CALATAFIMI: LA BATTAGLIA CHE FECE L’ITALIA DI DOMENICO ANFORA (X)
Il cozzo
Il sole è all’apice della sua curva e i raggi picchiano perpendicolari e imparziali su tutti i presenti. Il tricolore sventola sulla cima del Pietralunga, mosso dal caldo vento di scirocco.
Sul Pianto Romano squillano le trombe e rullano i tamburi dell’8° cacciatori. Il maggiore Sforza ha ordinato alle compagnie 7a e 8a di attaccare. Le guida l’aiutante maggiore Maringh che marcia innanzi con la sciabla in pugno, mentre i sottouffiziali ripetono gli ordini urlando. Quei filibustieri devono essere spazzati via. Avanzano, inquadrate verso la valle, le due compagnie, e il bianco vessillo borbonico sventola sull’asta tenuta dal portabandiera[1]. Francesco osserva la bandiera del suo regno e pensa che sia molto più bella del tricolore verde, bianco e rosso degli insorti. È rettangolare, la nobile bandiera, e porta da un lato le armi del Regno delle Due Sicilie, racchiuse in uno scudo dorato ovale, sormontate dalla corona reale e attorniate dai collari degli Ordini di S. Giorgio della Riunione e del Toson d’Oro. All’altro verso spiccano le insegne dell’Ordine Costantiniano, retaggio della discendenza Farnese dei Borbone. La bandiera è attaccata a un’asta a fasce spirali rosse e bianche e poggia su una piccola borsa che il sottouffiziale porta sul davanti attaccato ad un budriere. Più in alto, accanto al comandante di battaglione, sventola nelle mani di un giovane alfiere la banderuola di manovra, in lana bianca con scritte ricamate in scarlatto. Su di essa ci sono l’emblema dei cacciatori, il corno, e il numero 8. L’asta è in legno dipinto a spirali bianche e verdi.
Nella mente semplice di Fusco, il becchino, passano i numeri della Smorfia, perché lui, disfatti gli insorti e tornato a Napoli, se ne giocherà alcuni sicuramente vincenti e si potrà comprare una casa dove portare la futura moglie. Certamente si giocherà il 12, ‘e surdate; se uscirà incolume dalla battaglia si giocherà il 13, Sant’Antonio, a cui si è affidato; se invece sarà ferito, punterà sul 17 e sul 18, cioè ‘a disgrazzia e ‘o sango; se i cannoni spareranno, si giocherà il 30, ‘e ppalle d’’o tenente, cioè le munizioni dell’artiglieria; e se ci sarà il morto, dovrà giocarsi per forza il 62.[2] Forse sarebbe il caso di giocarsi anche il 90, ‘a paura, perché tra un po’ se ne proverà tanta. Comunque, sente che vincerà.
I profughi e i picciotti privi di armi da fuoco sono sulle colline che coronano la valle, ansiosi di godersi il combattimento, come gli antichi romani nelle arene dei gladiatori. Ma cosa faranno alla fine? Si getteranno sul vinto o fuggiranno?
Garibaldi, soffiando dalla bocca volute di fumo, osserva quelle truppe che manovrano magnificamente e si rammarica che i napolitani siano nemici. Poi sente il suono delle loro trombe, bello e lugubre allo stesso tempo. Allora chiama Tironi, il trombettiere bergamasco, e gli ordina di suonare nuovamente la sveglia di Como.
I cacciatori napolitani si allargano a ventaglio, sfruttando gli spazi della valle, pronti a schierarsi in linea per tirare. Tutta la vallata è in silenzio e anche gli uccelli si sono zittiti, come se fossero consapevoli del tragico momento. Appena sentono la lieta armonia della sveglia, i cacciatori si fermano per un attimo, stupiti, poi, piegati in avanti per offrire un bersaglio più piccolo, avanzano e con tracotanza urlano:
«Mo venimme, mo venimme straccioni, carognoni, malandrini».[3]
Perché così gli hanno detto gli uffiziali: hanno di fronte dei filibustieri. Il capitano Palumbo ordina:
«Caricare le carabine».
Ma la sua voce si è fatta rauca, frutto dell’agitazione che gli fa anche tremolare la mano sinistra. Dopo più di trent’anni di servizio tranquillo, ora, a quasi cinquant’anni, deve fare la guerra!
La pesante carrozza che trasporta il generale Landi si ferma nella spianata davanti al santuario del SS. Crocifisso, a ponente dell’abitato, dal quale, a sud, si può osservare l’intera vallata sotto il Pianto Romano. Landi, a causa degli acciacchi, scende a fatica dalla carrozza, sostenuto dal suo aiutante ed entra nella chiesa, percorre l’unica lunga navata, giunge all’altare maggiore e s’inginocchia davanti al miracoloso crocifisso ligneo, nella sua vara d’argento. Si affida a lui, il generale, ché nel 1657 produsse una serie di miracolose guarigioni. A lui chiede di non far trionfare la rivoluzione, ma la causa del re cattolico figlio della santa. Landi ha mandato in ricognizione la metà della brigata, mentre l’altra metà, dieci compagnie di fanteria, mezzo squadrone di cavalleria e due cannoni, presidiano il paese. Una compagnia e un cannone sono piazzati nei pressi del castello, a metà del colle, a controllo della via d’accesso al paese. Due compagnie e l’altro cannone sono all’estremo nord dell’abitato, nei pressi del convento dei Cappuccini. Altre due compagnie sono alla Casa di S. Vito. Le restanti cinque compagnie sono adunate e pronte a intervenire nel luogo e nel momento del bisogno.
