BRIGANTI O PATRIOTI?
I Briganti coloro che si batterono nell’Italia meridionale contro le truppe del Regno d’Italia appena costituito (1961)…
L’ultima fatica di Francesco Mario Agnoli, lo scrittore che si è meritata una posizione di primo piano fra gli storici delle Insorgenze (i moti popolari di difesa e di reazione contro le truppe francesi e quelle dei loro alleati “giacobini” della Repubblica Cisalpina, negli anni dal 1796 al 1815), è dedicata ai Briganti, ossia a coloro che si batterono nell’Italia meridionale contro le truppe del Regno d’Italia appena costituito (1961). Agnoli è un valoroso magistrato, da sempre addetto alla giurisdizione civile, abituato, quindi a scrivere sentenze. Questa volta il suo libro, dal titolo di Dossier Brigantaggio (che non è all’altezza del valore dell’opera) ha il taglio di una requisitoria. Certamente una requisitoria non di quelle acri, ottuse, acritiche come accade ahimè di sentire sovente nelle aule di giustizia. No, la sua è intelligente, ariosa, dotta, criticamente aperta alla riflessione sui fatti contrari alla tesi sostenuta e alle opinioni altrui. E questa scelta letteraria giova non poco alla leggibilità del libro, che è avvincente. Agnoli immagina di “compiere un viaggio nei territori del brigantaggio politico meridionale negli anni dal 1860 al 1870” scegliendo le propri guide “fra i dimenticati o vilipesi abitanti di quelle terre”. Va detto subito che l’opera è il frutto di una “scelta di campo”. Non è la storia della “liberazione” ma della “conquista” del Sud da parte delle truppe piemontesi, nel solco aperto da Carlo Alianello con i suoi romanzi e i suoi saggi. Chi erano i briganti? Secondo la storiografia ufficiale, erano bande di malfattori che, scorrevano, come si dice, le campagne, taglieggiavano le popolazioni e si opponevano armati alla forza pubblica, inviata nelle regioni del soppresso Regno delle Due Sicilie per restaurare l’ordine pubblico. Secondo la storiografia alternativa, oggi di gran moda – e secondo Agnoli – erano patrioti fedeli al Re borbone, che si ribellavano alle vessazioni dell’amministrazione pubblica del Regno d’Italia (leggi Piemontesi), e per questo, si univano alle bande dei briganti, creando in tal modo un fenomeno politico- militare nuovo, il brigantaggio politico. Le simpatie di Agnoli vanno decisamente verso i briganti, anche se il nostro Autore non è uno di quelli per i quali un marcel diventa ogni villan che parteggiando viene. Egli sostiene che “… la presenza di briganti nelle fila dei sostenitori dei borbonici, non significa affatto che la loro guerra sia, necessariamente, guerra di briganti. E’ questione non solo e non tanto di numero e proporzione, ma di indizi gravi, precisi e concordanti, che impongono di affermare che, fatte salve poche eccezioni, quei briganti non sono più tali nel momento stesso in cui decidono di unire le sorti a una delle parti in lotta: si tratti dei garibaldini, dei comitati insurrezionali liberali o di quelli borbonici. Se si leggono senza tabù e pregiudizi le cronache del tempo e gli stessi atti ufficiali, con particolare riguardo a giudiziari, risulta evidente come la molla di simili decisioni non sia affatto il desiderio di rapina”. E’, ad avviso dell’Autore, “in apparenza più ragionevole la tesi che crede di trovare la prova della trasformazione dei ribelli borbonici in briganti nella ferocia con la quale viene condotta la guerriglia, nei saccheggi, nell’uccisione dei prigionieri, nelle estorsioni a danni dei ga1antuomini (ricchi borghesi), a volte senza distinguere fra liberali e borbonici. Mezzi e modi disapprovati anche [il loro alleato] Borges e dall’altro generale carlista Rafael Tristany, i quali, a loro volta, d’accordo in questo con i piemontesi, considerano non guerriglieri ma briganti, combattenti come il lucano Carmine Crocco, il ciociaro Luigi Alonso detto Chiavone e i loro più
stretti collaboratori”.
