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Carmine Donatelli, detto Crocco, il “generale dei cafoni”

Posted by on Set 24, 2022

Carmine Donatelli, detto Crocco, il “generale dei cafoni”

La storiografia risorgimentale italiana, menzionando la questione del brigantaggio post-unitario, spesso si sofferma sulla figura del brigante-ribelle Carmine Donatelli di Rionero, soprannominato Crocco, per la sua singolare biografia entrata nella leggenda popolare.

Circa la vita di costui, numerosi sono gli autori che hanno scritto pagine indelebili sull’avventurosa esistenza del brigante lucano. In particolare “l’autobiografia di Crocco”, curata dal capitano Eugenio Massa ed edita nel 1903, riporta particolari e curiosità direttamente narrati dal Donatelli. Nacque il 5 giugno 1830 in una capanna di foglie e fango (“due casupole annerite dal tempo e più ancora dal fumo…Là dormono mia madre e mio padre; nell’altro lettuccio vicino dormiamo noi fratellini tutti in fascio…là dorme la sorella piccina, e nella culla, sospesa sul letto e fabbricata con pochi vimini e molta paglia, dorme l’ultimo nato”)nella periferia del paese di Rionero in Vulture da una famiglia di contadini, che coltivavano un piccolo podere con pecore e galline. Carmine subì a sei anni il dramma di vedere la madre incinta maltrattata da un signorotto locale, adirato per la morte del proprio cane per mano del di lui fratello Donato, a tal punto da perdere poi la ragione ed essere rinchiusa in manicomio. Inoltre, anche suo padre Francesco, agricoltore presso la famiglia latifondista dei Fortunato, fu arrestato con la falsa accusa di tentato omicidio nei confronti dello stesso maltrattatore e tenuto in carcere per circa 31 mesi. Il giovane Crocco, in questo periodo adolescenziale, fu costretto a spostarsi in Puglia per 5 anni lavorando come pastore e tornò a Rionero solo all’età di 15 anni per occuparsi ,come salariato agricolo, presso la masseria di un certo Lovaglio. Fortemente religioso e superstizioso, all’età della sua prima chiamata nell’esercito borbonico, prese i gradi di caporale nel primo reggimento d’artiglieria(1850). L’anno seguente, però, fu costretto a disertare per l’uccisione di un gendarme, don Peppino, reo di aver importunato l’amata sorella Rosina. Dal 1852 si diede alla macchia, insieme a Vincenzo Mastronardi e Ninco Nanco, nei boschi di Monticchio. M.Monnier (“Notizie storiche documentate sul brigantaggio nelle province napoletane,1862”) lo ricordò in tale periodo nei panni del classico bandito, già ricercato nel suo circondario perché “colpevole di 30 delitti”. Catturato il 13 ottobre 1855 e condannato a 19 anni di detenzione nel bagno di Brindisi, Crocco riuscì ad evadere nel dicembre 1859, rifugiandosi ancora nel bosco di Monticchio. A tale periodo di puro banditismo si fa risalire anche la sua adesione alla rivoluzione liberal-garibaldina(moti liberali di Rionero del 17 agosto 1860), da cui però non ottenne l’auspicata amnistia e si allontanò come tanti suoi conterranei per le deludenti e disattese promesse di offerta di terre. Nuovamente arrestato per ordine del vicegovernatore italiano Lordi a Cerignola, Carmine Donatelli riuscì ad evadere nella notte tra il 3 e 4 febbraio 1861 grazie all’aiuto del comitato legittimista di Rionero. L’inganno dell’Italia Unita portò, così, il trentunenne Crocco a combattere per la bandiera gigliata, con il compito di reclutare soldati e sudditi rimasti fedeli al Borbone. Tornò a nascondersi tra i boschi della Basilicata nelle vesti del “comandante francescano”(perché agli ordini del re Francesco II di Borbone) di una banda di quasi 2000 uomini. L’organizzazione dei suoi soldati fu tipicamente militare, così come le incursioni della banda contro l’esercito e le istituzioni del regno d’Italia, seguirono un modello tattico di guerriglia “mordi e fuggi”. Il comandante Crocco, tra l’altro, ordinò strategicamente la distruzione di ponti per interrompere le vie di transito agli aiuti e vettovagliamenti dell’esercito italiano, nonché fece tagliare i fili telegrafici per sospendere ogni sorta di comunicazione. Il Donatelli, comunque, fu sempre descritto dagli storici personaggio forte e crudele (seppur confessò in sua difesa di essersi macchiato di soli due delitti, giustificandosi che “la vita del brigante è brutta?E’ una vita indipendente…Il brigante è come la serpe, se non la stuzzichi non morde”), capace di infondere coraggio, disciplina ed obbedienza nei suoi uomini malavitosi, tra i quali lo stesso “generale”(come si faceva chiamare) scelse fidati sottocapi per le loro capacità ed astuzia. Questa sua autorevolezza verso tanti combattenti lo rese personaggio importante, tale da essere trattato al pari di un militare legittimista. Difatti, lo