Carmine Crocco e il brigantaggio meridionale
Fatta l’Italia, si sono dovuti fare gli italiani. La rivisitazione della celebre frase di Massimo d’Azeglio, primo ministro del Regno di Sardegna, non poteva essere più profetica. Infatti, a partire dalla proclamazione del Regno d’Italia, 17 marzo 1861, fino al 1865, nelle province meridionali, si assistette, accanto all’entusiastica adesione al movimento risorgimentale, all’esplosione di un vasto e radicato movimento di rivolta.
Questo, comunemente noto come «Grande brigantaggio», tenne sotto scacco le truppe piemontesi che, nel momento più critico, arrivarono a contare circa 120 mila unità, ovvero poco meno della metà del loro effettivo totale. Il brigantaggio, tuttavia, non era fenomeno nuovo, infatti, il sud Italia, a partire dal XVIII secolo, soffriva la presenza di bande di criminali avvezzi a ruberie e sequestri di viandanti.
Questi criminali comuni furono a volte ingaggiati come braccio armato di rivolte e controrivoluzioni, come nel caso dell’Esercito della Santa Fede (e quindi denominati “Sanfedisti”), truppa armata antigiacobina che, alla fine del XVIII secolo, guidata dal Cardinale Ruffo di Calabria e dal brigante Fra Diavolo, lottò contro la Repubblica napoletana. E già all’epoca, le modalità di intervento del potere statale, poi tragicamente riprese dal sabaudo Enrico Cialdini1, erano lungi da essere senza crudeltà ed esecuzioni sommarie.
Ne fu esempio l’azione repressiva di Charles Antoine Manhès, colonnello francese, che brutalmente riuscì a pacificare vaste zone della Calabria e della Basilicata nel periodo Murattiano e durante la restaurazione borbonica.
Tuttavia, le cause del brigantaggio postunitario, periodo durante il quale ci fu un fiorire di bande più o meno numerose tra la Campania, Basilicata e Puglia, sono da ricercare anche, ma non solo, nella disillusione delle masse contadine; infatti, a queste, Garibaldi, durante la sua Spedizione, aveva promesso «la terra», ma, successivamente, la regolamentazione italiana cancellava gli usi civici, prima tacitamente concessi, come il diritto di legnatico, e confiscava i beni della chiesa. I “cafoni” si ritrovarono in condizioni ancora più precarie rispetto a quelle, già difficili, patite ai tempi dei Borbone. Un esempio su tutti. Come osserva Valentino Romano2, durante il periodo borbonico, il contadino, per una giornata lavorativa, guadagnava dai sedici ai quaranta grani (la moneta in uso nel Regno delle Due Sicilie) e un rotolo (891 grammi) di pane d’orzo costava sei grani; uno di pane di grano, dieci. Facile immaginare, allora, come fossero difficilissime le condizioni di vita per queste prolifiche famiglie.
Alla irrisolta questione demaniale, fece seguito la tragedia della chiamata alla leva di massa, quasi mai applicata prima dai Borbone, da parte del neonato Stato italiano. A buon diritto, la si può chiamare “tragedia” perché per i meridionali voleva dire 8 anni lontano da casa, e soprattutto, dai campi. Lo Stato italiano alla diserzione rispose con le baionette, infatti, come rivela lo storico lucano Tommaso Pedio:
La mattina del primo febbraio reparti regolari si portano nei piccoli centri abitati…vengono rastrellati tutti i giovani dall’apparente età dai 20 ai 25 anni. Tra questi non vi sono i figli del sindaco e degli ufficiali e dei militi della Guardia Nazionale, né i figli dei loro amici. Nessun galantuomo, nessun civile, soltanto poveri contadini ai quali nessuno ha mai detto perché sono venuti quei soldati. Non si limitano a dichiarare e a trattenere in arresto come disertori o renitenti alla leva i giovani rastrellati. In alcuni casi, a Castelsaraceno, ad esempio, a Carbone e nei casali di Latronico, fucilano sul posto e senza dar loro la possibilità di giustificare la presunta renitenza alla leva, numerosi giovani i quali non hanno mai saputo della chiamata alle armi della leva del 1857-18603.
Ecco formate le bande di briganti: criminali comuni, contadini disperati, renitenti alla leva, ma anche soldati del disciolto esercito borbonico che si rifiutarono di prestare giuramento al nuovo re. Ai meridionali, come diceva iperbolicamente il politico e lo storico lucano Francesco Saverio Nitti, non rimase che una scelta: emigranti o briganti, ed effettivamente, estirpato il brigantaggio, assistemmo ad un’immensa ondata di emigrazione.
Il 2011, anno del 150 anniversario della celebrazione dell’Unità d’Italia, ha avuto un effetto storicamente interessante producendo una caterva di studi più o meno romanzati ed obiettivi per chiarire finalmente un aspetto per nulla o poco conosciuto della Storia italiana recente.
erché, effettivamente, sotto il nome “Brigantaggio”, talvolta trattato nei libri scolastici e nei salotti come un “errore” della storia, possiamo intendere gli episodi criminali, conseguenza delle sopraccitate precarie condizioni di vita, e le azioni di guerriglia per la restaurazione dei Borbone, fuggiti dal regno il 14 febbraio 1861. A questo punto, ci preme distinguere varie forme di brigantaggio: il brigantaggio ordinario, il brigantaggio “dialettico” e il brigantaggio legittimista.
