianciarullo (rapita dal cugino di Masini), madre di due figli dello stesso Masini, il secondo partorito in carcere, nel 1866 e condannata a 3 anni. Più figli di briganti li partorì anche una ventenne di Agerola, Filomena Miraglia, donna di Gennaro Cretella, detto Diavollillo, che “compariva in paese quando era resa incinta”. Del tutto innocente è  invece Maria Suriani, una bella e bionda ventenne di Atessa che nel 1866 viene condannata come amante del capobrigante Domenico Valerio, detto Cannone. Il manigoldo massacra di botte il padre perché lo crede una spia. In realtà sono stati dei parenti invidiosi dei Suriani a spargere la falsità. Gli stessi avrebbe scritto una lettera d’amore indirizzata a Cannone e firmata da Maria. Che però non poteva farlo perché analfabeta. Quando i revisori del processo se ne accorgono e liberano la ragazza, lei si è già fatta 9 mesi di lavori forzati in Sardegna. Tipico esempio di “sindrome di Stoccolma” è quello di  Anna Durante, amante di Gaetano Vardarelli, il capo della banda che gli inglesi pagano per combattere Murat ad inizio ‘800, tra Molise e Puglia. Il “Gran Vardarello” impicca il padre di Anna, un magistrato pugliese, nella casa del suo giardino e piomba sulla figlia che gli spara contro dall’interno della casa. Ma la ragazza se ne innamora. E’ al suo fianco quando la banda è braccata, nel 1816 e Gaetano finisce con una fucilata la sorella Anna Antonia, ferita gravemente, perché non cada viva nelle mani degli inseguitori. E piange sul suo corpo quando il suo ormai ex “battaglione” di briganti, inquadrato nell’esercito borbonico, viene massacrato in un agguato sulla piazza di Ururi, nel 1817, ordito proprio dai militari borbonici. Anche il brigantaggio in Calabria tramanda storie di feroce miseria. La 21enne Generosa Cardamone, druda di Pietro Bianco, nel 1868 a Cosenza viene gettata in carcere malgrado l’avanzato stato di gravidanza. Maria Brigida muore dissanguata la notte del 12 luglio 1869 nello scontro a fuoco nel quale viene catturato, nel bosco di Macchia Sacra, il 38enne Domenico Strafaci, il bracciante di Longobucco che si ribella alle vessazioni di un signorotto di Rossano Calabro e diventa Palma, uno dei briganti più famosi della Sila, amatissimo dal popolo perché colpiva solo i ricchi (nel 1864 uccise in un colpo 458 capi di bestiame di due possidenti di Campana). Maria Brigida, sorpresa dal padre tra le braccia di Palma, vede ucciso il genitore dal famigerato braccio destro del bandito, Vulcano. Malgrado ciò spera che Palma la prenda con sé, ma lui invece la abbandona. Quindi si lega ad una guardia nazionale in casa del quale, quella sera del 12 luglio, capitano proprio Palma e Vulcano, sfiniti dalla caccia che gli ha scatenato contro il colonnello Milon. Maria corre di nascosto a chiedere rinforzi e trova poi la morte nella sparatoria che si scatena e nella quale anche i briganti vengono feriti a morte. Il giorno dopo la testa decapitata di Palma arriva sulla scrivania di Milon in un vaso di cristallo ripieno di spirito. La Calabria ricorda anche un altro bandito vendicatore dei contadini (anni prima di Giuseppe Musolino, le cui gesta ad inizio ‘900 finiranno anche sul Times): Andrea Orlando, un contadino di Spiliga. Muore nel 1862, a 86 anni, assistendo quindi all’esplodere del brigantaggio post-unitario. Era stato uno dei più famosi briganti della Calabria che, novella Vandea, si opponeva all’occupazione dei francesi – e alla vendita dei beni ecclesiastici ai più danarosi e non al popolo – e con i briganti al soldo dei borbonici in esilio in Sicilia e riforniti di armi dagli inglesi. Orlando, brigante dopo che aveva ucciso un esattore che aveva affamato la madre, nel 1808 era il  luogotenente del sanguinario Bizzarro, i cui 2mila briganti infestavano il versante tirrenico tra Reggio e Catanzaro. Ma, per l’efferatezza dei metodi del capo, passa alla causa dei francesi e giura vendetta contro Bizzarro. Ma a finire Bizzarro ci penserà la sua ultima donna, Niccolina Licciardi, con cui il brigante aveva rimpiazzato Margherita, una ragazza che aveva rapito dopo averne sterminata la famiglia. Braccato dalle guardie si nasconde in una grotta ma il pianto del figlio appena partorito da Niccolina rischia di farlo scoprire. Afferra quindi il neonato e lo sfracella contro una parete. La donna, senza una lacrima, scava una fossa in cui seppellisce il corpicino e veglia il tumulo anche la notte. Poi, mentre Bizzarro dorme, gli spara in un orecchio, lo decapita e porta la tesa al governatore di Catanzaro. Quindi intasca la taglia e se ne torna sui monti. Un’altra efferata vendetta è quella compiuta da Francesca La Gamba, di Palmi. Quasi quarantenne, bellissima, rifiuta un ufficiale francese che incolpa quindi i due figli della donna di cospirazione e li fa fucilare. Francesca, pazza di dolore, si mette a capo di una banda di briganti per sterminare i francesi. In una delle sue imboscate cattura proprio l’odiato ufficiale al quale apre il petto con una coltellata e ne divora il cuore ancora caldo. Era calabrese (di Motta Santa Lucia) e contadino il brigante Giuseppe Villella che diede a Cesare Lombroso la “prova” della “delinquenza anatomica”. Nel cranio di Villella, morto di tifo in carcere, a Vigevano, nel 1872, il celebre antropologo scopre una “fossetta” nella cresta occipitale. Risulterà una innocua anomalia, ma, grazie ad essa, le sue ossa  sono tra le poche delle quali si sa l’identità tra i tanti resti di fuorilegge che permisero a Lombroso di fondare, nel 1876 a Torino, il Museo di Antropologia Criminale, per questo considerato la più grande “fossa comune” di briganti meridionali. Francesco Saverio Sipari, zio di Benedetto Croce nel 1863, scrive: “Il brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata”. Anni dopo Carlo Levi dirà: “Il brigantaggio non è che un eccesso di eroica follia: un desiderio di morte, e di distruzione, senza speranza di vittoria”. (Marina Greco)(© 9Colonne – citare la fonte)

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