CARCERI BORBONICHE…. LA NEGAZIONE DI DIO?
Nel 1851, per screditare e distruggere l’immagine di Ferdinando II di Borbone, un rappresentante dell’Università inglese di Oxford, Lord Gladstone, aveva diffuso in Europa, sotto forma di due lettere, false e calunniose notizie sulla completa assenza di legalità e sulle sofferenze di tanti infelici, rinchiusi nelle carceri del Regno delle Due Sicilie. Fin dalla sua salita al trono, avvenuta nel 1830, già prima che negli altri regni italiani, Ferdinando II aveva provveduto a riformare le prigioni. Le modifiche iniziarono nel 1832, quando furono colmate orribili e crudeli segrete e dettate norme affinché man mano le prigioni fossero condotte ad uno stato migliore sotto il rapporto igienico, religioso, morale, ed economico.
Lord Gladsone non sapeva che nel 1839 al termine del suo viaggio in Italia, Alphonse Cerfeberr scrisse: «A Napoli vi hanno prigioni speciali per le diverse categorie de’ condannati. Una ve ne ha per le donne, una pei giovani detenuti, quella di S. Francesco e quelle della Vicarìa. La prigione delle donne, detta di S. Maria d’Agnone, è stimata un modello nel suo genere […]. Le detenute vi dividono il tempo tra il lavoro, la preghiera, e gli esercizi religiosi […]. Nella prigione de’ giovani detenuti, non si vede che ordine, pulitezza e disciplina, e i prigionieri, eccetto la libertà che non hanno, vi stanno assai meglio che fuori. […]. La Vicarìa, che sir Gladstone ha appellata un Carnaio, il colmo dell’orrore e del sucidume, è invece una prigione pulitissima, secondo il sig. Gondon che l’ha visitata. Il cibo vi è variato, sufficiente e di ottima qualità».
Ulteriori modifiche strutturali furono apportate alle prigioni negli anni successivi. L’anno prima dell’invasione garibaldina e piemontese, Francesco Durelli scriveva: «Le famose luride prigioni di Castel Capuano sono state tramutate in sale spaziose, piene di abbondevole luce e di libera, aperta atmosfera, ammirande per ogni maniera di nettezza, e fornite di quanto è d’uopo per la conservazione sanitaria de’ detenuti… Il carcere per donne di S. Maria ad Agnone, è stimata un modello nel suo genere […]. e quello che, non più carcere, ma sala d’istruzione e di lavoro, va oggi distinto col nome d’Instituto Artistico per gli imberbi [adolescenti] e pe’ giovanetti di S. Aniello: e farne la descrizione rileverebbe tale lavoro da compiere un volume».
Significativo sul carcere di San Francesco è il giudizio di Luigi Settembrini, che nelle Ricordanze scrisse: «Usciti dalla Vicarìa, [il carcere] S. Francesco ci parve piuttosto una casa che un carcere: si passeggiava pei corridoi, si usciva fuori una loggia. scoperta, si vedevano persone umane e civili, si aveva visite di parenti e di amici, io vedevo mia moglie e i miei cari bambini e Raffaele che mi portava i suoi esemplari di scuola, e la piccola Giulietta che allora moveva i primi passi».
Ma se anche le calunnie mosse da Gladstone e dai liberali a Ferdinando II in merito alle carceri e ai prigionieri politici fossero state vere in parte, che cosa fecero i rigeneratori dopo l’annessione al Piemonte e l’unità d’Italia? Liberarono tutti i detenuti politici regolarmente processati e per lo stesso principio di giustizia e libertà buttarono nelle prigioni, senza processo, migliaia di persone sospettate. Rivelatore e significativo è l’articolo Visitare i carcerati pubblicato il 30 aprile 1861 dal giornale liberale di Napoli “Che Tuoni”, che con sarcasmo scriveva: «Ora il paternissimo governo attuale, come liberalissimo e giusto, non può in alcun modo imitare quello che faceva il governo passato, ingiusto e nemico dei liberali. Quello, per non venir meno all’alta sua riputazione di misericordia, tollerava che si facessero delle opere di misericordia. Questo non ha misericordia per chi pratica le opere di misericordia». Ma facciamo un salto in avanti e vediamo che cosa scriveva un giornale di Napoli nel marzo 1868. «Fortunatamente, tu non saprai mai come si sono ridotte le carceri in quest’epoca di libertà, e beato te se per misericordia del cielo non ci sei ancora entrato. Ma c’è bisogno di mettere in chiaro lo strazio tremendo al quale sono soggetti quegli sventurati che vanno a popolare le prigioni del nostro paese, possono così avere un’idea di quanto di buono si è fatto di sollievo da otto anni in qua per queste nostre povere carni battute, che dopo essere state portate allo stato di marcire per mancanza d’alimenti vanno a morire. Si dice che il fuoco della terra, ossia quello che serve per tutti i nostri bisogni, non è altro che un semplice dipinto a paragone di quello che si trova nell’inferno. E alla stessa maniera tutto quello che si può dire in merito alle torture che ti regalano le carceri moderne, è davvero una pittura che non potrà mai descrivere la verità. Preparati a fremere, o napoletano che mi leggi: sono cose che fanno arricciare i capelli in testa, quelle che vado a raccontare, sono tormenti che faranno vergognare tutti i Neroni, e i più barbari tiranni della terra, se tornassero a nascere. Oggi il carcere è la sepoltura dell’uomo, non più una casa di correzione dove si va a scontare un reato o una pena. Chi ci entra, deve avere proprio un miracolo particolare per uscirne vivo, tanto sono le sevizie e i maltrattamenti che gli vengono fatti dai moderni civilizzatori. Cominciamo dall’esterno: il carcerato non deve più vedere la bella luce del sole. Ai tempi di Ferdinando II la luce era libera, l’aria poteva entrare e uscire dal carcere a suo piacere, ma oggi no. Oggi il carcerato non deve avere più aria. Un tavolato, che impedisce pure la vista del cielo, è stato messo in faccia alle cancellate. Appena un filo di luce, che dall’alto scende come un’elemosina, permette al carcerato di distinguere la notte dal giorno, la luce dalle tenebre. Del resto non c’è altro inferno aperto, che il carcere d’oggi, dove sono di permanenza tutte le sofferenze del mondo, tutte le sevizie più atroci. Dentro al carcere d’oggi non c’è alcuna distinzione come una volta. Qua, ai perduti malfattori, ai ladri più schifosi, agli assassini più feroci, ai falsari più ributtanti si uniscono i giovani virtuosissimi, gli onesti padri di famiglia, i veri patrioti, i galantuomini più distinti. Si fa d’ogni erba un fascio e non si ha nessun riguardo di mischiare la lana con la seta, l’onestà con la svergognatezza, il delitto con l’innocenza. Tanti poveri signori, per un semplice sospetto, sono presi per un braccio e uniti ai malfattori! Se non altro l’uguaglianza si fa consistere solo in questo!