Il brigantaggio ordinario possiamo definirlo come l’endemica presenza di banditi che compiono atti contro la legge per le motivazioni più disparate e che rimangono tuttavia personali; questi non incontrano il favore (anzi!) della popolazione perché non ne incarna né aspirazioni né ideali. Questa definizione pare essere quella assunta dal Regno d’Italia nel 1863 quando, nella relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio, l’on. Giuseppe Massari definisce: «il brigantaggio […] lotta fra la barbarie e la civiltà; sono la rapina e l’assassinio che levano lo stendardo della ribellione contro la società4». Tuttavia, a questa prima frettolosa lettura, possiamo affiancare quella marxista-gramsciana, in voga all’inizio del XX secolo, dove il brigantaggio è letto in chiave dialettica come il primo moto di coscienza della classe proletaria contadina meridionale che, alleandosi col proletariato industriale settentrionale, avrebbe rovesciato lo sfruttamento borghese.
Questa visione del fenomeno ci introduce a quella del celebre storico inglese di scuola marxista Eric Hobsbawm che interpreta il brigantaggio come exemplum del banditismo sociale; infatti, egli interpreta il Brigantaggio come un esempio di « forma di ribellione individuale o di minoranze all’interno delle società rurali5 ». Per l’autore de «Il Secolo breve», i vari briganti Crocco, Ninco Nanco, Caruso sono
fuorilegge rurali, ritenuti criminali dal signore e dall’autorità statale, ma che pure restano all’interno della società contadina e sono considerati dalla loro gente eroi, campioni, vendicatori, combattenti per la giustizia, persino capi di movimenti di liberazione e comunque uomini degni di ammirazione, aiuto e appoggio6
Ma allora, briganti, criminali comuni o romantici rivoluzionari? Nella maggior parte dei casi, l’azione dei briganti non aveva un reale progetto rivoluzionario, di certo non possiamo bollare come brigantaggio legittimista il battersi per una confusa restaurazione sul trono di Francesco II, re delle Due Sicilie. E nemmeno possiamo elevare i briganti a vendicatori, duri e puri, degli oppressi perché non si ha notizia di espliciti inviti ad occupare le terre o di una, anche se sgangherata, proposta di riforma agraria.
Lo storico Franco Molfese opta per una interpretazione meno idealizzata e più «spuria», infatti, per lui, il brigantaggio è un fenomeno dove trova la sua ragion d’essere
[…] sia la protesta armata contro gli eccessi repressivi delle forze statali e contro i gravami imposti dallo Stato unitario (la coscrizione), sia l’uso della violenza armata per vendicare le sopraffazioni e i tradimenti dei «galantuomini» e; soprattutto, per estorcere ai proprietari una aliquota della rendita agricola, negata sistematicamente7.
E tuttavia il folklore popolare, soprattutto lucano, conserva le memorie delle gesta dei vari Giuseppe Caruso, brigante di Atella, Pasquale Domenico Romano (il Sergente Romano) di Gioia del Colle, di Giuseppe Nicola Summa (noto come Ninco Nanco) di Avigliano, come anche delle drude, o meglio brigantesse, come Michelina de Cesare di Caspoli, compagna del brigante Francesco Guerra, o la feroce Maria Oliveiro di Casole Bruzio membro della banda e compagna di Pietro Monaco8. Ma, tra i tanti, il più celebre è senza dubbio il «Napoleone dei briganti9», ovvero Carmine Crocco, oggetto del presente studio. Egli, nella sua biografia10, prezioso filo di Arianna per dipanare questi difficili anni della Storia d’Italia, si pone subito come vendicatore dei torti subiti. Infatti, ammette di esser divenuto brigante, agli inizi della seconda metà del XIX secolo, per salvare l’onore della sorella Rosina, insidiata da tale Don Peppino C., nobiluomo di Rionero. Questo «casus briganti», lascia perplessi, a fortiori essendo la circostanza smentita dal Massa, coautore delle sue memorie. Ma procediamo per gradi.
Chi era Carmine Donatelli Crocco? Ce lo dice lui stesso nella sua autobiografia «Come divenni brigante», pubblicata nel 1906, che raccoglie le sue memorie scritte nel bagno penale di Santo Stefano, l’isolotto vicino a Ventotene, dove, graziato da Vittorio Emanuele II, sconta la pena dell’ergastolo.
