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CALATAFIMI: LA BATTAGLIA CHE FECE L’ITALIA DI DOMENICO ANFORA (IV)

Posted by on Feb 7, 2023

CALATAFIMI: LA BATTAGLIA CHE FECE L’ITALIA DI DOMENICO ANFORA (IV)

La colonna Landi

Alle 8 di sera del 12 maggio la colonna Landi lascia Alcamo per Calatafimi. Gli ordini sono di riunirsi con le truppe provenienti da Castellammare e andare a intercettare la colonna di filibustieri e di insorti provenienti da Marsala.

Figura 42 – Banderuola del Reggimento Carabinieri a piedi (tratto dal saggio L’Esercito Borbonico dal 1830 al 1861 di Boeri G. – Crociani P. – Fiorentino M., aut. prot. n.5894 del 23-12-2011, SME Ufficio Storico)

La sera stessa la gente di Calatafimi vede avvicinare tante luci oscillanti. Sono i lampioncini portati dallo squadrone di cacciatori a cavallo che entra nella cittadina da Porta Palermo. Lo scalpiccio degli equini mette in allarme i passanti e anche la donna che alla fontana de li cannola sta riempiendo la brocca. Il drappello di avanguardia si ferma presso l’abbeveratoio per far dissetare i cavalli e, nell’incerta luce delle lanterne, un sergente si rivolge alla donna chiedendole il nome del paese. Alla risposta «Calatafimi», il sottouffiziale partenopeo, sorridendo ironicamente, replica che il paese non si chiamerà più Calatafemmene, ma Calataommene[1]. La donna, spaventata, fugge verso casa, perdendo per strada metà dell’acqua che ha nella brocca.

Nella cittadina, sentito che Garibaldi è sbarcato a Marsala, il comitato segreto ha organizzato una rivolta antiborbonica. La guardia urbana è stata disarmata, i fili del telegrafo tagliati e gli stemmi borbonici abbattuti. I rivoltosi, con le armi in pugno, hanno innalzato il tricolore sul palazzo comunale. Ma ora, vedendo giungere la cavalleria borbonica, gli insorti fuggono repentinamente e si rifugiano in campagna, nella masseria di Pietro Adamo, uno dei capi dei rivoltosi.

Il grosso della colonna napolitana giunge alla meta all’alba del 13. Immediatamente Landi invia in esplorazione i compagni d’armi di Alcamo verso Salemi, per avere notizie sulla banda sbarcata a Marsala. A quanto riportano gli esploratori, a Salemi non ci sono truppe piemontesi, ma gente raccogliticcia, cioè insorti provenienti dai paesi del circondario.

Landi fa occupare dalle sue truppe i rilievi da cui può tenere sotto controllo le quattro strade che giungono in paese: quella che va a tramontana, verso Castellammare; a levante, verso Alcamo; ad austro, verso Gibellina; a ponente, verso Trapani e Salemi. Ora non resta che attendere i due battaglioni di fanteria per scatenare l’offensiva verso Salemi.

Salemi

All’alba del 13 maggio, il generale si sveglia con l’odore del caffè preparato da Giovanni Basso, il suo segretario, ma ha difficoltà a indossare i vestiti, perché la pioggia ha peggiorato la sua già grave artrite. Egli ha inviato La Masa a Salemi, per prendere contatti col comitato segreto e con la municipalità. Deve chiedere al sindaco Tommaso Terranova alloggi e viveri per i Mille, poi inviare ai comuni vicini proclami e inviti all’insurrezione. Inoltre, manda in esplorazione verso Calatafimi la squadra di Luigi Torres, incaricata di accertare l’eventuale presenza di truppe napolitane. Sono passate le 9 a.m. quando Torres e la sua squadra tornano e avvisano Crispi che un battaglione di regi è a Calatafimi, in procinto di marciare su Salemi. Garibaldi sa che deve giungere su quella posizione strategica prima del nemico, così ordina di levare il campo e di prepararsi velocemente a muovere.

Giò e i suoi compagni, intorpiditi dall’umidità della notte, godono ora dei caldi raggi del sole siciliano. Riempiono e chiudono lo zaino, arrotolano la coperta, puliscono e lubrificano i fucili. Hanno riempito la pancia con frutta e acqua fresca di pozzo. Ora sono pronti alla marcia.