Lo sbirro deve stare a cassetta con un vescovo o un parroco, il ladruncolo con un onesto negoziante conosciuto, la prostituta attaccata alla gonna di una donzella. La moderna Babilonia per moltiplicare i vizi, tenta tutti i mezzi che possono corrompere la gente buona.
Non credete alle parole di fraternità, civiltà, progresso e via dicendo: le carceri ne sono una prova. Se la civiltà esistesse davvero, non vedremmo mischiare la gente onesta con la feccia del popolo, assoggettata quest’ultima agli stessi riguardi della prima.
Se il progresso non fosse addirittura una parola scema, non vedremmo lo strazio della carne umana, i sacrifici che si fanno soffrire alla gente, i flagelli a sangue che si adoperano a danno dei poveri carcerati. Sentite quando c’è di terribile in una prigione in questo momento in cui scrivo. Mettetevi una mano sul cuore, per non sentirlo scoppiare, a leggere tante barbarie, e dopo armatevi d’attenzione e rassegnazione, e seguitemi.
Correva il mese di agosto, narra il Popolo (al quale ringraziamo di averci dato queste notizie che noi riportiamo parola per parola) era il secondo anno della rigenerazione, di Cristo 1862.
“ ….Correva il mese di agosto dell’anno 1862; Napoli era comandata a bacchetta allora da quello abbietto che oggi, più abbietto ancora, perché messo in disparte dalla consorteria, puttaneggia coi repubblicani, Filippo de Blasio (nominato dal Gen. Cialdini, Prefetto di Polizia di Napoli il 2 Luglio 1862).
Erano le 2 p.m., i detenuti quale leggendo, quale sonnecchiando, quale tirando moccoli, stavano tutti facendo il chilo sui rispettivi letti. Ecco tutto ad un tratto un batter di cancelli, un correre un gridare, un minacciare, un diavolo da non vedersi. Che è, che non è: era un povero detenuto che faceva di riparare nella prima stanza che trovava aperta e quattro manigoldi, due dei quali armati di staffili, uno di un mazzo di chiavi e l’ultimo della daga sguainata, che lo inseguivano furibondi, minacciosi, terribili. L’infelice correva, si voltava, piangeva, si contorceva di spavento e quando non ebbe più dove fuggire, cadendo sulle ginocchia: “Per pietà, in nome di Maria Santissima” si dette a gemere “non m’uccidete, ho due figli, poveri figli miei!”. Le grida strazianti di questo sfortunato erano soffocate non più dalle minacce né dalle bestemmie de’ carcerieri, ma dai loro colpi. Gli staffili, rompendo l’aria fischiando, andavano a lacerare le pelle del collo e della faccia di quell’infelice prostrato; il sangue schizzava sul muro e vi gocciolava, e quelli a dare senza misericordia in testa, in faccia, in petto, sulle spalle, da per tutto. Era orribile; quel misero non piangeva più, non pregava più, cadeva, pareva che spirasse. E tuttavia a dargliene ancora, a dargliene sempre, aggiungendo a’ colpi, i calci co’ loro tacchi di ferrati. E con tutto ciò lo battevano ancora, a dargliene sempre, aggiungendo alle mazzate i calci con i loro tacchi ferrati.
Non era un uomo aggredito da quattro assassini: era un agnello che cacciava sangue tra le grinfie di quattro lupi. Non era un uomo aggredito da quattro assassini: era un agnello che sanguinava fra le zampe di quattro lupi. I detenuti spettatori di questa scena di sangue, atterriti, indignati, tremanti, non osavano fiatare…”
(G.Gervasi Sulle prigioni di Napoli – Rocco-Napoli-1869)
Chi scrive questo fatto, ricorda molti nomi di quelli che erano compagni suoi di carcere; e all’occorrenza potrei fare i loro nomi.
Ma il governo non è Argo, si dirà; queste cose non le sa, che diavolo! Vi pare che se qualcuno gliele avesse rivelate, quei bricconi non sarebbero stati castigati? La colpa è dei carcerati che sono vili tanto da temere di denunciare i torti che si fanno loro.
E va bene: il governo non è Argo: voi avete ragione. Ma dite un poco, se loro, i signori governanti, ispirassero fiducia, quale sarebbe il vile, vile tanto da lasciarsi battere e non dire niente?
E se egli si sta zitto, non significa che i sudditi governanti, più che fiducia mettono paura ai carcerati? E in questo caso di chi è la colpa? Quante volte essi non mettono nelle le prigioni appositamente spie per i detenuti? Ebbene perché non ne tengono qualcuna pure per i carcerieri?
Ammettiamo pure che i governanti non siano complici dei carcerieri, ammettiamo invece che siano addirittura angeli in fatto di moralità; ma allora non sarebbero sempre degli stupidi abbandonando all’arbitrio feroce della feccia degli uomini, dalla quale escono i custodi delle prigioni, quei poveri sfortunati, molti dei quali sono innocenti, parecchi dei quali potrebbero ritornare onorati, liberi e affrancati alle loro case?
Ma andiamo avanti. Questo che abbiamo detto è quello che non dovevamo dire. Prendetela come una parentesi, e cambiamo dolore.
Dì un poco, governo rigeneratore, il cascione, la palla e la camicia di forza anche questi sono arbitrii dei carcerieri? Sono loro, i carcerieri che a spese proprie e per far dispetto a Beccaria, hanno arricchito le carceri di questo strumento di tortura?
Sono loro, i custodi, che hanno fatto cucire quelle camicie, fondere quelle palle e piallare quei cassoni?
Ma i lettori vorranno sapere che diavolo sono questi oggetti. Ed eccoci a servirvi.
La camicia così detta di forza è una specie di giacchetta come una maglia, di tela grossolana, che abbraccia il petto, dalla parte inferiore del collo fino alle ultime costole. Questa giacchetta ha le maniche molto lunghe, di modo che tirate con forza dalla parte di sopra, non solo incrociano molto strette le braccia della vittima attorno al collo, ma le stringono tanto il petto da fargli mancare il respiro. Lo stringere di più o di meno non dipende dalla più o meno carità che i guardiani hanno nel cuore, ma dalla più o meno forza che hanno dentro ai polsi. E questo è il più leggero dei supplizi, è il supplizio cortese, roba da signorine.