La genesi di quest’opera lascia non pochi dubbi riguardo la qualità della redazione; infatti, come è possibile che Crocco sia dotato di una facilità di scrittura tale da lasciarsi andare ad un lirismo francamente improbabile per qualcuno che spesso sbagliava a scrivere addirittura il proprio nome? Tuttavia, il diario, cominciato nel 1889 e pubblicato agli inizi del ‘900, trova nel già citato Capitano Eugenio Massa, importante esponente del filone di ufficiali e soldati che scriveranno le loro memorie sulla loro discesa in quel «paradiso abitato da diavoli» che era il Sud Italia, un garante di autenticità. Infatti, nella sua prefazione, il Massa afferma di aver pubblicato la biografia del brigante «nella sua integrità sostanziale e formale» rispettando «perfino la grafia scorretta dell’autore11». Questa ipotesi appare, come già detto, totalmente inverosimile e, per una maggiore oggettività storica, preferiamo protendere per l’ipotesi dello storico Ettore Cinnella per il quale:
è infine lecito, mancando ragguagli più precisi sulla composizione del testo […] immaginare […] che il manoscritto originale del brigante sia stato ripulito da qualchedun altro, in carcere, e consegnato al capitano in tale forma12.
e fonti storiche, per un’indagine più approfondita, sono lacunose, e non ci rimane che accettare la curiosa ipotesi di lavoro del Ravasi: «[l’autobiografia di Crocco è] quasi certamente apocrifa, ma attendibile al tempo stesso13».
Carmine Donatelli Crocco, secondo di cinque figli, nasce il 5 giugno 1830 in Basilicata, a Rionero in Vulture, dal contadino Francesco e dalla cardatrice di lana Maria Gerarda Santomauro. Le primissime pagine della sua autobiografia ci descrivono un quadro familiare idilliaco al quale nulla mancava, compreso l’amore di Carmine per sua madre che lo portava, addirittura, ad amare le sue busse, tanto da sbagliare appositamente per averne. Questa visione onestamente poco realista, come giustamente osserva il Cinnella14, servirà al Crocco maturo per giustificare, sul tono della vendetta, i suoi delitti visto che, a suo dire, divenne brigante per vendicare sua madre e sua sorella, vittime di abusi da parte di signorotti locali. Ma le vicende storiche apparentemente stanno in maniera diversa.
Crocco, dopo un’esperienza di pastore nelle valli dell’Ofanto, si arruolò soldato a diciannove anni nel I reggimento d’artiglieria dell’esercito borbonico, ottenendo poi il grado di caporale. Nel 1852, dopo tre anni di onorato servizio, dovette improvvisamente disertare e darsi alla macchia per aver ucciso per «una quistione d’onore» un suo commilitone «che gli era d’impaccio». All’inizio della sua vita brigantesca, Crocco è uno dei tanti sbandati che, per sopravvivere, minaccia e ruba quello che può. Infatti, dopo tre anni passati commettendo ruberie e soprusi, viene arrestato nel 1855 per furto di cavalli e condannato a 19 anni di ferri. Dal bagno penale di Brindisi, nel quale era recluso, riuscì ad evadere nel dicembre 1859 e a nascondersi nei boschi di Monticchio che diventeranno il suo sicuro nascondiglio durante i mesi invernali. Nella primavera del 1860, inizia a delinearsi quella che poi sarà conosciuta come la Banda Crocco; infatti a Carmine, si uniscono Michele De Biase di Ripacandida e Vincenzo Mastronardi di Ferrandina, entrambi briganti molto attivi nel Melfese. Siamo nel 1860, anno dell’Impresa dei Mille, e tutti i «liberali» erano in forte agitazione. Uno dei principali centri nevralgici per la diffusione delle idee risorgimentali era proprio in Lucania: il comune di Corleto Perticara15. Garibaldi, coi suoi Mille, sconvolgeva l’ordine preesistente, liberava, prometteva, riattizzava le idee di libertà e progresso, insomma, portava aria nuova e nuovo nutrimento per le speranze dei contadini. Ma non solo, infatti lasciava intendere, in cambio dell’appoggio all’Impresa, possibilità di riscatto sociale anche per criminali comuni, come i membri del terzetto Crocco.
infatti, l’ormai ex pastore di Rionero dichiara nelle sue memorie:
sotto un governo nuovo, da tutti proclamato liberale, nel trambusto d’una rivoluzione generale, in momenti di entusiasmo e di giubilo, io speravo sorgere a vita nuova, riacquistare quella libertà perduta, per l’onor della famiglia, onde approfittando dei moti popolari mi mescolai cogl’insorti di Rionero e con essi presi parte al moto rivoluzionario16.
Sincero o no, fatto sta che Crocco prestò i suoi servizi in Basilicata, in cambio del perdono per i suoi precedenti misfatti, al capitano della guardia nazionale, Pasquale Corona, e addirittura, come egli stesso afferma, accanto a Garibaldi fino al dicembre dello stesso anno.
Crocco aveva puntato sul nuovo che velocemente avanzava per rifarsi una vita, ma nulla andò come sperato. La Storia, per Crocco, aveva già previsto ulteriori bagni di sangue, tradimenti, e ancora lavori forzati e una squallida morte. La promessa di ripulire la sua fedina penale fatta dal nuovo governo liberale fu delusa e nei confronti di Crocco fu nuovamente spiccato un mandato di cattura, in seguito alla denuncia di Michele Anastasia, capitano della guardia nazionale di Ripacandida. Al Nostro, vendicativo e rabbioso, non rimaneva che riprendere nuovamente la via dei boschi, la via della clandestinità e della criminalità. Ma, quei boschi lucani gli conferirono il grado di «Generale dei briganti», ruolo benedetto dalla ringalluzzita controrivoluzione borbonica e dal suo celebre braccio destro: Giuseppe Nicola Summa, il terribile Ninco Nanco.