stesso corrispose direttamente con le diverse autorità locali e comandanti dei vari reparti sabaudi sia per eventuali patteggiamenti di tregua, nonché per scambi di prigionieri e condizioni di resa. La sua banda, dislocata logisticamente in differenti aree per motivi di sicurezza, rimase nascosta prevalentemente nei boschi dell’Ofanto tra l’Irpinia e la Basilicata, da dove di notte era solita muoversi per saccheggi ed imboscate. Le imprese più rinomate di questo gruppo di briganti furono la presa di Ripacandida (8 aprile 1861), ove sconfisse la locale guarnigione della Guardia Nazionale Italiana, Venosa (10 aprile 1861),ove fu istituita una giunta provvisoria filo-borbonica, Lavello e Melfi. La presa di quest’ultima cittadella (15 aprile 1861) fu facilitata da una spontanea rivolta antisabauda della popolazione, che affranta e sopraffatta dalla miseria accolse trionfalmente la banda come liberatori di un governo opprimente (“autorità, famiglie notabili, il capitolo religioso andarono incontro alle porte del paese per rendere onori,reverenze in un’aria di festa con balconi infioriti e scoppio di mortaretti”). Le sporadiche e mal programmate azioni di guerriglia banditesca dei partigiani di Crocco (agosto 1861 ad Avigliano e Calitri contro reparti di bersaglieri, cui seguì nell’ottobre l’assalto a Ruvo di Monte) si trasformarono poi in episodi d’insorgenza politica per la causa duosiciliana, allorquando si affiancò al comandante Donatelli il generale catalano José Borjes (22 ottobre 1861), inviato in Calabria-Lucania con pieni poteri autorizzati da re Francesco II. Inizialmente Crocco si adeguò ai piani militari del Borjes riportando significative vittorie (Trevigno, Castelmezzano, Caliciana, Garaussa, Calandra, Alliano etc), grazie anche a preparativi bellici più studiati ed organizzati, seppur contravvenendo alle disposizioni dello spagnolo di non eccedere nelle violenze (“guai a farsi agnello-ripeteva Crocco- perché a farti pecora ti aggredisce il lupo). Il perpetrare di azioni criminose sulla comunità(rapine delle casse comunali, ai privati,uccisione dei liberali, sequestri di persone,violenze) provocò una forte reazione dell’esercito piemontese, che con le ordinanze del Cialdini andò rafforzandosi in loco con ulteriori reparti militari e con feroci ed indistinte repressioni su interi paesi, collaborazionisti con la reazione. A seguito delle fallite imprese di occupazione del paese di Pietragalla (16-17 novembre 1861), ove era arroccata la Guardia Nazionale guidata dal generale De Bonis, nonché della città di Potenza i due generali, lucano e catalano, si separarono (Borjes cadde fucilato a Tagliacozzo nel dicembre 1861) e Crocco trovò rifugio verso l’Ofanto. Quest’ultimo tornò all’attacco, al grido di “Viva’o Re”, con ultime piccole scorribande nella primavera del 1862, ma, visti i sopraggiunti rinforzi della Guardia Nazionale su tutto il territorio, Crocco decise di fuggire con un piccolo gruppo di fedelissimi nello stato Pontificio, cercando protezione politica (25 luglio 1862).Venne invece catturato dai papalini a Veroli e incarcerato a Roma perché ritenuto complice della morte del generale Borjes. Successivamente,con la presa di Roma ad opera dei piemontesi, Crocco, trovato nel carcere di Paliano(20 settembre 1870), passò alla giustizia italiana presso la corte d’Assise di Potenza,il cui procuratore generale Borelli accolse la sentenza di morte del “brigante” di Rionero l’11 settembre 1872 con l’imputazione di 67 omicidi(rigettati dalla sua difesa, memore invece della stima goduta presso i suoi concittadini: “pel bene che ho fatto..quando passavo io tutti mi venivano appresso sicuri, io andavo avanti e dicevo:se volete essere sicuri venite dietro di me”) . Nel 1874, però, detta condanna fu commutata nei lavori forzati a vita nel bagno penale di Santo Stefano, ove riferì “mi trovo schiavo sotto il peso della catena oppresso dalla miseria, deleritto dagli obbrobri, vecchio ed infermo, non istruito, e pure se potessi parlare, a mio bellaggio,resterei ai posteri un’istoria, che gioverebbe ai figli della miseria”. Si spense nella prigione di Portoferraio a 75 anni, il 18 giugno 1905, in un’epoca di grande rivoluzione anarco-socialista contro la miseria dilagante, per il riscatto economico-sociale delle masse contadine ed operaie, di cui il brigantaggio meridionale si fece precursore a metà ottocento ma ormai appannaggio di un mondo tramontato nell’oscurità di talune celle carcerarie e nei ricordi dei tanti emigranti, fuggiti dal Sud.    

di Ettore d’Alessandro di Pescolanciano

fonte

http://www.adsic.it/2008/08/07/carmine-donatelli-detto-crocco-il-%e2%80%9cgenerale-dei-cafoni%e2%80%9d/#more-1897

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