C’è di peggio ancora. C’è la palla. Questo castigo consiste nell’avvicinare il carcerato in faccia al muro, dove all’altezza di 8 palmi ci sono due forti anelli di ferro. Si incrociano le braccia dell’individuo con una cinghia di cuoio, la quale passando sopra i gomiti va ad essere legata dietro ai reni. Una volta posizionato il detenuto in questa maniera, gli si attaccano ai polsi due piccole catene, le quali passando dentro agli anelli di ferro, che abbiamo detto incastrati sulla parete del muro, cadono a piombo per il peso delle due palle di circa dieci chili, che sono legate alla punta delle medesime catene. Il condannato a questa tortura non ci resta meno di 12 ore, e lo dicesse Dio per noi in mezzo a quale martirio. Resta il cascione. Questo poi è un ritrovato sublime. Noi non sappiamo veramente chi ne sia stato l’inventore, ma crediamo Spaventa. Spaventa di fatto fu uno dei più attivi riformatori del sistema carcerario. A ogni modo se egli per modestia non ha cercato un brevetto di invenzione, questa non è una buona ragione perché noi non avessimo a chiederlo per lui.
Si legge nelle storie che a Fàlaride, tiranno d’Agrigento, si presentò un giorno un Silvio Spaventa di quell’epoca, il quale sperando d’ottenere una grossa ricompensa dal tiranno (il nostro Spaventa più magnanimo l’aspetta dalla patria) gli mostrò un toro di bronzo, dentro il cui ventre si poteva rinchiudere una vittima e bruciarla a fuoco lento. Falaride da uomo di talento che era, ammirò il bel lavoro, ma ordinò che si facesse il primo esperimento sul suo inventore.
La patria dalla quale l’onorevole Spaventa spetta la ricompensa, l’ingegnoso filantropo, non ha avuto il talento di Falaride. A ogni modo un uomo che ha saputo inventare il Cassone ha provato che aveva ragione d’inventarlo. Lasciamo dunque fare a Dio, che dice il proverbio è un santo vecchio.
Noi passiamo a descriverlo.
Il cascione è né più né meno che una cassa da morto, una semplice bara, della lunghezza di un uomo di statura regolare, e larga quanto basta perché quello che si impizza dentro tocchi con le due spalle l’una e l’altra tavola laterale.
A la parte di sotto vi è stato fatto un buco affinché il paziente potesse adempire, senza incomodare nessuno, a tutti i suoi bisogni.
Altre piccole aperture sono praticate a tutte e due le parti laterali, da dove passano forti cinghie di cuoi, che servono a dare all’uomo che ci sta rinchiuso l’immobilità del cadavere.
Queste cinghie stanno a una certa distanza l’una dall’altra, di modo che le prime due vengono a stringere i piedi sopra il Malleolo, le altre due le gambe sopra le ginocchia, le terze stringono il petto, e le ultime lo cannarone (la gola). Delle braccia non ne parliamo, perché nessuno viene posto dentro al cassone, se prima le braccia non sono state chiuse dentro la camicia di forza. L’immobilità è dunque di assoluta necessità, una cosa terribile; è l’immobilità del cadavere; non si può fare nessun movimento possibile, neppure quello della testa, poiché non appena cercaste di muoverla in un modo qualunque, le cinghie che avete tutto intorno al collo vi strangolerebbero — il che in certi casi potrebbe anche sembrare, e essere pure una risorsa — ma vi provocherebbe terribili spasimi, più insopportabili degli altri. Il trattamento ordinario di chi sta dentro al cassone è il pane ed acqua, e l’uno e l’altra gli sono dati con la carità di cui è capace il carceriere, dal guardiano, il quale lo spezza e glielo infila nella bocca come si metterebbe un carbone dentro una fornacella; del modo come gli danno l’acqua non e parliamo, se lo raffigurerà chiunque si volesse dare la pena di riflettere alla difficoltà che, stando in quella posizione, l’uomo ha, se vuol bere.
Abbiamo parlato delle tre torture, la Camicia di forza, la Palla e il Cascione: ce ne sono delle altre. Tenteremo di descrivere anche queste.
C’è il Puntale. È un collare di ferro che si chiude alla gola dell’individuo con un apposito catenaccio. Questo collare, mediante una corta catena, è attaccato a un anello che sta ficcato dentro il muro.
Il minimo della durata di questa tortura è di due giorni e due notti. Bisogna perciò mangiare in piedi, dormire in piedi, completare stando così tutti gli atti necessari… morire in piedi, caso mai il cuore di chi vi è condannato fosse sorpreso da una sincope, caso mai il suo cervello fosse colto da un tocco apoplettico.
Ma questo non basta: per i nostri rigeneratori è poca cosa la forca; vili come i conigli, stupidi come oche, non possono è vero, come pure vorrebbero, essere feroci come le tigri, ma s’industriano, le buone creature, fanno tutto il possibile per sembrarlo. Una volta che si sentono tanti contro uno, che si sentono al sicuro della vendetta delle loro vittime, che sono certi che non subiranno nulla, diventano, per fare del male ai loro simili, industriosi di tal maniera, come, per giovare al proprio figlio, diventa industriosa la mamma.
Ci sta una quinta tortura, e diciamo quinta e non sesta e non settima e non decima, perché non ci sembra che ne valesse la pena in tanto lusso di crudeltà, in tanta quantità di ferocia, tener conto delle manette, polsini, del pane ed acqua, dei sotterranei, e d’altre cose più o meno civili, ingegnose e degne di questi schifosissimi che hanno schiacciato i pidocchi che avevano dentro le camice loro con le monete d’oro che stavano dentro le tasche nostre.
Questa quinta tortura è chiamata dei Ferri corti. Consiste nel legare l’individuo mani e piedi e tenerlo così accovacciato, accartocciato e arravogliato a terra come un gomitolo sulla nuda terra.
Le diverse torture non sono nate tutte da un pensiero: una ne ha scoperta un’altra.
Un uomo accovacciato così, ha mostrato che la testa si poteva mantenere diritta; ebbene bisognava fargliela abbassare; è un dolore di più? E perché non approfittarne?
E ne hanno approfittato.
Serrano il collo del paziente dentro un collare di ferro. Nella parte superiore di questo collare ci legano una forte cinghia di cuoio; ve la passano sopra la testa e quando la barba tocca il petto, legano l’altra estremità della cinghia al ceppo dove sono legati le mani e i piedi vostri.
Questo ingegnoso meccanismo si sperimenta ordinariamente dentro la camera contrassegnata, se la memoria non ci fa sbagliare, col numero 44. Questa camera sta vicino a la fontana al secondo piano del carcere della Vicarìa.
Il cassone del quale abbiamo parlato nell’articolo precedente, se lord Gladstone volesse avere la bontà di venire a vederlo, — affinché potesse poi dichiarare per quello che è quest’altro governo — lo troverebbe dentro una piccola camera situata vicino alle cosiddette Scuole Vecchie.
A chi si è obbligati per l’invenzione di queste torture, lo ripetiamo, nessuno lo sa, ma noi insistiamo sempre col crederle opera di Spaventa. Quando Dio dà a un soggetto una faccia come quella che ha dato a Spaventa, non può, certo, non avergli posto dentro al cuore qualche cosa che spiegasse il perché di quella faccia.