Infatti l’8 dicembre 1860, Francesco II delle Due Sicilie e sua moglie, Maria Sofia di Baviera, da una Gaeta assediata dalle truppe sabaude, emettevano il Proclama reale che incitava le popolazioni meridionali a resistere e a contrattaccare:
Popoli delle Due Sicilie!
Da questa Piazza, dove difendo più che la mia corona l’indipendenza della patria comune, si alza la voce del vostro Sovrano per consolarvi nelle vostre miserie, per promettervi tempi più felici. Traditi egualmente, egualmente spogliati, risorgeremo allo stesso tempo dalle nostre sventure; […] Ma quando veggo i sudditi miei, che tanto amo, in preda a tutti i mali della dominazione straniera, quando li vedo come popoli conquistati portanti il loro sangue e le loro sostanze ad altri paesi, calpestati dal piede di straniero padrone, il mio cuore Napolitano batte indignato nel mio petto, consolato soltanto dalla lealtà di questa prode Armata, dallo spettacolo delle nobili proteste che da tutti gli angoli del Regno si alzano contro il trionfo della violenza e dell’astuzia. Io sono Napolitano; nato tra voi, non ho respirato altra aria, non ho veduti altri paesi, non conosco altro suolo, che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno: i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua, le vostre ambizioni mie ambizioni17.
Avvicinato da notabili lucani che gli avevano ventilato la possibilità di porsi a capo della reazione anti piemontese, Crocco accetta di porsi alla testa del tentativo di restaurazione borbonica e la sua banda aumenta di numero. Al suo fianco ora ci sono una ventina di galeotti, criminali comuni, disertori ed ex soldati del disciolto esercito borbonico che avevano rifiutato di servire in quello della nuova Italia. Crocco dimostra doti di generale, riesce ad unificare la miriade di piccole bande di briganti nel nome del legittimismo e pone il suo quartier generale nel bosco di Lagopesole. In questo momento, la banda assume un ordinamento militare, infatti si divide in reggimenti e centurie e
[Carmine Crocco] Donatelli assunse il titolo di generale, Vincenzo Mastronardi fu nominato colonnello, il sarto di Ripacandida Michele Larotonda divenne tenente colonnello, Giuseppe Nicola Summa (Ninco Nanco) ebbe i galloni di maggiore18.
Tuttavia, non dobbiamo immaginare un esercito ben organizzato, ma un’armata di disperati, mal equipaggiata e mal vestita, infatti:
i briganti […] dormono naturalmente all’ombra di fronzute querce, sdraiati a terra alla rinfusa; per guanciale hanno un sasso od una zolla, per coperta il cappotto od il mantello, i fucili sono appoggiati alle piante colle cartucciere appese ai calci. Sul fronte, ai lati, a tergo, tutto all’ingiro della posizione, vedette avanzate vegliano attente, mentre le spie segrete stanno presso le truppe. I capi riposano in luogo appartato sotto capanne costruite con fronde d’alberi con terra e paglia, sopra giacigli abbastanza soffici, accompagnati talvolta dalle loro amanti […]. I feriti, gli ammalati del giorno, sono ricoverati nell’interno del bosco con abbondante paglia e qualche rara coperta. Sono curati con affetto, la pratica supplisce la scienza e l’arte: le ferite sono lavate con acqua e aceto, i farmaci normalmente usati sono: patate, filacce, fascie, bianco d’uovo, olio di olivo sbattuto e foglie d’erba, chiamata stampa cavallo […]. Pel rancio la banda è ripartita in gruppi ognuno dei quali è presieduto dal caporanciere; sul pendio meno ripido della posizione in luogo possibilmente coperto, perché il fumo non ci tradisca, si accendono i fuochi; poco lontano i cucinieri sono intenti a scannare capretti, scuojare maiali, spennare polli e tacchini19.
Anche per quanto riguarda le uniformi e l’equipaggiamento, vigeva la più grande varietà, infatti c’erano alcuni vestiti «di panno nero, con lungo mantello di simile stoffa, e con in testa certi cappelli duri a larghe tese», altri che «priv[i] di vestiario, andavano in maniche di camicia» o altri ancora che «apparivano vestiti delle tuniche o dei cappotti dei soldati e carabinieri da loro uccisi». Mal vestiti, soprattutto se pensiamo ai rigori invernali degli Appennini, alcuni briganti erano equipaggiati di «eccellenti fucili a doppia canna o di carabine a percussione, [ma] ve ne erano però molti che portavano addosso dei pessimi fucili ad un canna di corta portata20». Ma Crocco non si formalizza e, sfoderando doti di grande oratore, per accreditarsi agli occhi delle popolazioni come novello Masaniello e per reclutare nuove leve, non esita ad
approfittare della crassa ignoranza dei nostri cafoni, per apparire ai loro occhi, non come malfattori comuni, ma come vittime di un’ingiustizia; farsi paladini di un’idea, di un principio e con esso e per esso aver aiutato materiale e morale di tutti coloro che, non contenti del loro stato, avevano nel cuore un’amarezza e nella mente l’idea della ribellione21.