Manca un’ora al mezzodì quando la colonna garibaldina inizia la marcia. Garibaldi è in testa, insieme a Sant’Anna, Nullo e le guide a cavallo. Seguono i carabinieri genovesi e la 1a compagnia di Bixio. Poi le altre compagnie in ordine di numero. Chiudono l’intendenza e lo stato maggiore. Si deve marciare per una decina di chilometri per sentieri aspri e sassosi. È domenica, giorno del Signore, e le campagne sono deserte. Dai villaggi vicini il vento porta smorzato il suono delle campane che avvisa i fedeli della Santa Messa.

Si superano alcune colline ed ecco Salemi, l’antica città elima di Halyciae, oggi paesone di tredicimila abitanti situato sulle pendici del ripido Monte delle Rose, tra il fiume Mazzaro e il fiume Grande, nel cuore della Valle del Belice. Il centro abitato arabeggiante, con le case appoggiate le une alle altre e con il dedalo di vicoli stretti, è raccolto attorno al castello normanno di Ruggero d’Altavilla, dove sventola il tricolore verde, bianco e rosso. La cittadina è attorniata da verdi colline coltivate a vigne e ulivi.

Continua la marcia sotto un sole spietato che fa scivolare goccioline di sudore sotto la camicia. Improvvisamente scoppia un parapiglia: urla, imprecazioni, rumore di lotta! Tutti temono che l’avanguardia, dov’è il generale, sia stata assalita. E invece no! Il matto che si è buttato a mare ne ha combinata un’altra: ha assalito Tommaso Parodi, un vecchio ufficiale, il quale indossa l’uniforme dell’esercito toscano ed è scambiato per borbonico. Ci sono volute quattro persone per toglierlo dalle sue mani. Tutte le compagnie sono scattate in avanti, pronte a far fuoco. Ma tutto è terminato in una generale risata. Appena si arriva a Salemi, bisogna rinchiudere il matto ove merita.

Sono quasi le tre del pomeriggio e inizia un’erta che toglie il fiato e spezza il core. A innalzare il morale della truppa spossata c’è la gente che ai lati della strada li festeggia, urlando «Viva Caribardo, morte al Barbone», e offese pesanti alla regina Maria Sofia. Molti offrono ai volontari acqua, vino, arance e cedri, alleviandone l’arsura.

A Giò il cuore sta quasi per uscire dal petto, ma è un giovane abituato alla fatica e alle marce e non si ferma. Una ragazzina gli si avvicina donandogli un mazzetto di fiori di campo e  un sorriso, ma lui avrebbe preferito un boccale d’acqua fresca.

Entrati nel centro abitato, si sciolgono le campane come a Pasqua e le bande musicali di Salemi e Santa Ninfa suonano arie eroiche. La folla è immensa, come per la festa di S. Nicola[2]. La Masa ha fatto un bel lavoro di preparazione! Tutti vogliono vedere Garibaldi e, quando lo notano procedere fiero sul cavallo bianco, biondo di barba e di capelli, di vesti semplici a guisa di guerriero antico, molti lo osannano come il simulacro di un santo. Una donna, avvolta in uno scialle nero, s’inginocchia e si segna con la croce, forse pensando al Nazareno che sull’asino entra trionfante a Gerusalemme! Alcuni dicono che Garibaldi sia un parente di S. Rosalia! Il generale sorride soddisfatto e i suoi occhi azzurri si illuminano di gioia, restituendo saluti e baci.

Giunto davanti al castello, il generale smonta da cavallo ed entra nella costruzione medievale a pianta trapezoidale, con tre torri, due quadrangolari e una circolare. Il maniero è in posizione elevata e strategicamente dominante. Salito sulla torre, scruta il vastissimo panorama col cannocchiale, studiando il terreno e spaziando su Ranchibilotto, Vita, Salinella, Rapinzeri, S. Ninfa. Oltre Vita, a diciotto chilometri di distanza, c’è Calatafimi, dove il nemico si sta preparando per l’attacco. Sceso dalla torre, un gruppo di santaninfesi gli fa dono di un tricolore, e lui, commosso, ringrazia felice.