[Il Borges, evocato da Agnoli, è il generale spagnolo Josè Borges, reduce dalle guerre carliste, sbarcato in Calabria e unitosi a Carmine Crocco, per contribuire alla cacciata dell’esercito piemontese. Ma presto si rese conto che Croco era un volgare bandito e se ne distaccò, per andare a morire fucilato dai Piemontesi. Borges non poteva più a lungo rimanere con Crocco, che considerava “un ladro, anzi il re dei ladri”.] Insomma, i briganti erano davvero briganti. Ma Agnoli è persuaso che “… non servirebbe a tracciare una linea di demarcazione fra briganti e combattenti un’indagine diretta ad accertare chi per primo abbia fatto ricorso a sistemi avversi alle regole che il diritto internazionale prevede anche per il caso di guerra, comunque contrari all’umanità. L’operazione può non essere del tutto inutile, ma solo al fine di esprimere per una delle parti un giudizio di minore responsabilità, di concedere l’attenuante della provocazione, infine di fornire una parziale giustificazione a chi abbia reagito, sia pure, a sua volta, eccedendo i limiti, ad una eccessiva violenza altrui. Tuttavia, se ci si pone su questo piano, sono proprio le responsabilità dei piemontesi a soverchiare di gran lunga quelle dei cosiddetti briganti borbonici (…) Né va dimenticato che, come sempre accade nelle guerre di rivolta, i borbonici per procurarsi non solo le armi, ma addirittura il cibo indispensabile alla sopravvivenza. possono contare unicamente sui contributi volontari della popolazione, che condivide la causa per cui essi combattono. Se questi vengono meno per effetto della disaffezione, della diffusa miseria o, come quasi sempre avviene, dei terrore di crudelissime rappresaglie, del vuoto provocato da stragi, incendi, indiscriminate carcerazioni, non rimane che il ricorso ad un terrore altrettanto forte, al saccheggio e alle estorsioni nei confronti di chi parteggia, per connivenza o viltà, col nemico o viene additato, non sempre giustamente, come tale”. “Le stesse considerazioni – prosegue Agnoli – non valgono per i piemontesi, scesi al Sud con grande abbondanza di mezzi di ogni genere e ben presto impadronitisi anche delle risorse, incluse quelle, finanziarie, delle Due Sicilie”. E questo giustifica i saccheggi di interi paesi e gli incendi appiccati dai briganti alle case dei galantuomini, ossia dei possidenti, vittime di rapine, di estorsioni e sovente anche assassinati. Esempi di “un terrore altrettanto forte” ce ne sono tanti. Basta consultare Internet. Abele De Blasio, per esempio, narrando le storia del brigante Michele Caruso (www.brigantaggio.net), riferisce che “Nei pressi di Morcone in contrada Cuffiano, il colonnello bussa alla masseria di Pasquale De Maria. I Fuschi non possono più aiutarlo; sono in galera per avergli dato ricovero e provviste. Chiede foraggio per le bestie e cibo per tutti. Berardino Polzella venuto ad aprirgli la porta dice che il padrone Pasquale non c’è e nulla nella sua assenza è autorizzato a dare. “Come – dice Caruso – le Autorità non vogliono che voi ci diate da mangiare? Mettetevi tutti in fila!” Obbediscono Luigia Pietrangelo, Berardino Polzella con la moglie Marta Zeoli, i figli Giuseppe, Mariantonia, Luigi, Domenico e Michele. Tutti fucilati, indi fatti a pezzi e sfigurati con colpi di pugnale; tutti, anche Luigi di nove anni, Domenico di sette e il piccolino Michele di appena quattro anni. Il medico legale attesterà che la più giovane era stata violentata sino alla morte da quasi tutta la banda, forte di oltre cinquanta briganti. (…) Caruso si è messo in via per Benevento il giorno dopo, il 6 ottobre lo ritroviamo a S. Giorgio la Montagna, attualmente S. Giorgio del Sannio. Riceve polvere da sparo; immediata esercitazione sulla schiena di nove contadini che lavorano la terra. Su nove infelici, cinque rimangono stecchiti, gli altri gravemente feriti. Il 12 ottobre ripassa a Decorata di Colle Sannita nello stesso fondo in cui ha ucciso il 1° settembre Giuseppe Ciccaglione; vede la figlia Filomena intenta con altre donne alla semina. L’afferra e la issa sul proprio cavallo. Per ben quattro volte Filomena si getta giù per sottrarsi al suo rapitore. Egli la trascina nel bosco di Riccia e in una grotta la violenta, indi la rimette in sella e la costringe ad una lunga cavalcata …” A imprese siffatte seguivano – sanguinose e incivili – le “rappresaglie” da parte dei reparti piemontesi. Incendi, sparatorie contro gli sventurati che cercavano di sfuggire al fuoco, fucilazioni indiscriminate di contadini e borghigiani, perpetrate