E di fatto, guardate con un poco d’attenzione quest’uomo e poi venitemi a dire — ancorché non foste Levater — se non vi sembra nato per impiccare o essere impiccato.
Sia come si voglia, certo si è, che, dicemmo nell’articolo precedente, egli ebbe una parte per nulla indifferente, dentro alla cosiddetta riforma del sistema carcerario.
Ma voi esagerate — si dirà — queste cose non sono possibili nel 1868. Che si cammini come i gamberi dentro l’Italia? Con un governo galantuomo? Con un governo civilizzatore, riparatore, moralizzatore, e per giunta redentore?
Ma va! Questa è una calunnia troppo materiale; è una pazzia di cattivo genere.
Sì, è vero, noi calunniamo, noi lo diciamo per pazzia.
E affinché le calunnie nostre avessero più aria di verità, perché le pazzie nostre sembrassero le cose più serie di questo mondo, daremo forza alle une e alle altre, se piace a Dio, citando date, e nominando soggetti. Chi lo può ci smentisse.
Verso la fine del 1865, nelle vicinanze di Monteforte fu arrestato un individuo. Era di bassa statura poteva avere una trentina d’anni, aveva una barba nera e un aspetto da burlone.
Interrogato da quelli che l’arrestarono non rispose: interrogatolo di nuovo, accompagnarono le domande con le minacce, s’ebbe lo stesso silenzio e un muovere d’occhi disordinato, incerto, stupido, pauroso.
Chi lo conosceva disse ch’era sordomuto. Ma questa giustificazione non piacque; e lo inviarono per l’accertamento al carcere della Vicarìa.
E di prova in prova, vale a dire da tortura a tortura, s’arrivò al marzo 1866.
Lo tennero così per dieci giorni dentro al cassone, poi ai ferri corti, poi di nuovo al cassone, poi con la testa in giù — e sempre a pane e acqua.
E poiché tutto questo non era sufficiente a completare tutti gli esperimenti; – i carcerieri che sono uomini di coscienza — gli buttavano di tratto in tratto una quantità d’acqua addosso servendosi di un secchio!
Non sappiamo come finì: forse fu liberato, forse soccombette ai dolori; sappiamo solo come fino a quell’epoca non si parlasse di giudizio e ancora meno, per conseguenza, di difesa.
Andiamo avanti.
Un certo Vito Monte, del quartiere Mercato, arrestato per reato comune — crediamo per furto qualificato, addirittura — nell’aprile del 1866, il mattino del 3 giugno, mentre con gli altri passeggiava dentro il cortile del carcere fu preso e posto sottochiave.
A chi chiese sue notizie dopo qualche giorno, fu detto trovarsi in punizione per essersi lamentato del trattamento dei carcerati.
Da lì a poco tempo, fu tolto da quel porcile, dove sembra che protestasse ancora, e fu posto nel Cascione.
L’infelice piangeva, pregava, scongiurava per tutti i santi del paradiso, imprecava per tutti i diavoli dell’inferno che lo togliessero da quel supplizio.
Le lacrime che si piangono restano in prigione, sono come quelle che si gettano per i morti, sono lacrime perse. Il carceriere non si commuove per virtù del pianto: le preghiere non arrivano mai alle orecchie sue. Il carceriere è come il poeta, nasce per il mestiere; se avesse orecchie sarebbe carcerato, se avesse cuore diventerebbe pazzo.
Il 10 giugno, Vito Monte, aveva una febbre da cavallo che bruciava. Tolto dal cascione fu portato all’ospedale. Disgraziatamente per lui stette bene, e diciamo disgraziatamente, perché dopo l’ospedale lo rimisero nel cassone.
Le grida di questo disgraziato straziavano; le bestemmie sue atterrivano, le minacce che faceva mettevano orrore:
«Infami, strillava il poverello, è questa la ricompensa che mi date per i servizi resi alla rivoluzione! Non mi mettevate allora nel cassone, quando mi pagavate per abbattere gli stemmi dei Borboni, eh? Non mi mettevate, briganti, dentro al cassone, quando mi pagavate per andare a saccheggiare i posti di polizia? … Cani! Assassini! Figli di scrofa! Avanzi di forca! eccetera eccetera». Sembrava che stesse per diventare pazzo.
Un giorno dai suoi custodi fu – certo per inavvertenza – lasciata aperta la porta della camera del supplizio.
Alcuni detenuti politici, vuoi per pietà, vuoi per altro, entrati di nascosto, dopo avergli detto di non dire nulla, lo sciolsero.
«Un’arma, cominciò a strillare allora quel pazzo, datemi un’arma per carità; per le anime dei vostri morti, un’arma! Un pezzo di legno, una pietra, un pezzo di vetro, un chiodo…. Ah, che possa aprire il cuore di questi infami; bere un sorso dei loro cervelli, che possa ficcare la testa nel loro ventre e dare un morso, un morso solo al loro intestino! E si alzò.
In un angolo della cameretta c’era una grossa scopa di saggina; la vide. Il suo aspetto era triste, terribile; le narici del naso s’erano allargate tanto che sembravano di sentire l’odore del sangue; sbatté i denti gli contro gli altri, farfugliò non so che bestemmia, e come una belva che si butta sui figli per salvarli dall’insidia del cacciatore, si lanciò sulla scopa e con un movimento compulsivo la prese come se volesse colpire quegli stessi che l’avevano salvato. Le membra sue s’erano gelate, le articolazioni senza moto, le forze gli vennero meno; la commozione della gioia gli avevano risvegliato addosso la commozione del dolore, le ginocchia si piegarono sotto il peso del suo corpo, tremò per un momento, traballò e cadde. I suoi salvatori pensarono di ritirarsi per non essere scoperti. I custodi quando tornarono nella camera trovarono la loro vittima sciolta e fuori del cassone, ma non più minacciosa né in atto di chi vuol vendicarsi, ma distesa lunga a terra, tremante, supplichevole, affannosa, con la bocca sporca di schiuma sanguigna, la fronte bagnata di sudore gelato. Il povero Monte, il povero torturato non aveva più la minaccia sulla bocca; L’infelice aveva solamente la morte al cuore. Debitamente battuto, debitamente interrogato e schiaffeggiato e preso a calci per giunta, fu nuovamente posto dentro la cassa.
È finita per me, esclamò il Monte, chiuse gli occhi e lasciò fare.
La fronte gli si distese: era il riflesso di un’idea che gli era venuta in testa.
Aveva deciso di lasciarsi morire di fame.
Al carceriere che più tardi gli portò il pane e l’acqua disse di non volerne.
Per trentasei ore non toccò cibo.
Il carceriere sospettò il suo pensiero.
— Tu vuoi morire, gli disse, non è così?