Landi esce dal santuario e si affaccia dal belvedere, osservando col cannocchiale le masse di insorti sulle cime delle colline e le due compagnie di cacciatori avanzanti. Cosa sta combinando Sforza? Si è messo in testa di attaccare in barba agli ordini?
I garibaldini, e in particolare i carabinieri e le guide che stanno in prima linea, hanno ricevuto l’ordine di non sparare e di stare fermi, ché bisogna risparmiare le poche munizioni, dalle dieci alle venti cartucce a testa. Giò osserva i soldati nemici, quei giovani come lui ma di un’altra Italia, più meridionale, più selvaggia, che avanzano sicuri, mostrando le loro moderne carabine, alle quali sono innestate delle terribili daghe baionette. Sul verde del prato e sul grigio delle pietre, spicca il cilestrino delle eleganti uniformi dei cacciatori che scendono per le terrazze. Il capitano Mosto, con la sua lunga barba da filosofo antico e la sua espressione serena, dà coraggio ai suoi genovesi, dicendo:
«Calma ragazzi, calma».
Il capitano Montanari, focoso repubblicano modenese, si è preparato alla battaglia scolandosi una bottiglia di cognac, e ora ne offre qualche goccia, quel poco che è rimasto, ai giovani della prima linea. Il generale tira fuori l’orologio dal taschino: è mezzogiorno esatto. Poi dice:
«Non sparate, ragazzi; lasciateli avvicinare sotto, poi diamogli un po’ di buone bastonate».
Ma il corso Desiderato Petri, ex sergente del 34° reggimento fanteria di Alessandria e cameriere nel piroscafo Piemonte, ha deciso di cercar la bella morte. Ha messo in testa il fez del suo tenente Bandi, ha imbracciato il fucile, ha saltato dal dirupo e si è diretto verso il nemico, attraversando un campo di fave. Nessuno lo ferma, così va avanti verso il suo destino.
Le due compagnie napolitane sono arrivate ai piedi della collina, zona chiamata Fontana della Spina, calpestando le piantine di fave.
Poveri contadini, che le hanno seminate e che aspettavano di raccoglierle”, pensa Francesco, lui che lavora la terra sin da ninnillo[4]. Poi uno squillo di tromba ferma i cacciatori che si inginocchiano, prendono la mira e, all’ordine «fuoco», sparano. Certosini ha notato quel folle solitario che avanza. Batte la mano sulla spalla di Fusco e gli dice:
«Butta giù quel pazzo».
Fusco sorride, regola la tacca di mira e, con calma punta il nemico che avanza. Vede quel corpo che si avvicina proprio dietro al mirino. Trattiene il respiro e lentamente preme il grilletto.
Desiderato Petri si blocca e crolla di schianto tra i solchi senza un gemito. Poco dietro le pallottole fischiano sulle teste dei genovesi e delle guide, a cui prudono le mani e non vedono l’ora di tirare sui soldati del Borbone. Ma il generale ha ordinato di attendere che il nemico sia più vicino. Giò suda copiosamente, per il caldo asfissiante e per la tensione. Si sente un urlo: il petto del sergente Luigi Giuseppe Sartorio è squarciato da una pallottola. È il secondo caduto tra i Mille, il primo tra i genovesi. Altri sono feriti. Carlo Mosto, fratello minore del capitano, non resiste a quella vista e spara con la sua carabina, gridando:
«Indietro, canaglia!».
Seguono gli spari delle carabine dei tre bersaglieri e altri ancora. Improvvisamente spunta da una macchia Francesco Nullo in groppa al suo cavallo, imbracciando la sciabola e urla:
«Avanti alla baionetta!».
I genovesi, le guide, i bergamaschi di Bassini e i pavesi di Cairoli si slanciano all’assalto, seguendo il cavaliere. Il generale grida di fermarsi, di ricompattarsi e fa suonare l’alto dal trombettiere, ma è inutile. La prima linea non sente o non vuol sentire gli squilli. Le compagnie si riversano con foga giù per il declivio, mantenendo però un certo inquadramento. Poi, nella spianata, si allargano in ordine sparso, per evitare i colpi del nemico e per avere un fronte di tiro più ampio. Daniele Carabelli[5], trombettiere dei genovesi, suona incessantemente la carica.
