Alta Terra di Lavoro

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CALATAFIMI: LA BATTAGLIA CHE FECE L’ITALIA DI DOMENICO ANFORA

Posted by on Feb 3, 2023

CALATAFIMI: LA BATTAGLIA CHE FECE L’ITALIA DI DOMENICO ANFORA

Lo sbarco

Manca un’ora a mezzogiorno e i piroscafi garibaldini filano verso Marsala. La giornata è bella e tiepida, il mare splende e la sua superficie è leggermente ondulata. Improvvisamente un grido d’allarme della vedetta posta sull’albero maestro del Piemonte fa raggelare il sangue agli equipaggi e un totale silenzio scende su di essi. Giò volge lo sguardo a dritta e vede tre legni da guerra che puntano a tagliare la rotta del Piemonte e del Lombardo. Se li raggiungeranno, sarà la fine: saranno pastura per i pesci! Il capitano Castiglia scruta col cannocchiale quelle navi e afferma che si tratta di due corvette a vapore e una fregata a vela napolitane.

Il generale ordina «Macchine avanti tutta sul porto», e i piroscafi tagliano veloci il mare con i tricolori al vento, mentre strisce di fumo nero fuoriescono dai fumaioli. Bixio urla e bestemmia come un saraceno, minacciando di morte l’eventuale marinaio che dovesse sbagliare una sola manovra. Poi ordina ai suoi uomini di prepararsi all’abbordaggio, poiché dei due legni ancorati nel porto, uno sembrerebbe inglese, ma l’altro potrebbe essere borbonico. A fianco del Lombardo passa un piccolo legno che batte bandiera britannica e Bixio gli lancia un messaggio:

Dite a Genova che il generale Garibaldi è sbarcato a Marsala oggi 11 maggio.

Il Piemonte, nel frattempo, ha fermato una paranza con un equipaggio di otto pescatori marsalesi. Il generale ha fatto salire a bordo quei lavoratori del mare, ma sono così spaventati che farfugliano senza rispondere alle domande; ma è importante sapere la nazionalità dei due legni ancorati e se in città vi sono truppe napolitane. Intervengono i volontari siciliani e, usando il dialetto e qualche bicchiere di vino, riescono a sapere che le due navi sono inglesi e che tre compagnie di regi sono andate via ieri in direzione di Trapani. Il comandante di quella paranza si chiama Tonino Strazzera ed è un omino tracagnotto vestito di stracci, più largo che alto. Ora la sua barcaccia è trainata e sarà utilizzata per sbarcare i volontari.

Le campane di Marsala suonano il mezzodì, mentre i due legni in porto alzano l’union jack[1], facendo tirare un sospiro di sollievo ai Mille. Bisogna entrare in porto e cercare di sbarcare tutti gli uomini e gli equipaggiamenti prima che la pirocorvetta[2] nemica più vicina possa sparare. Gli ordini del generale sono che appena il Piemonte entra in porto, Türr, le guide e i carabinieri genovesi devono scendere sulla paranza, sbarcare e schierarsi in difesa delle operazioni di sbarco. Rossi e Schiaffino, insieme ad altri marinai, devono salire sui canotti e andare a prendere i pescherecci ancorati per sbarcare velocemente tutti gli uomini. A Giò gli si stringe lo stomaco e la sua fronte è imperlata da goccioline di sudore, pensando a ciò che potrebbe accadere.

Il Piemonte è dentro il porto e getta l’ancora di fronte alla fabbrica di vini Ingham. Türr salta nella paranza insieme alle guide di Missori e ai carabinieri di Mosto e, dopo pochi minuti, approda. Giò si sente già meglio con i piedi sulla solida terra. È trascorsa circa un’ora dopo mezzogiorno. Quell’avanguardia dei Mille deve schierarsi nei pressi della torre del molo e della porta. Lì nel molo c’è un corpo di guardia con una decina di guardie doganali che, prese le armi, guardano stupefatte quegli strani invasori. Una buona dose di buon senso fa decidere loro di non sparare e di arrendersi ai carabinieri. La squadra del sergente Belleno, dove sono in forza Giò e Paolo, attraversa di corsa l’ampia spianata che divide la spiaggia dalla città cinta da alte mura medievali in rovina, e si pone a difesa della Porta del Mare.

Intanto, nella pirocorvetta Stromboli il comandante Acton cerca di mettere in pratica la promessa che ha fatto al Re: buttare a mare Garibaldi. I semafori della Colombaia e di Favignana gli hanno segnalato la presenza di due mercantili che stanno effettuando operazioni di sbarco. Acton punta il cannocchiale sul Lombardo, scorgendo uniformi rosse e scambiandole per soldati inglesi. Poi si rende conto che si tratta di filibustieri e dà gli ordini per aprire il fuoco. Dall’Intrepid, però, le bandiere segnalano una richiesta di ritardare il bombardamento per dare il tempo ai marinai inglesi di lasciare Marsala e salire a bordo. Acton acconsente, ma invia il sottotenente Cesare De Liguori presso il legno inglese per avvisarne il comandante che al suo ritorno, la Stromboli avrebbe aperto il fuoco senza ulteriori dilazioni.