— Si, rispose il Monte, è la mia volontà.
— Aspetta però (disse il carceriere) che ora io ti faccia sperimentare prima la mia volontà.
E così dicendo, si dette a picchiarlo sulla bocca con quanta forza avesse nel braccio, con lo stesso pane duro che teneva tra le mani.
— Apri la bocca, marmotta; apri la bocca, briccone, diceva ad ogni colpo e batteva sempre.
Le labbra rotte, rotte le gengive, i denti rotti, dalla bocca di quel poverello usciva una schiuma di sangue.
— Magna carogna, ripeteva sempre con rabbia crescente il carceriere, mangia carogna!
E la carogna mangiò. Mangiò più per il dolore che per volontà, mangiò pane e sangue e denti rotti.
Caduto malato un’altra volta, fu di nuovo mandato in ospedale: guarito di nuovo, fu un’altra volta posto nella cassa…
Era il mattino dell’8 agosto. Dentro la camera del Monte regnava un silenzio profondo.
I carcerieri, sorpresi di non sentire i soliti strilli, entrarono.
Un rantolo sordo, cupo, sinistro era l’unico suono che rompeva il silenzio del carcere. L’infelice agonizzava.
Tolto in fretta dalla cassa fu portato dentro la camera numero 42.
Dopo un’ora, la vittima aveva cessato di soffrire, perché il suo cuore aveva smesso di battere. Era morto.
Nel 1868 si scomodò persino il Times scrivendo: «Nelle prigioni di Napoli si pratica qualcosa di turpe, di feroce, d’immondo, di barbaro e d’infame», e si riferivano alle torture, ripristinate dai generali piemontesi per “educare i terroni”.
In un clima politico e culturale, di modernità, nel 1845, subito dopo l’inaugurazione del nuovo carcere di Palermo, l’Ucciardone, ritenuto dal punto di vista architettonico il più moderno d’Europa, veniva promulgato dai Borboni un decreto sulla legislazione carceraria che rendeva il sistema penitenziario borbonico il più moderno del mondo. Il decreto, infatti, prevedeva: la classificazione dei carcerati in varie categorie, a seconda dell’età e del delitto commesso e la loro separazione in strutture diverse, per evitare contaminazioni. La destinazione al lavoro dei condannati alla reclusione, fino ad allora abbandonati nel più terribile ozio, presso manifatture da costituirsi all’interno degli stessi penitenziari; l’istruzione religiosa e morale ai carcerati. Il decreto conteneva, altresì, norme sulla struttura architettonica del carcere che avrebbe dovuto rispondere ai requisiti della vigilanza, della sicurezza, della salubrità, della capacità e del contenimento della spesa.
Fra le carceri palermitane, prima dell’inaugurazione dell’Ucciardone, il principale e più affollato era la Vicaria, nome, peraltro, con cui venivano chiamati i carceri delle principali città del regno. Il carcere sito al di là della Porta Felice e affacciantesi sull’odierna via Vittorio Emanuele, occupava i locali oggi adibiti ad uffici dell’amministrazione delle Finanze, ospitava, nei primi anni dell’Ottocento, tra i 1000 e i 1500 detenuti, la maggior parte dei quali in attesa di processo. Gli altri carceri cittadini erano Castellammare, fin quando non fu distrutto e la Quinta casa, già convento dei gesuiti, sito nell’odierna via dei Cantieri.
Nel regno di Sicilia l’amministrazione della giustizia era influenzata dalle leggi del periodo normanno e svevo e poteva considerarsi apprezzabilmente funzionante. Pur essendo la vendetta privata ancora praticata, gradualmente veniva sostituita col risarcimento in denaro, mentre si cominciava a diffondere la pena detentiva come alternativa alle sanzioni corporali particolarmente cruente. Sul finire del XVI secolo, pur restando la pena di morte la sanzione applicata per i delitti più gravi, le altre pene come i castighi fisici, le mutilazioni e la gogna cominciarono ad essere sostituiti con altri tipi di sanzioni capaci di assicurare allo stato un ritorno economico, pur mantenendo la loro funzione di terribile castigo per il reo. Si cominciò, allora, a ritornare a tre tipi di pene già note nell’antichità classica: l’utilizzo dei rei nelle galere, la deportazione e i lavori forzati.
Fu, l’Inghilterra a farsi promotrice di tali riforme; si comprese, infatti, che invece di relegare i rei in putride carceri a marcire per la sporcizia, la mancanza di cibo o le epidemie che in quei luoghi, fin troppo spesso, scoppiavano, sarebbe stato ben più utile impiegarli ai remi, servendosi della loro forza per il trasporto di merci e persone o, meglio, utilizzarli nei lavori più duri, ai quali soltanto i disperati avrebbero potuto sottomettersi. Così nella “civilissima” Inghilterra furono fatti i primi esperimenti di prigioni galleggianti; si trattava di vecchie navi, quasi sempre in disarmo, che venivano ancorate in determinati punti del Tamigi e che arrivavano ad ospitare fino a trecento prigionieri, i quali ogni mattina venivano trasportati su chiatte dove, per lo più venivano impiegati nel terribile lavoro del dragaggio del fiume. Malgrado si trattasse di fatiche durissime sostenute in condizioni ambientali terribili, i rei preferivano tale tipo di castigo, nonostante fossero costretti a lavorare tutto l’anno all’aperto con qualsiasi tipo di clima, senza riparo alcuno, alla prigionia nell’ozio, senza mai poter vedere il cielo e respirare un’aria che non fosse quella puzzolente e malsana degli ambienti chiusi sporchi e superaffollati dove erano stati costretti a vivere. Sempre gli inglesi sperimentarono la pena della deportazione che consisteva nel condannare i rei ai lavori forzati nelle colonie inglesi d’oltremare. Alla fine del settecento questo tipo di sanzione permise alla Corona inglese di colonizzare con pochissima spesa un intero continente come l’Australia.
Tuttavia, in tutta l’Europa, agli albori del Seicento, i rei cominciarono ad essere adibiti ai lavori forzati, non solo nelle colonie o all’esterno delle prigioni, ma anche al loro interno dove vennero costruiti vari tipi di manifatture. Il prigioniero così veniva tolto dall’ozio, imparava un mestiere e nello stesso tempo diventava economicamente produttivo.
Nel Settecento cominciavano a diffondersi le teorie dei Lumi che, non solo predicavano l’eguaglianza davanti alla legge, ma miravano anche al raggiungimento di legislazioni più giuste e che prevedessero trattamenti più umanitari anche per il reo che, nonostante la colpa commessa, non meritava né la morte, né tantomeno di veder calpestata la sua dignità d’uomo. Fu il Granduca Pietro Leopoldo di Toscana a rendere applicabili nella realtà i più moderni principi illuministici senza limitarsi soltanto ad approvarli come fecero gli altri sovrani europei. Il Codice Leopoldino del 1786 prevedeva addirittura, l’abolizione della pena di morte.