Il generale ordina di costituire degli avamposti, e sono inviati a presidiarli i carabinieri genovesi e parte della 1a compagnia di Bixio. I genovesi di Mosto si sono piazzati nei pressi di un casalino di campagna a guardia della strada per Vita. Il sole scende sotto l’orizzonte, il cielo si copre di nuvole grigie e gonfie e una pioggia a catinelle allaga il terreno e fa fuggire le guardie dentro la stamberga in pietra nera, dove escrementi di ovini fanno da pavimento. Tuoni e fulmini per tutta la notte, ma quei giovani mangiano cucciddati[3] e carne di pecorae bevono vino allegramente, cercando di scrutare tra la fitta pioggia e le tenebre della notte.

Calatafimi

L’orologio rintocca le ore 11 del 13 maggio quando l’8° cacciatori entra a Calatafimi. Si acquartiera su un colle nell’estrema parte nord orientale di Calatafimi, dove sorge la piccola chiesa di San Vito e la casa degli esercizi spirituali dei gesuiti. Il generale Landi ha ordinato di inviare sul colle delle Tre Croci[4] dei picchetti di guardia, essendo una cima che sovrasta il paese e dalla quale si può controllare tutto il territorio circostante. L’8° partecipa con il plotone del 2° tenente Giuseppe Di Napoli che è inviato sul versante settentrionale del colle, su una spianata a mezza costa, dove si erge il Santuario di Maria SS. di Giubino, la Patrona di Calatafimi[5]. Vi ha dimorato per qualche tempo il beato Arcangelo Placenza[6], un eremita vissuto a cavallo del 1400, il quale passava le notti nella piccola grotta sotto il santuario, dove orava e si flagellava. A lui, uomo di Dio, compariva spesso la Madonna e Gesù bambino in braccio.


[1] Tratto dall’opuscolo Guida alla storia e alle opere d’arte di Calatafimi Segesta con itinerario garibaldino a cura di Leonardo Vanella.

[2] San Nicola di Bari è il patrono di Salemi. La leggenda vuole che per far fronte alla peste che ne decimò gli abitanti nel 1270, il popolo salemitano si rivolgesse alla Chiesa per un santo patrono. Per tali ragioni, nel corso del 1290 venne fatta formale richiesta al Papa Nicolò IV il quale decise che fossero gli stessi abitanti a scegliere il loro protettore. Così si scelse di estrarre da un bussolotto, contenente il nome di tutti i santi, il santo patrono. Dopo la prima estrazione uscì il nome di San Nicola di Bari. Non riscontrando alcun legame si optò per una seconda estrazione dopo la quale fu nuovamente San Nicola. L’estrazione, venne rieseguita e “miracolosamente” riconfermata per la terza volta.

[3] Pani sacri dedicati a S. Francesco di Paola.

[4] Una volta chiamato Giubino.

[5] Nella primavera del 1655 Calatafimi fu invasa dalle cavallette. I contadini del luogo tolsero dal trittico murato nell’altare del Santuario del Giubino l’icona marmorea della Vergine, portandola in processione e chiedendole la grazia di liberarli da quella piaga.  Il territorio fu liberato dalle cavallette e la Madonna eletta Patrona della città.

[6] Nato dalla nobile famiglia Placenza intorno al 1390 a Calatafimi, il beato Arcangelo fin da giovane si mostrava incline a un’esistenza povera e solitaria. Si ritirò a vita eremitica in una grotta presso la chiesetta di Santa Maria del Giubino. Si racconta che frequentemente, durante i momenti di preghiera, gli compariva la Madonna su un cipresso. Fu ordinato sacerdote ed entrò a far parte dei Frati minori a Palermo. Fondò il convento di S. Maria di Gesù (1430), ad Alcamo, dove fece rinascere l’ospedale di Sant’Antonio che si trovava in stato di abbandono. Al beato si attribuiscono, oltre a una fervente predicazione della Parola di Dio, numerosi miracoli, avvenuti anche dopo la morte presso la sua tomba. Morì ad Alcamo nel 1460. Le sue reliquie si conservano ancora intatte nel convento fondato dal beato.

Figura 43 – Il tenente Giuseppe Di Napoli, comandante di un plotone dell’8° Cacciatori.