Il capitano Maringh vede sorgere dalla terra, improvvisamente, le schiere nemiche che avanzano di corsa, precipitandosi per la china. Caricano alla baionetta e inquadrati, non sono insorti! Bisogna arretrare sul colle, dov’è schierato il grosso del battaglione. Suona la ritirata e i cacciatori, sorpresi e sconcertati per quella manovra del nemico, frutto di un addestramento da veterani e non di improvvisazione di civili insorti, arretrano velocemente, piegando a sinistra, in direzione dei propri cannoni.
Il caporale Curcio fa indietreggiare i cacciatori della sua squadra, coprendo la ritirata. Poi si gira per correre, ma inciampa e cade.
Giò nota un nemico in difficoltà, si ferma, s’inginocchia, prende la mira e spara. Mentre il caporale dei cacciatori cerca di rialzarsi, il proiettile gli fa volare via l’orecchio e lo fa cadere faccia a terra.
Giovanni Curcio ha fiotti di sangue che gli escono dalla testa. Lui urla e copre la ferita con la mano. Volge il capo verso i suoi camerati che si stanno allontanando e li chiama per nome con tono implorante:
«Ciccio … Rucchitto …Angelo… non lasciatemi qui … aiutatemi …sergente..».
Ciccio si ferma, si gira verso l’amico caduto e si accinge a tornare indietro per aiutarlo. Le pallottole tranciano l’aria vicina e, quando colpiscono le pietre, sibilano provocando i brividi. Il sergente Caccavaio afferra per il braccio Ciccio e gli dice:
«Uagliò, a ro vai. Sagli ‘ncoppa».[6]
Il giovane caporale vede allontanare i suoi amici e sente l’atroce dolore dell’abbandono. Come lo uccideranno i filibustieri? E se lo prenderanno gli insorti siciliani?
Ciccio piange per il suo amico. Come potrà raccontare ad Anna che ha abbandonato il fratello al nemico?
«Adunarsi sulla prima terrazza e riformare la linea, svelti, svelti»,è l’ordine urlato da Maringh e ripetuto dagli uffiziali e dai sottouffiziali.
Landi, contrariato, osserva dall’alto la manovra di ripiegamento dei suoi e l’assalto del nemico. Convoca due cavalleggeri e li invia a richiamare indietro i distaccamenti in esplorazione di De Blasi e Marciano per andare a rinforzare Sforza.
L’avanguardia garibaldina entra nella vallata e passa vicino ai primi caduti e feriti napolitani, giovani chissà di quali città e borghi delle Due Sicilie, dove più volte son fallite sanguinosamente le rivolte antiborboniche, dal 1820 allo sbarco di Pisacane. I loro corpi martoriati e insanguinati indossano l’elegante uniforme bigia, ormai inutile scorza per coloro che son trapassati. Le mamme, nelle loro dimore lontane, staranno rassettando la casa o preparando il pane, inconsapevoli della tragedia che ha già colpito la famiglia. I padri staranno pensando ad un futuro importante per quei figli al servizio del Re. Ma ormai non sono più che polvere nella polvere.[7]
«Rispettate i feriti, rispettate i feriti, – dice il capitano Montanari – sono italiani come noi!»
[1] Sottufficiale di Stato Minore, superiore del 1° sergente ed incaricato di portare la bandiera di corpo.
[2] Nella smorfia si indica col 47 il morto per cause naturali, il 48 il morto che parla in sogno e il 62 il morto ammazzato.
[3] G. Bandi, op. cit., pag. 171.
[4] Bambino.
[5] Carabelli Daniele fu Domenico, nato a Gallarate il 1° aprile 1839, residente a Milano, argentiere, lombardo ma in forza ai carabinieri genovesi.
[6] Ragazzo dove vai? Sali sopra.
[7] Giuseppe Cesare Abba, uno dei Mille, così descrisse nel suo libro Storia dei Mille la scena dei caduti napoletani:
In un lampo le due Compagnie di Cacciatori furono spazzate via, lasciando esse alcuni caduti in quel fondo, bei giovani d’Abruzzo, di Calabria, di chi sa quale di quelle terre delle rivoluzioni gloriose e infelici. Sul berretto elegante a barchetta, portavano il numero 8 – 8° Cacciatori! – E indossavano delle divise di tela cilestrina, giubba corta, elegante, su cui s’incrociavano pittorescamente le corregge degli zaini e della fiaschetta a zucca, schiacciata e foderata di cuoio. La loro carabina, pei tempi d’allora, era perfettissima, e la daga baionetta faceva pensare a quelle terribili degli zuavi. Poveri ragazzi! Come fanno stringere il cuore l’eleganza delle divise indosso ai morti sui campi, e quelle cose e quei numeri e quei nomi dei corpi! Coloro che giacciono non hanno più né vita né nome, né paese né nulla: a casa loro i parenti non sapranno la zolla che beve il loro sangue, né l’erba su cui spirarono l’ultimo fiato. Solo non li vedranno mai più; essi son morti.
Domenico Anfora
tratto da