L’ex pastore di Rionero non esita a promettere (e quale grande generale non l’ha fatto!), è pronto a tutto per ingrassare la sua armata di rivoltosi, infatti, come lui stesso ammette:
Promettevo a tutti mari e monti, onore e gloria a bizzeffe; ai contadini facevo balenare la certezza di guadagnare i feudi dei loro padroni, ai pastori la speranza d’impadronirsi degli armeti affidati alla loro custodia; ai signorotti decaduti il recupero delle avite ricchezze e la gloria degli smantellati castelli, a tutti molto oro e cariche onorifiche22.
Ecco i briganti, nascosti nel ventre dei boschi, eccolo qui questo mosaico di uomini perduti! Da Lagopesole, sfruttando le voci dell’imminente arrivo di un esercito appoggiato dall’Austria, Spagna e Francia, e acclamato « quale novello liberatore ed accolto con onori veramente trionfali », si mosse, il 7 aprile 1861, alla volta di Ripacandida. Al grido di «viva Francesco II» e avendo come emblema una bandiera bianca con nastri azzurri, Crocco mette a ferro e fuoco la cittadina, lasciando fare ai suoi briganti perché:
La folla selvaggia ch’io comandavo non aveva freno, né a me conveniva mitigarla. Quella mia condiscendenza alla distruzione, al saccheggio, era fonte per me di maggior forza avvenire, l’esempio del fatto bottino traeva dalla mia altri proseliti anelanti di guadagnar fortuna col sangue. Lasciai quindi ognuno libero di sé ordinando solo si rispettassero le famiglie dei nostri compagni d’armi23.
E dopo Ripacandida, i briganti entrarono trionfalmente in vari paesi, tra i più importanti Venosa e sicuramente Melfi di cui Crocco parla ampiamente nelle sue memorie, esagerando sulla buona accoglienza, come ricorda Basilide del Zio, autore di una contro biografia24. A Melfi, Crocco riordina il suo «esercito » ripartendolo in centurie (di cui due a cavallo sotto gli ordini di un maggiore) che erano agli ordini di un capitano e in reggimenti sotto il comando di colonnelli. Incalzato dalla Guardia nazionale e dalle truppe regolari, munite di artiglieria e cavalleria, che si muovevano da Bari, Potenza e Foggia, Crocco lascia frettolosamente Melfi per riparare nel territorio di Avellino. Era il 18 aprile 1861. Con la partenza di Crocco da Melfi, finisce anche la breve restaurazione, infatti, partiti i briganti, il 20 aprile si insediava nuovamente il rappresentante del Governo al quale il popolo andò incontro «confessando raumiliato di essere stato deluso e corrotto dai potentati del paese». I Piemontesi avevano vinto; Crocco ammette che «i moti reazionari […] non lasciarono tracce profonde nei paesi [e] la mano ferrea destinata a domare la reazione seppe vincere colla forza e colla clemenza». Sempre nell’attesa dell’esercito borbonico che dall’estero doveva ristabilire l’ormai decaduto Regno delle Due Sicilie, il Generale dei briganti, ai primi di Maggio, scioglie la sua banda e si ritira nei boschi di Lagopesole. Un ritiro che ha il gusto della sconfitta perché, come racconterà nelle sue memorie, «soffocati ovunque i moti reazionari, rientrati i vari paesi nella orbita della legge, crebbe ne’ vari centri, l’audacia dei liberali» e «molti di coloro che avevano gridato, “Viva Francesco II”, “Viva Crocco”, all’arrivo delle truppe gridarono “Viva Vittorio”, “Viva Cialdini”».
Quindi, «lasciato da un canto la politica ed i politicanti, [Crocco] ritorn[a] qual er[a] prima, brigante comune, costretto ad assalire i viandanti, a imporre taglie per dar da vivere a [sé] e alla [sua] banda».
