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CAPODICHINO: L’INIZIO DELLA DISCESA…DI ERMINIO DE BIASE (III)

Posted by on Nov 14, 2020

CAPODICHINO: L’INIZIO DELLA DISCESA…DI ERMINIO DE BIASE (III)

Come già detto, con la Legge Basaglia del 13 maggio 1978, nr 180, in Italia vennero definitivamente aboliti gli ospedali psichiatrici. Tra questi, anche il manicomio Leonardo Bianchi di Capodichino: ‘a pazzarìa insomma, dovette chiudere ufficialmente la sua pluriennale attività.

In quasi un secolo di vita, quante storie si erano vissute, quante tragedie s’erano consumate, quanti strilli disperati e disumani si erano levati da dietro quelle mura! Per esempio, lì aveva trascorso tutta la sua vita Giovanni Fent, il cui cognome rivelava una paternità tedesca; vi era entrato all’età di cinque anni trovandovi – come tanti altri – un letto la notte e un pasto caldo di giorno. Si racconta che quando, per la prima volta in vita sua, uscì fuori per una passeggiata (aveva diciassette anni) fu atterrito dall’aria fresca che gli aveva avvolto il viso. Là dentro avevano vissuto il mite Zi’ Luigi che trascorreva le giornate invernali abbracciato ad un termosifone ed il più anziano Zi’ Pascale, rinchiusovi fin dai tempi della Grande Guerra, da quando uscì di senno vedendo cadere morto col cranio sfondato da una pallottola nemica suo fratello che combatteva in trincea accanto a lui. Là dentro aveva dimorato ‘O mericano, così soprannominato per la sua infondata presunzione di conoscenza della lingua inglese: non molto svettante di statura, era nemico giurato degli ombrelli perché – diceva – in America si usa il trench, non il parapioggia! Un giorno, Adriana, un’altra degente che aveva il vezzo di distribuire i suoi rifiuti organici lungo gli infiniti corridoi dell’ospedale, vedendolo uscire gli porse una banconota da cinquecento lire, pregandolo di comprarle un pezzo di pane ed un po’ di companatico. ‘O mericano s’era appena girato per incamminarsi che si sentì richiamare dalla sua ‘collega’ perché aggiungesse alla spesa anche una bottiglia di vino. Stava per avviarsi di nuovo, quando gli fu ulteriormente ordinato di aggiungere alla lista anche un dolcetto…: “Anze, sa’ che vuo’ fa’? Puorteme pure nu pacchetto ‘e sigarette!”, fu l’ultima richiesta della donna. Al che – sembrava una scena di Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta – serio serio, ‘o mericano ribatté: “Oj né, vance tu, ma pe chi m’he pigliato?!? È ‘o vero ca so’pazzo, ma però nun so’ scemo!” Tra coloro ai quali era consentito uscire, c’era anche Camillo, ‘o vigile’, giocondo come un bambino che sulla spiaggia gioca con secchiello e paletta; lui, invece, si trastullava solo con la paletta con cui “fermava” le auto che si trovava davanti, anche quelle in sosta, accompagnando la sua “professionale” gestualità con continui ed internabili trilli del suo fischietto, ovviamente.

Prima di arrivare allo stato di degrado e di abbandono del giorno d’oggi, un tempo in quei locali, oltre alla cura delle malattie mentali, fervevano anche le più disparate attività artigianali in cui erano attivamente impegnati, frammisti al personale tecnico, malati di ambo i sessi. C’era il negozio di barbiere, la sartoria e la rattopperia, nella quale si facevano aggiusti a camici, pantaloni, cappotti e dove si confezionava anche stoffa per giubbini; una falegnameria che produceva tavoli, armadietti e scaffalature varie; oltre alla bottega del fabbro, del vetraio, del calzolaio e all’officina meccanica, c’era pure il forno per il pane ed un particolare ambiente in cui si essiccava il baccalà; si poteva contare anche su un elettricista, un radiotecnico ed uno stagnino. Erano attive perfino una fabbrica di mattonelle ed un’attrezzatissima tipografia fra i cui macchinari, ora tutti arrugginiti, faceva spicco la gloriosa ‘pedalina’ della Boldrini & Stocchetti con la quale Totò e Peppino De Filippo “stamparono” un imprecisato numero di biglietti da diecimila Lire grandi quanto la locandina di un… film.  Due ditte specializzate attendevano alla pulizia degli ambienti spazzando persino sui tetti. L’immensa area verde era affidata a venti giardinieri, tra cui spiccava Canò, un degente, che curava scrupolosamente le sue verdi creature, compreso il vasto frutteto.

