Caravaggio-Napoli: due sentimenti appassionati, ribelli al modo di pensare canonico di Adriana Dragoni
È noto al pubblico come quello dei quadri scuri. Perché Caravaggio è un pittore che dipinge il buio. Il buio del dubbio, del peccato, del rimorso e anche quello delle strade che lui percorre di notte, per cercare la vita tra la gente, della gente, dei loro corpi.
L’attraggono soprattutto i corpi, violati, dei ragazzini di strada, quelli degli uomini nerboruti, quelli delle popolane e delle prostitute. E sono questi i personaggi che ricoprono il ruolo degli angeli, dei santi e delle madonne nei dipinti che gli vengono commissionati.
Addirittura, nel suo quadro “Morte della Vergine”, ora al Louvre, si dice sia dipinta una prostituta affogata nel Tevere. Così, in questo modo, Michelangelo Merisi (1571/1610), detto Caravaggio dal suo paese natio, afferma che ognuno, per quanto misero e peccatore, è sacro. D’altronde, per tanti suoi contemporanei, non era forse un delinquente, un fuorilegge, un impostore, e non era stato riconosciuto come tale, e perciò condannato dalla giustizia, autorizzata dal legale governo imperiale romano, anche lo stesso Gesù?
Anche il Merisi fu un fuorilegge, un delinquente. Si trovava a Roma già da qualche anno ed era diventato un pittore molto apprezzato, che aveva successo e molti notabili committenti. Ma, gran frequentatore di bettole, iroso e attaccabrighe, in una rissa aveva, di coltello, ucciso un uomo. Era diventato un assassino. Condannato a morte, era scappato dalla Roma papalina.
È settembre del 1606. Caravaggio si rifugia a Napoli, la bella capitale spagnola, “città nobilissima” la dicono le carte. E’ agitato, shockato dall’omicidio commesso e dalla condanna a morte sul suo capo. Napoli lo accoglie, lo sostiene, lo fa lavorare. Lui ha di nuovo speranza nel futuro e infine partirà, nel luglio 1607, per Malta, sperando di ottenere successo. Ma anche lì si farà dei nemici. E torna, è il 1609, di nuovo a rifugiarsi a Napoli. Vi rimarrà fino al 1610, l’anno della sua morte. Trovata su una spiaggia di Porto Ercole. Dopo una fuga affannosa, fatta per sfuggire a un misterioso killer. Era il 31 luglio. Non aveva ancora compiuto trentasette anni.
Ora, fino al 14 luglio, possiamo ammirare, nella Reggia-Museo di Capodimonte, la mostra “Caravaggio – Napoli”, che ha sei opere sue, dipinte a Napoli, e altre ventidue degli artisti che qui lo hanno incontrato. Una mostra di grande impatto. Le opere non sono collocate, come accade di solito, nelle normali sale di un museo. Una scenografia geniale, teatrale, ci fa immaginare il pittore percorrere, di notte, vicoli oscuri che svoltano in altri vicoli.
E possiamo guardare, da finestre costruite ad hoc, la gente che lui e i suoi amici pittori rendono viva. Sono quadri che danno forti emozioni. La luce che li illumina si avvale della più moderna tecnologia e accentua quella dipinta. La famosa “Flagellazione” di Caravaggio, che abbiamo vista posizionata e illuminata con molta perizia nella stessa Reggia-Museo di Capodimonte, in una sala tutta per lei, qui ora, acquistando una luminosità straordinaria, appare ancora più bella.
C’era bisogno di un’altra mostra su Caravaggio? Si domanda, nel presentarla in un saggio, il direttore del Museo e del Real Bosco di Capodimonte Sylvain Bellenger, che, insieme a Cristina Terzaghi, ne è stato il curatore. Lui ha più volte detto che una mostra vale se ha un valore scientifico, se aggiunge qualcosa di nuovo alla conoscenza, se dà uno sguardo diverso sulle opere, il loro autore e il suo contesto storico, magari anche messo in relazione con quello attuale. La mostra oggi a Capodimonte costituisce senz’altro una svolta nella considerazione del pittore e dell’ambiente cittadino e pittorico napoletano dell’epoca.
Non tutti sanno che,dopo il successo che ebbe in vita, Caravaggio fu dapprima contestato dai critici classicisti, poi fu rapidamente, completamente dimenticato.
Fin quando, nel 1911, un ragazzo che si chiama Roberto Longhi non ne fa la sua tesi di laurea e poi, innamorato del personaggio, gli dedica, da uomo maturo, una lunga serie di articoli e per di più, nel 1951, una mostra personale. Il Longhi è un critico influente. La critica longhiana esalta l’identità caravaggesca.
Come conseguenza dell’azione promozionale di Longhi, Caravaggio è popolarmente visto soprattutto come il pittore della povera gente, quello che ha avuto il coraggio di mettere in primo piano dei piedi sporchi, e la sua pittura come una sorta di rivendicazione sindacale e di affermazione dell’Italia patriottica che ha salvato Napoli dalla povertà vissuta durante la tirannia spagnola (e poi borbonica).