Crocco nell’agosto 1861 sembra aver realmente messo da parte ogni velleità legittimista e si presenta al lettore « non più come capo riconosciuto dei moti reazionari, ma bensì come generale di formidabile banda brigantesca » e formidabile la banda lo era davvero perché contava 1200 uomini e 175 cavalli. Il Brigante riprende la sua attività e segna altri due trionfi: il saccheggio di Ruvo del Monte il 10 Agosto e soprattutto la vittoria di Toppacivita nella quale si scontra coi militari del presidio di Rionero. La conduzione di questa battaglia è occasione per Crocco di mettere in mostra le sue indubbie doti militari che univano la pratica della guerriglia alla perfetta conoscenza della composizione morfologica del territorio. Infatti, inseguito dal 62° battaglione fanteria dei bersaglieri, da tre battaglioni di guardie mobili, da due compagnie del 32° fanteria e da «molta guardia nazionale», si dirige verso l’Ofanto, fingendo di procedere per occupare Calitri, ma, in seguito, cambia inaspettatamente posizione accampandosi presso Toppacivita. Il luogo era favorevole ai briganti che si aspettavano una battaglia campale: c’era una massa boscosa resa sicura a destra dal torrente Vomina e una pianura sulla sinistra che rendeva agevole le manovre della veloce cavalleria. Crocco, in attesa delle truppe sabaude, ordina la costruzione di un forte come riparo per i tiratori e, sentendo avvicinarsi la battaglia, posiziona 800 uomini dietro il forte e 200 uomini nel vicino bosco, armati di fucile per proteggere la ritirata in caso di sconfitta. Lasciato il comando delle truppe al Capitano Bosco, Crocco si mette alla testa dei briganti a cavallo allo scopo di, tramite scaramucce, attirare la truppa nemica verso il luogo favorevole ai suoi. E così fu, la guardia mobile fu sorpresa dai colpi sparati dai briganti presenti nella palafitta e indietreggiò. Arrivò il momento del 62° fanteria piemontese che ingaggiò una battaglia all’interno del forte. Ma la vittoria era già decisa per la banda Crocco. Era il 14 Agosto 1861.
Il destino di Crocco riservava ancora un colpo di scena. Nell’ottobre 1861, infatti, avviene un incontro fondamentale: quello con José Borges25, carlista spagnolo, inviato dal generale Tommaso Clary del comitato legittimista di Marsiglia per restaurare l’autorità e l’ordine di Francesco II con l’aiuto, sperato, dei mille uomini della banda Crocco.
Borges incontra il capo brigante nel bosco di Lagopesole il 22 ottobre, ma tra i due non ci fu mai quella intesa e quella collaborazione auspicata. Infatti, Crocco, nei suoi diari, manifestando disillusione per la causa borbonica, riferisce:
Quell’uomo forestiero che veniva da noi per arruolare proseliti e reclamava in conseguenza l’ausilio della mia banda, destò sin dal primo momento nell’animo mio una forte antipatia poiché compresi subito che a petto suo dovevo spogliarmi del grado di generale comandante la mia banda, per indossare quello di sottoposto.
Egli, un povero illuso venuto dal suo lontano paese per assumere il comando di un’armata, aveva creduto trovar ovunque popoli insorti, e dopo un primo colossale fiasco dalla Calabria alla Basilicata, voleva convincer me ed i miei che non sarebbe stato difficile provocare una vera insurrezione, dato il numero della mia banda, l’ottimo elemento che la costituiva, le buone armi e gli eccellenti cavalli26.
Seppur diffidente, Crocco accorda l’aiuto a Borges, confidando forse nelle sue capacità militari che gli avrebbero permesso di prendere ancora più facilmente città e villaggi. E questo effettivamente avvenne nel novembre 1861, quando Crocco e la sua banda diedero libero sfogo alla loro sete di ricchezza col saccheggio di Trivigno, nella valle del Basento, seguito da quello di Calciano, Garaguso, Salandra, Craco, Aliano. Le efferatezze dei briganti scandalizzarono lo spagnolo, venuto per combattere una guerra legittimista e non per partecipare ad odiosi ladrocini, che nei suoi diari esclama, a proposito dei massacri perpetrati il 5 Novembre a Calciano: «si saccheggia tutto, tanto ai realisti quanto ai liberali in una maniera orribile: è stata anche assassinata una donna, e, a quanto mi dicono, tre o quattro contadini27».
A Crocco, quello che interessa è il potere, le ruberie, la ricchezza, infatti, ammette: «E già cominciavo a credermi padrone, e dicevo tra me e me che dopo tutto mi sarei accontentato di quel piccolo ducato, purché mi si lasciasse in pace, signore e padrone di riscuotere i frutti delle mie terre». Saccheggio dopo saccheggio, la campagna autunnale, fermata dalle prime nevi, volge al termine. In questo momento, a capo della banda c’è una sorta di triumvirato formato da Carmine Crocco, José Borges e da Augustin de Langlais, generale dei comitati borbonici. I rapporti tra i tre erano segnati dalla diffidenza e dalla gelosia, infatti netto è il giudizio di José Borges su de Langlais: «si spaccia come generale e agisce da imbecille28», ma anche quello di Crocco sul Borges: «ma quel Generale […] era veramente un uomo inetto29».
L’avventura legittimista, in queste condizioni, non poteva che essere votata allo scacco. Infatti, l’inverno 1861-1862 segna la fine di queste debole alleanza. Crocco si ritira per svernare nelle foreste del Melfese, Borges, invece, tenta di raggiungere lo Stato della Chiesa per informare i suoi superiori delle difficoltà dell’impresa. Ma qui, presso Tagliacozzo, viene sorpreso e fucilato. Con la morte di Borges, finisce definitivamente il cosiddetto periodo del brigantaggio politico che ridiventa criminalità comune.