allo scopo di dissuadere quelle popolazioni dal dare assistenza ai briganti. Le “rappresaglie” erano indegne di un popolo e di un esercito civile, per crudeltà e per sproporzione. Tuttavia erano reazioni a imprese altrettanto barbariche, come quella narrata dallo storico Emidio Cardinali (che Agnoli non ritiene degno di fede ma cita senza negare la vicenda). Scrive Cardinali: “Celebre sarà nella storia la terribile giustizia fatta in Pontelandolfo e Casalduni. I briganti con cui avevano stretto causa comune i cittadini di que’ due villaggi, misero in pezzi un’avanguardia di quarantadue soldati italiani. Ciò fu nulla: quello che faceva trasalire dal disdegno e dal ribrezzo si fu il macello commesso su i cadaveri delle vittime. Trofei di militari divise strappate dai corpi; gambe, braccia, teste orribilmente peste e mutilate, altre membra… inchiodate qua e là a dileggio vergognoso, colmarono la misura del furore”. Era l’agosto 1862. Qualche giorno dopo piemontesi piombarono sui due villaggi, diedero alle fiamme Pontelandolfo, fucilarono tutti coloro che ne uscivano per sfuggire alle fiamme; e su Casalduni, dove vi furono in grande quantità uccisioni stupri, violazione di chiese e di altari, e anche lì incendi. Certamente fu una strage orrenda, non una rappresaglia militare. A Gioia del Colle, nel corso di una giornata di insurrezione, i paesani fedeli al Re borbone uccisero “un bambino meno che decenne, colpito, dopo qualche esitazione, perché una madre imprudente lo aveva vestito con una divisa in miniatura da guardia nazionale e, soprattutto, perché alla domanda rivoltagli, proprio da chi voleva salvarlo, se volesse per Re Francesco II o Vittorio Emanuele, aveva ingenuamente risposto, come gli era stato insegnato in famiglia, Vittorio Emanuele Ne seguì un’altra rappresaglia ferocissima. Questo è un piccolo saggio delle vicende narrate da Francesco Mario Agnoli, che mostra comprensione per le malefatte dei briganti e non tiene conto di quali impulsi selvaggi suscitino nella truppa la visione dei commilitoni uccisi, squartati, dei bambini uccisi per nulla, la consapevolezza di poter essere bersaglio di colpi provenienti a sorpresa da un bosco, da una siepe, da un fosso, e di essere crudelmente uccisi in caso di cattura. Personalmente, mi sentirei più propenso a vergognarmi di quel che fecero gli uni e gli altri (di più, i piemontesi). Ma mi sento anche – dopo centocinquant’anni – di commiserare il nostro popolo, che subì le dolorosissime conseguenze del travaglio dell’unificazione italiana. E di pensare con ammirazione agli eroi dell’una e dell’altra parte con doverosa pietas anche gli assassini, briganti e militari piemontesi, protagonisti di quella che Agnoli giustamente definisce una guerra civile. Non condivido il disprezzo per il “cosiddetto Risorgimento”, che ebbe scopi, eroi, vittime nobilissimi. Il Risorgimento secondo Agnoli, non è riuscito a “dare il senso dell’identità nazionale”. Non il Risorgimento, direi, ma uomini del Risorgimento. L’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani, disse Massimo D’Azeglio, che, nel Purgatorio, dove probabilmente si trova per la grande misericordia di Dio, certamente riflette sulla colpa di non aver fatto gli Italiani, ma di averli divisi. L’Italia fu fatta con sacrifici e anche con genio politico. Mancò, negli uomini che la fecero, i liberali, il senso italiano di umanità (parcere subiectis) e la consapevolezza che l’identità nazionale italiana è romana e cristiana insieme. Solo la Conciliazione del 1929 mise in qualche modo le cose a posto. E, se il Cardinale Ruini può, oggi, pronunciare un’omelia davanti alle bare di diciannove Carabinieri e soldati caduti nel compimento del dovere, in una Roma ornata di tricolori, invocando la benedizione di Dio sui Caduti, sulla Nazione e sulla Patria, se l’intera Nazione si è stretta intorno a quelle bare con il cuore gonfio di commozione, se gli Italiani, oggi, amano i Carabinieri e i Bersaglieri, tutto questo è dovuto alla Conciliazione. Gli Italiani, è vero, non sono ancor fatti. Ma abbiamo la speranza di riuscirvi. La vita dei popoli si conta per secoli.
FRANCESCO MARIO AGNOLI, Dossier Brigantaggio, Viaggio tra i ribelli al borghesismo e alla modernità, Controcorrente, Napoli, 2003, pp. 390, euro 20.000.
Recensione di Romano Ricciotti su : F.M.Agnoli, Dossier Brigantaggio
da: http://www.identitaeuropea.org/archivio/archivio_articoli.html