Altri disprezzano quel periodo dei quadri scuri napoletani come oscurantista, e la Napoli capitale spagnola, con 350.000 abitanti la più popolosa di Europa dopo Parigi, come una povera cittadina provinciale. Poi i film, i romanzi e gli stessi scritti critici dipingono Caravaggio come il pittore maledetto: per il pubblico un’attrazione fatale.
È da Roberto Longhi in poi che viene definita “la maniera” caravaggesca e si afferma che questa ha influenzato la storia dell’arte seicentesca, particolarmente quella napoletana. Si tende a cancellare l’individualità dei pittori napoletani, tanto che questi si chiameranno caravaggeschi e, per alcuni critici, sarebbero dei semplici copisti di Caravaggio. Per la critica dotta, l’influenza caravaggesca dura fino ad esondare, giungendo ai primi anni del Settecento, nella pittura chiarissima, immaginifica e spesso festosa e gaudente, del napoletanissimo Luca Giordano (1634/1705). La mostra odierna ridimensiona questa influenza riconoscendo, anche nei pittori che a Napoli conoscono Caravaggio, una propria personalità.
Già il titolo “paritario” “Caravaggio-Napoli” suggerisce che l’apporto è reciproco. Certo c’è una consentaneità tra Caravaggio e Napoli, che questa mostra napoletana mette in evidenza. Una consentaneità che nasce anche dall’assorbire, vivendola, lo spirito di questa città dalla personalità forte e antica, che suggerisce sentimenti, situazioni, facce espressive segnate dall’esperienza. La prima opera che Caravaggio dipinge al suo arrivo a Napoli è “Sette opere di misericordia”, un’opera rivoluzionaria, che rivoluziona anche la pittura dello stesso Caravaggio.
ome riporta in un bell’articolo sull’Alfiere (maggio 2006) Edoardo Vitale, “il fatidico 7 maggio 1607, al cadere dei veli davanti alla grande icona delle “Sette opere di misericordia”, Napoli non vive solo un folgorante momento di emozione artistica ma soprattutto l’esperienza sconvolgente di uno sguardo sulla propria anima”.
Nel quadro vi è un vicolo di Napoli e vi sono le facce dei napoletani. Anche la Madonna è una di loro, è una bella popolana che ha un bambino in braccio, e c’è un distinto signore che, come i signori napoletani d’un tempo, non ha albagia e si mischia con la folla. Ricchi e poveri insieme in una società omogenea, unita da una forte fede in Dio, nei santi, nella Madonna e nell’umanità.
Caravaggio e Napoli entrambi hanno spiriti ribelli. Eretici.
Come tale, Caravaggio è stato da alcuni critici considerato, probabilmente sbagliando, un protestante. Ma non sembra facciano parte del mondo protestante la sua fede nei santi e nella salvezza raggiunta con le opere di misericordia. Caravaggio e Napoli sono soprattutto ribelli al modo di pensare canonico, razionale, obbediente a regole fisse. E, qui a Napoli, ora Caravaggio è libero anche dai limiti posti dalla sua formazione artistica all’immaginazione.La sua pittura esce, svicolando, dallo spazio canonico, rigida scatola fissa a tre dimensioni, per il quale già ha affermato la propria insofferenza dipingendo, nella “Sepoltura di Cristo” (ora nella Pinacoteca Vaticana), il sepolcro in obliquo, mettendone in primo piano uno spigolo.
Ora, ispirata da Napoli stessa, già nelle in questa sua prima opera napoletana, ha la possibilità di immaginare uno spazio libero da regole, formato dagli stessi movimenti della gente di questa città vitale e popolosa. Non c’è bisogno di contestare lo spazio canonico criticandolo. Basta crearne un altro.
Già Antonello da Messina (1430/1479), allievo del napoletanissimo Colantuono, aveva usato il fondo nero per la sua Annunciata di Palazzo Abatellis e a Napoli si era continuato ad usare il fondo d’oro ancora nel Cinquecento con Cicino da Caiazzo e l’anonimo, fortissimo, Maestro di Sanseverino, che perciò vengono considerati arretrati. Mentre Francesco Curia (1538/1610) esprime, a modo suo, un libero spazio ricco di movimento e dolci sentimenti, ammaestrando a questo anche il fiammingo Teodoro d’Errico (1544/ 1618).
Caravaggio e Napoli hanno sentimenti appassionati, una sensibilità accesa. Non c’è bisogno, per spiegare l’animo umano, di ricorrere allo studio accademico, alla sociologia, alla psicologia o alle analisi freudiane. Caravaggio e i suoi amici in questa mostra entrano nei cunicoli della sensibilità umana e in vicoli oscuri, vitalizzati da bagliori improvvisi, che ci fanno comprendere di colpo la verità della vita.
P.S. Malauguratamente l’opera “Sette opere di misericordia” è ancora al Pio Monte
Adriana Dragoni