Che peccato! Sarebbe bastato incrementare tutte quelle attività trasformando l’antico nosocomio in una grande polo professionale a disposizione della gioventù del posto, anziché chiuderlo ed abbandonarlo a se stesso, facendolo diventare un enorme, incolto deposito, dopo aver trasferito i degenti rimastivi in numerosi altri complessi che – comunque – non erano altro che dei piccoli manicomi e, oltretutto, con notevole risparmio sui costi di gestione, ma tant’è… Per di più, la nuova sistemazione in spazi molto più angusti e limitati di quelli del Leonardo Bianchi si rivelò per i malati talmente asfissiante ed opprimente da spingere – addirittura – qualcuno di loro al suicidio: libertà va cercando ch’è sì cara, chi (anche un “pazzo”) per lei vota rifiuta, verrebbe da dire…

La sera del 21 novembre 2002, fu trasferito l’ultimo “ospite” del Bianchi. Era rimasto solo lui nel reparto uomini che occupava l’ala destra dell’immenso edificio; lui, soprannominato Vicienzo ‘a munnezza, per la inveterata abitudine di cacciarsi nei bidoni della spazzatura, calandovisi tutto quanto e facendo sporgere solo i piedi. Era rimasto solo lui, ma non voleva andarsene, non voleva staccarsi da quella che, da anni, era praticamente casa sua; non voleva allontanarsi da quelli che – effettivamente – considerava la propria famiglia. Opponendo strenuamente la sua resistenza passiva a quella “cattura” da parte del personale dell’ambulanza che era venuto a prenderlo, si stese per terra sullo spiazzale di fronte all’ingresso, illudendosi così di poter sfuggire alle mani che volevano trascinarlo via.

Erano circa le 19,35 ed era già calato il buio su quella giornata uggiosa ma senza pioggia, come quelle che spesso si ripetono nell’autunno napoletano e dalla Calata saliva, insieme con l’eco di qualche smorzato colpo di clacson, il rumore del traffico, veloce quello in discesa e affannoso, specialmente degli autobus, quello in salita. Attorno al malcapitato da cui emanava un indubbio olezzo di sudiciume, si era intanto formato un capannello di curiosi tra cui qualcuno, spazientito, lo apostrofò con l’epiteto di zuzzuso aggiungendo: “Lassat’‘o sta’, chillo è tutto spuorco! …”

Come chi, all’improvviso, si toglie dalle spalle la giacca per un temporaneo accaloramento e per sentirsi, allo stesso tempo, più libero nei movimenti, così, per un attimo, per un magico frammento di tempo, la sua mente si rischiarò, liberandosi momentaneamente dalla sua insania per raggiungere l’apoteosi della saggezza del filosofo. Sempre disteso per terra, senza alzarsi, ma sollevando solamente il capo affinché il suo sguardo potesse ben centrare l’uomo che le sue parole stavano per colpire, sprezzante, esclamò: “E’ ‘o vero… io so’ spuorco ‘a fora, ma vuje site spuorche ‘a ‘into!

*

            Altra caratteristica della zona di Capodichino è l’ampia diffusione di edilizia popolare. La collina è, infatti, costellata da vari rioni costruitivi dagli anni che vanno dal 1939 al 1960. Il più antico è il Vincenzo Gioberti che conta novantasei alloggi. Gli fecero seguito il Rione Garibaldi che, iniziato a costruire nel 1941, vide le ultime locazioni solo dopo sette anni, nel 1948, a causa della inevitabile sospensione dei lavori per motivi bellici. L’edificazione dei dodici isolati che formano il rione Mazzini fu affidata a ben sette imprese edili diverse e, iniziata nel 1949, vide la fine il 4 aprile 1958. Tutte queste abitazioni furono erette sulla Calata Capodichino. Gli ultimi rioni ad essere costruiti furono il San Francesco (via F. M. Briganti) nel 1953, il GESCAL, 1952, edificato sul suolo su cui sorgeva l’antica Casa di Cura Villa Fleurent e, per ultimo, quello denominato ‘Senza Tetto’. Siamo giunti, così, nel 1960.[1]