Più che un esercito regolare, quale era stato promesso a Borges, l’armata Crocco era un corpo di spedizione «stagionale» , infatti, le « comitive » si scioglievano, attendendo la primavera per essere nuovamente ingrossate. Infatti:
[…] nell’inverno 1861-1862. Dopo aver sistemato tra i boschi di Monticchio e di Lagopesole le diverse bande in cui aveva diviso il suo esercito, Crocco si acquartierò con quasi 500 uomini nelle foreste intorno a Calitri, Carbonara, Aquilonia e Monteverde [e] ciascuna delle bande costruì «capanne, blinde, stalle baracche, cucine da mietitori30».
Fino alla primavera, non si registrarono operazioni di rilievo. Ormai tramontata la possibilità di una restaurazione del potere borbonico e allontanato Borges, Crocco rinuncia alla plateale presa di cittadine più o meno sguarnite di potere regio, e ritorna a compiere
aggressioni di viandanti, assalti di corrieri postali, occupazione di piccolissimi villaggi, di masserie isolate, deludendo con astuzia e con rapide fughe gli scontri colle truppe, salvo a provocarli quando l’enorme disparità delle forze ci faceva sicuri d’una facile vittoria31.
Nel 1862, gli scontri degni di nota avvengono in novembre con la battaglia del fiume Fortore, quando i briganti massacrarono i fanti del 36° reggimento e un drappello di guardie nazionali e, nel 1863, quando Crocco e i suoi annientarono un drappello di cavalleggeri di Saluzzo.
Così, tra rapine, saccheggi e sporadici scontri frontali, passarono due anni. Ma la reazione dello Stato italiano, feroce e rabbiosa, non tardò ad arrivare.
La data spartiacque viene ad essere il 15 Agosto 1863, giorno in cui fu promulgata la Legge Pica. Questa legge speciale, voluta per sradicare il brigantaggio, in sostanza introduceva il codice penale militare nelle regioni meridionali: i comandanti potevano giustiziare sul posto i capi briganti e i loro «manutengoli», ovvero fiancheggiatori, ed i colpevoli di reato di brigantaggio, nozione giuridica assai poco definita, erano passibili di fucilazione o di lavori forzati. Rapidamente si ottennero i risultati sperati, anche se il prezzo fu quello del sangue. In Basilicata, in meno di sei mesi, furono incarcerate circa 2 400 persone e 525 tra loro mandate al confino. Il colpo di grazia stava per arrivare. Infatti, la Legge Pica accordava a coloro che decidevano di collaborare, una sorta di «pentiti» ante litteram, uno sconto di pena. E proprio ad una prestigiosa collaborazione si deve la fine del «Grande brigantaggio»: il tradimento di Giuseppe Caruso, un tempo devoto capobanda ai servizi di Crocco.
Infatti, nel settembre 1863, Caruso abbandona Crocco e si mette a disposizione del generale piemontese Emilio Pallavicini di Priola, mandato in quelle contrade con l’obiettivo di restaurare l’ordine, puntando sull’ausilio della polizia militare e di una vasta rete di spionaggio. Caruso iniziò la sua attiva collaborazione nella primavera 1864, indicando nascondigli e fiancheggiatori dei briganti. Fu l’inizio della fine: uno dopo l’altro caddero, arrestati o uccisi, i più importanti capo briganti tra i quali Ninco Nanco, ucciso il 13 marzo 1864. Crocco, sempre più braccato, decise di lasciare i boschi lucani, con un manipolo di fedelissimi, e si diresse verso lo Stato pontificio, in cerca di protezione politica e pace per finalmente godere dei frutti dei suoi atti criminosi. Nei territori del Papa ci giunse davvero a fine agosto del 1864, ma qui, altro che tranquillità, fu arrestato e lì trattenuto fino alla primavera del 1867; successivamente inviato a Marsiglia, fu arrestato dalle autorità francesi e rimandato nello Stato pontificio dove fu trattenuto nella fortezza di Paliano, nei pressi di Frosinone. Il pastore di Rionero non ebbe pace, il suo destino lo portò, imprigionato, nelle terre di Avellino e finalmente nel 1872 a Potenza dove si celebrò il processo a suo carico.
I capi di imputazione erano particolarmente gravi, infatti fu accusato di aver commesso «75 omicidi, dei quali 62 consumati e 13 mancati32», e di aver provocato danni per un milione e duecentomila lire.
La sentenza venne emanata l’11 settembre 1872: condanna a morte.
Ma ecco l’ultimo colpo di scena: nel 1874, Vittorio Emanuele II, con atto di clemenza, tramutò la pena capitale in lavori forzati a vita nei bagni penali di Santo Stefano e di Portoferraio.
E qui, colui che da brigante si era fatto generale, dopo aver fatto prova di condotta esemplare e di ravvedimento, morì il 18 giugno 1905. Forse passò a miglior vita con animo sereno, perché, confessa Crocco, «un sincero pentimento e 40 anni di ergastolo, possono redimere l’uomo di fronte al giudizio del suo simile e il peccatore dinanzi al giudizio di Dio33».
Così si conclude la storia di Carmine Donatelli Crocco: pastore, soldato borbonico, garibaldino, legittimista, tagliagole, per scelta e per triste destino; infatti, ormai in catene, come lui stesso ricorda:
agii sotto l’impulso d’una forza maggiore, e che se gli uomini non mi avessero bersagliato sarei non dico un personaggio, ma un onesto pastore o contadino, un po’ vivo e pronto di mano, magari un po’ prepotente ma onesto34.