Il Lombardo, intanto, si è arenato presso l’imboccatura del porto e i volontari hanno iniziato a sbarcare grazie alle barche dei pescatori marsalesi che, volenti o nolenti, devono prestare questo servizio. De Liguori li vede e, tornando a bordo, avvisa il comandante che dai due mercantili battenti bandiera sarda sta sbarcando un migliaio di uomini.

È trascorsa un’ora e mezza dall’entrata nel porto e deflagra la prima bordata quando già Bixio è riuscito a far sbarcare tutta la sua gente, e Garibaldi ha ordinato di aprire i rubinetti dei motori per sommergere i due piroscafi. I colpi di cannone a palla passano sulle teste dei garibaldini schierati per compagnie nel porto. I pochi civili presenti se la squagliano, mentre alla truppa è ordinato di sparpagliarsi e trovare un riparo.

Alla Stromboli si unisce la pirocorvetta Capri e i sessanta cannoni della fregata Partenope. Una pioggia fitta di palle e di mitraglia cade sul molo e sulla cittadina, ma c’è un angelo custode che protegge il generale, così i colpi non trovano obiettivi umani. Una granata cade vicino la Porta del Mare, e Giò e la sua squadra si precipitano dietro le mura, salvando la pelle. L’unico a essere colpito è un povero cane randagio che stava correndo via impaurito dalle esplosioni.

Bisogna togliere velocemente dal molo uomini e materiali, soprattutto le artiglierie e le munizioni, perché potrebbe avvenire una strage, visto che le navi napolitane si avvicinano sempre di più. Tutti s’impegnano nel portare via quei materiali, anche gli ufficiali, mentre la 7a di Cairoli si schiera sulla spiaggia al fianco dei carabinieri genovesi e la 1a di Bixio va a schierarsi sulla strada per Trapani.

Türr, insieme a un gruppetto del quartier generale e dello stato maggiore, sale nella città in direzione del castello, entro il quale c’è il carcere, la gendarmeria e l’ufficio del telegrafo. Porte e finestre sono sbarrate e per la via si vedono solo qualche monello e alcuni frati che credono di aver a che fare con soldati svizzeri. Dove sono i rivoltosi siciliani? C’è stata mai la rivolta? Il dubbio comincia ad insinuarsi nella mente dei garibaldini più sospettosi.

Il castello è privo della sua guarnigione, infatti le guardie, i gendarmi e gli impiegati del telegrafo sono fuggiti verso Trapani, dov’è di stanza il 13° reggimento fanteria di linea del colonnello Antonio De Torrebruna. Vengono liberati i prigionieri politici che sono solo quattordici e si mettono delle guardie al resto dei reclusi, tutti fior di malandrini. I liberati respirano a pieni polmoni e socchiudono gli occhi, non più abituati a tutta quella luce; poi, commossi, ringraziano i garibaldini.

L’ingegnere fisico Giambattista Pentasuglia[3], l’unico lucano della spedizione, è entrato nell’ufficio telegrafico ormai vuoto, dove scorge la minuta di un dispaccio inviato al comando di Trapani, sul quale è scritto:

 Due piroscafi battenti bandiera sarda sono entrati in porto e stanno sbarcando uomini armati.

 Da Trapani rispondono:

Quanti sono?

L’ironico ingegnere risponde che si è sbagliato e che le due navi sono amiche, provengono da Girgenti e stanno sbarcando zolfo, beccandosi in risposta un

Siete un cretino

 Poi taglia i fili del telegrafo e la burla cessa.

Figura 39 – Lo sbarco dei Mille a Marsala.

Intanto, dal molo i carabinieri genovesi vedono entrare nel porto quattro barconi pieni di marinai napolitani. Vogliono sbarcare? Quegli irruenti giovinotti liguri hanno il grilletto facile e vorrebbero spedire qualche pillola di piombo verso quelle imbarcazioni dal pessimo “carico”. Il capitano Giacomo Griziotti, un matematico di Pavia ex artigliere dei Cacciatori delle Alpi, ha già acceso la miccia della colubrina, puntandola verso i barconi in avvicinamento, ma l’ordine secco del generale è di non sparare e la miccia è subito spenta. Anche Giò che stava già pregustando un tiro al piccione, abbassa deluso la carabina. Garibaldi non vuole provocare la Real Marina per evitare una rappresaglia sulla città.

I marinai napolitani sono saliti a bordo del Piemonte e hanno calato il tricolore, innalzando il loro vessillo bianco gigliato. Poi, scesi sui barconi, prendono a traino il piroscafo nemico quale bottino di guerra. Il Lombardo, invece, è semisommerso e arenato nei bassi fondali dell’imbocco del porto.