L’orologio rintocca le ore 11 del 13 maggio quando l’8° cacciatori entra a Calatafimi. Si acquartiera su un colle nell’estrema parte nord orientale di Calatafimi, dove sorge la piccola chiesa di San Vito e la casa degli esercizi spirituali dei gesuiti. Il generale Landi ha ordinato di inviare sul colle delle Tre Croci[1] dei picchetti di guardia, essendo una cima che sovrasta il paese e dalla quale si può controllare tutto il territorio circostante. L’8° partecipa con il plotone del 2° tenente Giuseppe Di Napoli che è inviato sul versante settentrionale del colle, su una spianata a mezza costa, dove si erge il Santuario di Maria SS. di Giubino, la Patrona di Calatafimi[2]. Vi ha dimorato per qualche tempo il beato Arcangelo Placenza[3], un eremita vissuto a cavallo del 1400, il quale passava le notti nella piccola grotta sotto il santuario, dove orava e si flagellava. A lui, uomo di Dio, compariva spesso la Madonna e Gesù bambino in braccio.


[1] Una volta chiamato Giubino.

[2] Nella primavera del 1655 Calatafimi fu invasa dalle cavallette. I contadini del luogo tolsero dal trittico murato nell’altare del Santuario del Giubino l’icona marmorea della Vergine, portandola in processione e chiedendole la grazia di liberarli da quella piaga.  Il territorio fu liberato dalle cavallette e la Madonna eletta Patrona della città.

[3] Nato dalla nobile famiglia Placenza intorno al 1390 a Calatafimi, il beato Arcangelo fin da giovane si mostrava incline a un’esistenza povera e solitaria. Si ritirò a vita eremitica in una grotta presso la chiesetta di Santa Maria del Giubino. Si racconta che frequentemente, durante i momenti di preghiera, gli compariva la Madonna su un cipresso. Fu ordinato sacerdote ed entrò a far parte dei Frati minori a Palermo. Fondò il convento di S. Maria di Gesù (1430), ad Alcamo, dove fece rinascere l’ospedale di Sant’Antonio che si trovava in stato di abbandono. Al beato si attribuiscono, oltre a una fervente predicazione della Parola di Dio, numerosi miracoli, avvenuti anche dopo la morte presso la sua tomba. Morì ad Alcamo nel 1460. Le sue reliquie si conservano ancora intatte nel convento fondato dal beato.

Il plotone condotto da Di Napoli, coadiuvato dai sergenti Certosini e Sorace, marcia per i sentieri del colle, fino a giungere, dopo due chilometri, al santuario, una chiesetta semplice e disadorna. Il tenente organizza i turni di guardia, comunicandoli ai sottouffiziali e ai caporali. Rucchitto e Francesco faranno il secondo turno, così sono liberi, per adesso, seppur debbano rimanere armati e nei pressi della chiesetta. Rucchitto entra nel santuario, lungo meno di venti metri, terminante in un altare, dove è esposto il quadro della Madonna SS. di Giubino. Il giovane s’inginocchia e tira fuori dal taschino il rosario che gli ha donato la madre prima di partire sotto le armi, poi, con la testa bassa, bisbiglia delle preghiere e fa scorrere tra le dita la corona.

Francesco ha seguito l’amico e, giunto all’ingresso del santuario, tentenna a entrare, perché la notte precedente ha fatto un sogno ardito: era appartato con Anna e dopo un lungo e appassionato bacio le ha messo la mano sotto la gonna, accarezzando con immenso piacere quelle carni morbide e bianche. Al risveglio si è accorto di aver avuto una polluzione notturna! Ora si sente impuro e si vergogna a presentarsi davanti alla Vergine Maria e al Bambinello. Rucchitto l’ha sentito arrivare, si gira e lo chiama con un gesto, invitandolo a mettersi in ginocchio. Francesco fa così e prega la Madonna di conservarlo vivo, di farlo tornare intero dalla sua amata, promettendo che in caso di esito positivo, avrebbe sposato la ragazza.

Improvvisamente, irrompe nella chiesetta l’alta mole del sergente Certosini, rompendo l’atmosfera di raccolta preghiera. Urlando, invita i due soldati a non sentirsi sicuri di raggiungere il paradiso recitando quel rosario e di correre subito a unirsi al plotone. Francesco e Rucchitto escono di corsa, sospinti dallo sguardo severo del sottouffiziale.

Domenico Anfora

tratto da

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