Notes
1 Tristemente nota è la vicenda del massacro degli abitanti di Pontelafoldo e Casalduni, il 14 Agosto 1861. Cialdini richiese espressamente al suo colonnello Negri che di questi due comuni non dovesse rimanere «pietra su pietr »; infatti le due cittadine furono rase al suolo lasciando circa 3000 persone senza dimora.
2 Valentino Romano (a cura di), Il brigante che si fece generale, Lecce, Capone Editore, 2011, p. VII.
3 Tommaso Pedio, Brigantaggio meridionale. 1806-1863, Lecce, Capone editore, 1987, in Valentino Romano, op. cit., p. VII-VIII.
4 In Tommaso Pedio (a cura di), Inchiesta Massari sul brigantaggio, Manduria, Lacaita, 1983, p. 208.
5 Eric Hobsbawm, I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, traduzione di Eladia Rossetto, Torino, Einaudi, 1971, p. 11.
6 Ibidem.
7 Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 342, in Francesco Pappalardo, Il Brigantaggio Postunitario, il Mezzogiorno fra resistenza e reazione, Crotone, D’Ettoris Editori, 2014, p. 24.
8 Per approfondire il ruolo delle brigantesse si rinvia a Valentino Romano, Brigantesse, donne guerrigliere contro la conquista del Sud, Napoli, Controcorrente, 2007.
9 Definizione coniata dal professor Salvatore Ottolenghi, assistente di Cesare Lombroso e direttore dellaboratorio di medicina legale dell’Università di Siena che ebbe modo di intervistare Crocco nel bagno penale di Portoferraio.
10 Mario Proto (a cura di), Carmine Crocco, Come divenni brigante, www.brigantaggio.net/brigantaggio/Briganti/Crocco.pdf (ultima consultazione: 01/05/2016).
11 Gli ultimi briganti della Basilicata. Carmine Donatelli Crocco e Giuseppe Caruso, Note autobiografiche edite ed illustrate dal Capitano Eugenio Massa, Melfi, Tipografia G. Grieco, 1903, in Ettore Cinnella, Carmine Crocco, un brigante nella grande storia, Pisa-Cagliari, Della porta Editori, 2010, p. 13.
12 Ettore Cinnella, Carmine Crocco, un brigante nella grande storia, Pisa-Cagliari, Della porta Editori, 2010, p. 13.
13 A. Ravasi, Brigantaggio meridionale (1861) e «scritture» di protagonisti, in Aevum, Facoltà di lettere dell’Università cattolica del Sacro cuore, Milano, settembre-dicembre 1976, p. 660 in Ettore Cinnella, op. cit., p. 25.
14 Ettore Cinnella, op. cit., p. 44.
15 Cf. «La rivoluzione lucana del 1860» in Ettore Cinnella, op. cit., p. 57-74.
16 Valentino Romano (a cura di), op. cit., p. 18.
17 Pietro Quandel, Giornale della difesa di Gaeta da novembre 1860 a febbraio 1861 per Pietro Quandel, Roma, Pei tipi di Angelo Placidi, 1863, p. 108.
18 Ettore Cinnella, op. cit., p. 96.
19 Mario Proto (a cura di), op. cit., p. 70.
20 A. De Witt, Storia politico-miitare del brigantaggio nelle provincie meridionali d’Italia, Firenze, Coppini, 1884, p. 292-293 in Ettore Cinnella, op. cit., p. 147.
21 Valentino Romano (a cura di), op. cit., p. 19.
22 Ibidem, p. 20.
23 Ibidem, p. 21.
24 Basilide Del Zio, Il brigante Crocco e la sua autobiografia: memorie e documenti, Melfi, tip. G. Grieco, 1903.
25 José Borges, Diario di guerra, Introduzione, traduzione e note di Valentino Romano, Bari, Adda Editore, 2003.
26 Mario Proto (a cura di), op. cit., p. 73.
27 José Borges, op. cit., p. 220.
28 José Borges, op. cit., p. 198.
29 Processo a Crocco. Interrogatorio dell’accusato in Valentino Romano, op. cit., p. 99.
30 Ettore Cinnella, op. cit., p. 145.
31 Mario Proto (a cura di), op. cit., p. 89.
32 Valentino Romano, op. cit., p. 66.
33 Valentino Romano (a cura di), op. cit., p. 67.
34 Ibidem.Haut de page
Pour citer cet article
Référence papier
Marco Caccavo, « Carmine Crocco e il brigantaggio meridionale », Italies, 20 | 2016, 157-171.
Référence électronique
Marco Caccavo, « Carmine Crocco e il brigantaggio meridionale », Italies [En ligne], 20 | 2016, mis en ligne le 19 janvier 2017, consulté le 19 août 2020. URL : http://journals.openedition.org/italies/5633; DOI: https://doi.org/10.4000/italies.5633Haut de page
Auteur
Marco Caccavo
École Internationale PACA, Manosque
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