            Abbiamo già detto che, provenendo dall’hinterland nord-orientale di Napoli, Capodichino è la principale porta d’accesso alla città. Qui confluiscono pure l’A1, l’Autostrada del Sole che parte da Milano, l’A16 che porta a Bari, ed inizia il collegamento con l’A3, l’autostrada del sud che conduce, via Salerno, alla punta dello Stivale, a Reggio Calabria; il che significa che Capodichino unisce Napoli al resto d’Italia. Non solo: come già riportato, qui sorgono anche gli aeroporti, sia militare che civile; quest’ultimo, aperto nel 1950 sia al traffico civile che commerciale, omonimo della collina, fa in modo che il nome di Capodichino, associato con la città che serve, venga letto e conosciuto da tutti coloro che, da ogni continente, decidono di raggiungere Napoli in aereo; per cui, senza ombra di dubbio, si può affermare che Capodichino è la porta attraverso cui Napoli si affaccia sul mondo intero. Già, perché nonostante le oggettive carenze strutturali ed operative che non riescono ancora a farlo …decollare come si deve (un secondo terminal rimasto praticamente quasi sempre inutilizzato e, infatti, fra non molto sarà demolito per far posto ad una stazione della costruenda metropolitana; una notevole percentuale di bagagli smarriti; una solerzia delle forze dell’ordine rivolta più a perseguitare le auto in sosta che a provvedere ai reali bisogni dei passeggeri) Capodichino è aeroporto internazionale!

Dulcis in fundo, la zona di Capodichino può vantarsi di aver dato i natali ad uno dei figli più illustri di Napoli: Enrico Caruso, il più autorevole dei rappresentanti canori di una città famosa nel mondo anche per le sue melodie. Il più grande tenore di tutti i tempi, infatti, nacque proprio ai piedi della collina di Capodichino, al numero 7 di quella strada in perenne fermento, piena di vita, di movimento, giorno e notte, estate e inverno, col sole e con la pioggia, un microcosmo che rispecchia il macrocosmo di cui è parte: la via SS Giovanni e Paolo o, più semplicemente, Sangiovanniello

Fine

II EDIZIONE

Erminio  de Biase


[1] Fonte: I.A.C.P. – Napoli.

Un particolare ringraziamento per la concessione di prezioso materiale di archivio, alla dottoressa Girolama Accetta (A.N.M.); alla signora Anna Aveta; al signor Agostino Carbone (Ferrovia Alifana); al signor Raffaele De Simone; alla dottoressa Emilia Niutta (ANM); alla dottoressa Giulia Riccardi (C.T.P.); all’architetto Renzo Troiano (I.A.C.P.).

PUNTATE PRECEDENTI

BIBLIOGRAFIA

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Jürg Arnold – Christian Heigelin (1744 – 1820) – Stuttgart 2012

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A. Cozzolino – Antonio Gamboni – Napoli: I tram per la provincia – Napoli 2010

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R. De Cesare – La fine di un regno – Roma 1975

S. de Majo – Dal vapore al metano Centoventicinque anni di storia della CTP. 1881-2006 – Napoli 2006

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Gino Doria – Le strade di Napoli – Napoli 1943

G. M. Galanti – Napoli e contorni – Napoli 1829

Giuseppina Guacci Nobile – Storia del cholera a Napoli – Napoli 1978

A. La Gala – Quando Napoli andava in tram – Napoli 2011

U. Mendia – Manicomi privati a Napoli nell’800 – Napoli 1997

Nicola Nisco – Storia del Reame di Napoli dal 1824 al 1860 – Napoli 1908

G. Nobile – Descrizione della Città di Napoli e delle sue vicinanze – Napoli 1863

Giuseppe Pesce – Napoli e i suoi casali – Napoli 2013

Regione Campania – Vedute di Napoli e della Campania – Napoli 1995

Domenico Romanelli – Napoli antica e moderna – Napoli 1815

D.co Ruocco – La città come organismo geografico – in Storia di Napoli, vol. I, p. 94

Antonio Scherillo – Suolo e sottosuolo di Napoli – in Storia di Napoli, vol. I, p. 26

Antonio Scotti – Napoli Borbonica – Napoli 1970

F. Thiess – Caruso in Neapel – Berlin 1955

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Marie Luise von Wallersee – Die Heldin von Gaeta – Berlin 1936

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