Con lo scoppio della rivoluzione francese i dibattiti sul rispetto dei diritti umani e sulla riforma anche del sistema carcerario, si fecero sempre più accesi e frequenti. Fu l’economista inglese Bentham, noto come caposcuola della corrente di pensiero detta utilitarismo, ad essere attratto dai problemi connessi al sistema carcerario, problemi che divenivano sempre più pressanti, non solo per l’imperversare dei dibattiti e degli scritti in materia, ma anche per il sovraffollamento delle carceri, da cui, peraltro, si diffondevano anche all’esterno spaventose epidemie. Dopo anni di riflessione l’economista inglese pensò di aver risolto ogni problema presentando il progetto del suo Panopticon, carcere di forma circolare dotato di celle individuali, disposte lungo la circonferenza ” le cui finestre e la cui illuminazione fossero gestite in maniera tale che gli occupanti fossero chiaramente visibili da una torre centrale di controllo […] Un simile sistema di vigilanza incessante avrebbe impedito i nocivi contatti tra i detenuti, e avrebbe reso superflue le catene e altre similari anacronistiche strutture. Sorvegliati di continuo, i carcerati avrebbero potuto (e dovuto) lavorare fino a sedici ore al giorno nelle proprie celle, con grande profitto dell’imprenditore privato cui sarebbe toccato promuovere e dirigere l’istituzione in condizioni di grande vantaggio rispetto ai concorrenti costretti a far ricorso alla manodopera libera.[…] Il meccanismo del libero mercato doveva quindi essere messo in condizione di regolare senza intralci un’alternanza di terrore e di umanità all’interno del Panopticon, che andava gestito alla stregua di un’impresa capitalistica.”
Alle obiezioni che gli vennero rivolte in relazione allo sfruttamento che i rei avrebbero subito da parte degli imprenditori, Bentham rispose proponendo, non solo che la prigione fosse aperta alla visita e all’ispezione di chiunque nutrisse dubbi sul trattamento dei prigionieri, ma suggerì, che si imponesse agli imprenditori il pagamento di cinque sterline per ogni detenuto deceduto, quando i decessi superassero il tasso medio di mortalità a Londra. Anche se da tutto ciò si evince che il sistema prospettato da Bentham non partiva certo da ideali umanitari, il suo progetto di prigione circolare affascinò la maggior parte degli architetti del tempo e i governanti più illuminati.
Un ulteriore apporto delle idee illuministe fu quello di rendere l’esecuzione della pena capitale meno disumana, adottando metodi più indolori come, per esempio, la ghigliottina.
Fra i sovrani europei che accolsero positivamente le proposte di riforma carceraria si distinsero fra tutti proprio i Borbone che diedero prova di maggiore sensibilità rispetto agli stessi governanti inglesi, i quali si limitavano ad approvare i progetti dei riformatori, guardandosi bene, tuttavia, dal metterli in atto, con la conseguenza che le loro carceri, malgrado una propaganda mirante a tesserne gli elogi, risultavano le più terribili e disumane di tutta l’Europa.
Nel 1817 Ferdinando I di Borbone emetteva un decreto sulle carceri assolutamente all’avanguardia per i tempi. Il provvedimento prevedeva, innanzi tutto, la costituzione di una speciale Commissione per ogni valle, che vigilasse sul regolare funzionamento delle carceri, sulla salubrità e sicurezza dei locali e sulla qualità del cibo somministrato ai prigionieri. Inoltre, conteneva norme relative alla concessione di appalti che provvedessero, all’interno delle carceri, alle più elementari necessità dei detenuti, come la pulizia, la rasatura, il lavaggio della biancheria sporca, il ricovero dei malati in apposite strutture sanitarie. Ogni prigione sarebbe stata, inoltre, fornita di un cappellano, di un medico e di un cerusico. Un successivo decreto del 1822 introduceva per la risoluzione dei procedimenti giacenti, l’istituto della transazione, l’odierno patteggiamento, tra il pubblico ministero e il reo, nel contesto di un procedimento abbreviato.
Il regime borbonico si dimostrò all’avanguardia, nel settore, soprattutto per la progettazione e poi per la costruzione del primo carcere che si rifaceva ai criteri architettonici suggeriti dal Bentham: si trattava del carcere palermitano dell’Ucciardone inaugurato nel 1840.
Due anni prima, sulla scia di una serie di studi e ricerche in materia, inaugurate dai francesi Tocqueville e Beaumont che si erano recati negli Stati Uniti d’America per analizzare il locale sistema carcerario, Filippo Valpolicella pubblicava, su incarico dei sovrani di Napoli, un suo ponderoso lavoro dal titolo Delle prigioni e del loro migliore ordinamento. In tale opera sembra superato l’uso della pena di morte e delle pene corporali, mentre l’esilio e la prigionia vengono ritenute le uniche pene da applicarsi contro i rei, mentre il lavoro, l’igiene, il silenzio, la divisione dei detenuti, la loro educazione religiosa, diventano i cardini del progetto di riforma. E, invero, con la costruzione dei carceri di Avellino e Palermo, ambedue a pianta circolare, alla stregua delle più moderne teorie, si dimostra che il Regno delle Due Sicilie mira alla concreta applicazione dei progetti di riforme e non alla sterile disquisizione sugli stessi. Già nel 1812 Ferdinando I di Borbone aveva sentito la necessità di sostituire il vecchio carcere di Palermo, la Vicaria, con una nuova struttura più salubre e più sicura dove i prigionieri potessero essere sottratti all’ozio ed avviati ad un mestiere. La Vicaria, infatti, presentava una pluralità d’inconvenienti: il suo sovraffollamento rendeva la vita dei carcerati simile a quella dei dannati nei gironi dell’inferno dantesco, favorendo, oltre ai vizi derivanti dalla promiscuità, il sorgere di frequenti epidemie che, per la posizione del carcere, al centro della città, facilmente uscivano dalla prigione diffondendosi fra i rioni cittadini. Inoltre la sua collocazione in centro, rendeva poco sicuro il carcere, essendo molto facilitate le comunicazioni tra l’interno e l’esterno: così com’era più semplice evadere, era altrettanto facile che, soprattutto in periodo d’insurrezioni e rivolte, il seme della ribellione penetrasse all’interno del luogo di pena.