Francesco Crispi, avvocato di Ribera, più politico che soldato, è stato mandato con alcuni volontari presso il municipio, dove ha convocato sindaco e decurioni, proclamando il governo provvisorio in nome del generale Garibaldi. Il generale ha affidato il governo della città alle autorità comunali e ha emanato un proclama:

Siciliani! Io vi ho condotto un piccolo pugno di valorosi accorsi alle vostre eroiche grida, avanzi delle battaglie lombarde. Noi siamo con voi, ed altro non cerchiamo che di liberare il vostro paese. Se saremo tutti uniti, sarà facile il nostro assunto. Dunque all’armi! Chi non prende un’arma qualunque è un vile od un traditore. A nulla vale il pretesto che manchino le armi. Noi avremo fucili, ma per il momento ogni arma è buona, quando sia maneggiata dalle braccia di un valoroso. I Comuni avranno cura de’ figli, delle donne, dei vecchi che lascerete addietro. Alle armi tutti, la Sicilia mostrerà ancora una volta al mondo, come un paese, coll’efficace volontà di un intiero popolo unito, sappia liberarsi dai suoi oppressori.

Cala la sera e le navi napolitane si portano al largo, forse temendo un abbordaggio dei filibustieri. Anche Garibaldi prende precauzioni e schiera le compagnie 3a, 4a e 5a presso Porta Trapani, da dove è più probabile possa arrivare un attacco nemico, considerando che in quella città c’è una numerosa guarnigione borbonica. La 1a, la 2a e l’artiglieria sono poste a guardia di Porta Mazara; a Porta Nuova la 6a; a Porta di Mare la 7a, l’8a e il genio; infine, i carabinieri genovesi e le guide presidiano la spiaggia. Alcune pattuglie perlustrano le strade per Trapani, Palermo e Mazara.

Giò sta svolgendo il suo turno di guardia sulla spiaggia insieme agli altri carabinieri della sua squadra. Guardando il mare che diventa sempre più scuro e con una striscia di luce riflessa da una grande luna gialla, pensa al futuro, riflettendo sul fatto che i due piroscafi non ci sono più e che debbono penetrare all’interno di quell’isola misteriosa, dove la popolazione che favella un latino incomprensibile non li ha accolti con entusiasmo. I suoi compagni sono stanchi e, chi non è di sentinella, si appisola arrotolato dentro alle coperte prese, con le buone o con le cattive, nei numerosi monasteri della città. C’è un silenzio di tomba che mette malinconia; si sente solo il vento che soffia e che sfrangia l’erba e fa ondeggiare il mare.

Giò alza lo sguardo verso un cielo punteggiato da milioni di stelle palpitanti, ma il suo sguardo va oltre, cercando casa sua, sua madre, i suoi fratelli, i suoi nipoti, Adelina. Hanno evitato di finire giù, in fondo al mare, sfuggendo alla flotta borbonica, ma come faranno a sfuggire a 25 mila soldati del Borbone? Lui lo sa: finirà morto in qualche valle sperduta o prigioniero in un lercio ergastolo. Sua madre attenderà invano il suo ritorno, e aspettando si spegnerà lentamente, giorno per giorno.

Cerca di scacciar via quei funesti pensieri e comincia a rosicchiare un po’ di pane stantio e di pecorino, innaffiato da un bicchiere di dolce Marsala che aiuta a riscaldare le ossa inumidite. Durante la guardia le ore passano lentissime, al contrario di quando si è in compagnia di una bella ragazza o di un gaio gruppo d’amici.

È notte fonda e finalmente giunge il cambio. Ora si va a dormire. Giò e la sua squadra entrano in una casetta priva di finestre e si coricano sul pavimento coperto di pietrisco e di polvere, cercando di riposare le membra stanche.


[1] Si trattava delle navi da guerra Argus e Intrepid, in forza alla flotta dell’ammiriglio Mundy, inviata in Sicilia per proteggere i numerosi cittadini britannici lì residenti.

[2] Si trattava della pirocorvetta Stromboli, armata con sei cannoni, varata nel 1844 e comandata dal capitano Guglielmo Acton.

[3] Giovanni Battista Pentasuglia nacque a Matera nel 1821 da nobile famiglia. Fu seminarista, poi, nel 1848 si arruolò nel corpo di spedizione napoletano inviato in Veneto contro gli austriaci, dove fu ferito e promosso ufficiale per meriti di guerra. In esilio a Torino per motivi politici, si laureò in fisica e divenne istruttore degli allievi telegrafisti. Si arruolò nel genio militare piemontese, dove fu nominato ispettore degli uffici telegrafici. Durante la guerra del 1859 fu assegnato al quartier generale di Napoleone III per sovraintendere ai servizi telegrafici. Seguì la spedizione dei Mille, aggregato quale semplice milite alla 3a compagnia. Dopo la guerra, fu direttore generale dei telegrafi e senatore del Regno. Partecipò anche alla guerra del 1866 e, infine, si stabilì a Matera, dove morì nel 1880……..CONTINUA

estratto da

lib

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