Tutto ciò aveva distolto i governanti dal trasformare una vecchia struttura conventuale come lo Spasimo, anch’esso al centro della città, in nuovo carcere, o dal trasferire i detenuti nell’altra prigione, detta Quinta Casa. Si reputava necessario costruire il nuovo carcere fuori del centro cittadino, in luogo salubre e soprattutto su una pianta a raggiera che rispondesse ai criteri enunciati dal Bentham. Anzi il decreto del 1845, sulla divisione dei carcerati per categorie in relazione ai reati commessi e all’età, sulla fornitura di vitto accettabile, sull’adozione di celle individuali, sull’impiego dei reclusi in attività lavorative da esercitarsi all’interno della stessa prigione, sull’accettazione dell’introduzione del metodo correttivo nella pena, andava al di là dei progetti di riforma circolanti nel resto dell’Europa.
Il progetto borbonico, tuttavia, rimase un’utopia, infatti “non si era prevista la mancanza di una burocrazia fedele, onesta e zelante del pubblico bene, attenta alle nuove riforme, conseguentemente le modifiche apportate al sistema carcerario, pur tendenti a un utilizzo più produttivo e moderno della forza-lavoro detenuta, vengono in realtà inapplicate da amministratori locali, nonostante il cambiamento di gestione riluttanti verso qualsiasi novità proveniente da Napoli e tendente ad un accentramento statale”.
L’apertura del regime borbonico nel campo della politica carceraria contrasta con la fama che esso acquistò in Europa per merito del liberale Gladstone che, nel 1851, recatosi a Napoli per motivi di salute, essendo andato a visitare le carceri di Nisida, definì il regime borbonico ” la negazione di Dio, la sovversione d’ogni idea morale e sociale eretta a sistema di governo”. Si seppe ahimè! troppo tardi che Gladstone non era mai andato a visitare le carceri borboniche e che quelle sue famose lettere pubblicate da tutti i giornali inglesi e discusse nel parlamento britannico, non erano state altro che il frutto di un accordo tra il politico liberale e il governo di Sua Maestà, per mettere in cattiva luce davanti all’Europa intera, la dinastia borbonica, colpevole di aver favorito una penetrazione russa nel mediterraneo a discapito degli interessi commerciali inglesi. In compenso agli occhi degli osservatori stranieri le carceri inglesi si rivelarono ben peggiori di quelle napoletane!
Nemmeno con l’unità nazionale cambiarono i sistemi nelle carceri della penisola, “[…]lo stato liberale continuò ancora a comportarsi come uno stato di polizia, al cui confronto quello borbonico appariva addirittura più rispettoso dei diritti umani”
In ogni città, del Regno delle due Sicilie, non manca , sopravvissuto ai tempi ed alle guerre, un edificio che dappertutto viene definito “carcere borbonico”. Nessun altro edificio, seppur costruito nello stesso periodo, ed adibito a fini istituzionali, gode di tale aggettivo. Non un museo, una villa, un teatro, un’accademia, un ospedale, una scuola; solo le carceri.
Triste eredità degli effetti della lettera di William Gladstone, dove il leader dei liberali inglesi, reduce nel 1851 di una supposta visita al carcere di Nisida, definisce il sistema carcerario ed in genere giudiziario del Regno, “la negazione di Dio eretta a sistema”, subito ripresa e diffusa da quanti tramavano ai danni del governo borbonico. Viene ignorato il fatto che nel 1852 lo stesso Gladstone si rimangiò molto di quanto aveva scritto e confessò di essere stato anch’egli raggirato. A supporto riportiamo quanto Domenico Razzano scrisse: “Gladstone tornato a Napoli nel 1888 1889 fu ossequiato e festeggiato dai maggiorenti del così detto Partito Liberale, i quali non mancarono di glorificarlo per le sue famose lettere con la negazione di Dio, che tanto aiutarono la nostra rivoluzione; ma a questo punto Gladstone versò una secchia d’acqua gelata addosso ai suoi glorificatori. Confessò che aveva scritto per incarico di Palmerston, con la buona occasione che egli tornava da Napoli; che egli non era stato in alcun carcere, in nessun ergastolo; che aveva dato per veduto da lui quello che gli avevano detto i nostri rivoluzionari”. Questa ritrattazione non ebbe, però, alcun effetto di recupero. La lettera e la frase in essa contenuta continua ad essere il leit motiv che descrive la giustizia borbonica fino ai giorni nostri. E così nonostante i sui suoi primati civili e culturali, sulla sua supremazia sui mari, al sistema giustizia non si riesce a superare i luoghi comuni che per più di un secolo e mezzo hanno contribuito a trasmettere l’idea di un regno e di un governo occhiuto, poliziesco e oppressivo, dove non aveva luogo il minimo rispetto delle libertà individuali e dove al sistema carcerario era quasi preferibile una condanna all’inferno. L’aggettivo più diffuso che affianca i nomi è “famigerato”. Ferdinando II venne definito Re Bomba per aver consentito il bombardamento di alcune baracche a Messina, dove si erano rifugiati delinquenti comuni durante i moti de ’48, mentre Vittorio Emanuele II, dopo aver fatto bombardare fino alla distruzione Sestri Levante e parte di Genova, venne gratificato dell’epiteto di Re Galantuomo.
La più trita retorica risorgimentale, ignora che sotto i Borbone fu compiuta la prima riforma carceraria che tenne conto dell’umanità del condannato, considerando che i luoghi di detenzione dovevano essere anche luoghi di redenzione, e che comunque si doveva passare dagli incivili e inumani luoghi dove i condannati soffrivano la reclusione nella più bieca ed inumana promiscuità, ammassati in locali senza servizi igienici e dove convivevano molte volte donne, bambini e uomini. Si rese evidente la necessità di assicurare locali adeguati per spazio e cubatura, igienici e dove i condannati separati per sesso e per tipologia di reato avessero anche assistenza sanitaria, religiosa, e un’attività lavorativa.
I “famigerati Borboni” realizzarono un regime penitenziale fra i meno disumani d’Europa, e progettarono, prima d’ogni altro stato europeo, una riforma in tal campo che teneva conto delle esigenze elementari dei carcerati e della necessità di educarli, al fine di permettere loro di iniziare una nuova vita, una volta espiata la pena. Se tale riforma che vengono considerate utopia non diede luogo agli effetti desiderati, ciò fu dovuto essenzialmente all’ostruzionismo della burocrazia ed alle continue rivoluzioni che il Regno dovette subire dal 1820 al 1860.
Essi furono fra i sovrani europei che per primi avviarono una riforma carceraria e si distinsero fra tutti dando prova di maggiore sensibilità rispetto per esempio agli stessi governanti inglesi, i quali si limitavano ad approvare i progetti dei riformatori, guardandosi bene, tuttavia, dal metterli in atto, con la conseguenza che le loro carceri, malgrado una propaganda mirante a tesserne gli elogi, risultavano le più terribili e disumane di tutta l’Europa.
Nel 1817 Ferdinando I di Borbone emetteva un decreto sulle carceri assolutamente all’avanguardia per i tempi. Il provvedimento prevedeva, innanzi tutto, la costituzione di una speciale Commissione per ogni valle, che vigilasse sul regolare funzionamento delle carceri, sulla salubrità e sicurezza dei locali e sulla qualità del cibo somministrato ai prigionieri. Inoltre, conteneva norme relative alla concessione di appalti che provvedessero, all’interno delle carceri, alle più elementari necessità dei detenuti, come la pulizia, la rasatura, il lavaggio della biancheria sporca, il ricovero dei malati in apposite strutture sanitarie. Ogni prigione sarebbe stata, inoltre, fornita di un cappellano, di un medico e di un cerusico. Un successivo decreto del 1822 introduceva per la risoluzione dei procedimenti giacenti, l’istituto della tran-sazione, l’odierno patteggiamento, tra il pubblico ministero e il reo, nel contesto di un procedimento abbreviato.
Il regime borbonico si dimostrò all’avanguardia, nel settore, soprattutto per la progettazione e poi per la costruzione del primo carcere che si rifaceva ai criteri architettonici suggeriti dal Bentham: si trattava del carcere palermitano dell’Ucciardone inaugurato nel 1840.
Nel 1850 Antonio Panizzi, un esule che sin dal 1831 ricopriva un posto di riguardo nella Biblioteca del British Museum di Londra, convinse lo statista inglese William Gladstone a visitare Napoli.
L’intento del Panizzi era duplice: da un lato, infatti, il suo invito era dettato dall’amichevole sollecitudine per la salute della figlia dell’uomo politico britannico, affetta da una malattia agli occhi che si sperava potesse essere combattuta grazie al clima mite del suolo partenopeo. Ma il viaggio di Gladstone, nelle intenzioni del bibliotecario italiano, avrebbe avuto anche uno scopo politico preciso. Spesso, infatti, Panizzi aveva parlato all’amico inglese delle critiche condizioni dei prigionieri incarcerati nelle galere del Regno delle Due Sicilie dopo i fatti del 1848: il soggiorno napoletano avrebbe dato pertanto a Gladstone la possibilità di constatare personalmente cosa stava accadendo nel regno di Ferdinando II di Borbone.
Nell’ottobre del 1850, prima di partire per Napoli, sir William fece visita a Londra all’ambasciatore borbonico Paolo Ruffo, principe di Castelcicala, per informarlo del suo imminente viaggio. Dopo questo incontro, il principe di Castelcicala indirizzò una lettera al ministro degli Esteri Giustino Fortunato, raccomandandogli di accogliere Gladstone con la sua solita cortesia e bontà. Alla fine di quello stesso ottobre, lo statista inglese giunse a Napoli, prendendo alloggio alla casa Dupont, al numero 5 di via Chiatamone. Nei quattro mesi del suo soggiorno colse fra l’altro l’occasione di visitare i luoghi più rinomati della città, fra cui la tomba di Giacomo Leopardi, del quale era profondo ammiratore e studioso.
Il 16 novembre Lord Leven offrì un pranzo all’Albergo delle Crocelle. Qui Gladstone conobbe Giacomo Lacaita da Manduria, patrocinatore in Corte civile e consigliere presso la Legazione britannica a Napoli. Nel corso delle loro conversazioni, Lacaita, intimo amico ed estimatore di Carlo Poerio, raccontò che questi, per aver sostenuto l’applicazione nel Regno delle istituzioni costituzionali moderate di tipo inglese, era rinchiuso in carcere e sottoposto al processo che si discuteva presso la Gran Corte della Vicaria. Gladstone, vivamente interessato, volle assistere assiduamente alle udienze: udì la requisitoria del procuratore generale Angelillo il 4, 6 e 7 dicembre e, successivamente, ascoltò sia le arringhe degli avvocati difensori sia le autodifese di Agresti, Nisco, Pironti, Settembrini e Poerio. Al termine del processo, quando ormai ai prigionieri era stata comminata la pena, Gladstone fu anche testimone del trattamento da loro subito in galera. Egli, infatti, ebbe modo di far visita clandestinamente a Carlo Poerio all’interno del carcere di Nisida nel mese di febbraio del 1851.
Tornato in Inghilterra, il 7 aprile indirizzò al Primo Ministro Lord Aberdeen una lettera in cui descriveva con accenti di accorata indignazione la condizione deplorevole dei condannati e delle prigioni del Regno borbonico, sperando che ciò avrebbe potuto indurre il governo napoletano a migliorare la situazione dei reclusi. Dal canto suo Lord Aberdeen, dopo aver ricevuto la lettera, ritenne opportuno informare immediatamente l’ambasciatore del Regno delle Due Sicilie a Londra, prospettando la possibilità di impedirne la stampa se Ferdinando II si fosse impegnato a mitigare la condizione carceraria dei patrioti: in tal senso, il 22 maggio, inviò una missiva al principe di Castelcicala accludendo una copia della lettera scrittagli da Gladstone. Castelcicala, a sua volta, scrive subito a Napoli al ministro degli Esteri Giustino Fortunato e al segretario particolare del re, Leopoldo Corsi. Fortunato, subito dopo aver ricevuto la lettera di Castelcicala, si accinse a preparare una smentita alle affermazioni di Gladstone; ritenne inoltre opportuno informare di quanto avvenuto i rappresentanti dei vari governi europei.
Verso la fine di giugno Lord Aberdeen chiese di incontrare il principe di Castelcicala per discutere del problema evidenziato da Gladstone. Il 24 giugno Castelcicala indirizzò una lettera a Giustino Fortunato accludendo il biglietto di Aberdeen con la richiesta di un colloquio e riferendogli quanto sir William aveva recentemente dichiarato allo stesso Lord Aberdeen: lo statista britannico continuava a sostenere di aver visto personalmente ciò che aveva descritto. Quindi, se entro la prima settimana di luglio non avesse ricevuto alcun riscontro, egli non avrebbe più aspettato a rendere nota la questione al pubblico e alle Camere. Se invece il governo napoletano avesse liberato Carlo Poerio, Gladstone si sarebbe sentito soddisfatto e avrebbe taciuto. Dopo aver a lungo atteso, visto che la sua lettera a Lord Aberdeen non aveva conseguito il risultato sperato, Gladstone si rese conto che era arrivato il momento di renderla pubblica e scrisse al Panizzi: «Devo assolutamente stampare la prossima settimana, a meno che non venga a sapere che qualcosa di buono sia stato fatto». La pubblicazione, come è noto, avvenne; anzi: l’autore diede alle stampe, insieme con la prima, una seconda lettera indirizzata al medesimo destinatario. Lo scandalo internazionale che ne derivò fu enorme: il danno inflitto all’immagine del governo di Ferdinando II nelle cancellerie e nell’opinione pubblica europea, e perfino americana, si rivelò ben presto irreparabile. Da allora ebbe larga fortuna lo stereotipo del regime vigente in Napoli come «negazione di Dio».
fonte