Alta Terra di Lavoro

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“CARNEFICI”

Posted by on Giu 12, 2016

“CARNEFICI”

opinione di Antonio Pulcrano presa dal sito della Rete delle Due Sicilie

Sì, ho letto “Carnefici”, di Pino Aprile. Un libro che a volte ti prende per commozione, più spesso per rabbia, così tanto che hai bisogno di parlarne, discuterne con qualcuno, il primo che capita, per sbollire l’ansia, il disorientamento o l’incredulità, per stemperare quel nodo alla gola, che ti prende, ti attanaglia, ti perseguita, perché capisci e dai un senso a tante cose. “Carnefici”, non è un libro che ti metti là, in un cantuccio, e lo scorri, lo leggi come un qualsiasi altro saggio o romanzo che sia. Ti coinvolge, ti costringe a dipanarlo e confrontarlo con ciò che già sai, a rileggerlo, non credendo spesso ai tuoi stessi occhi, alla tua mente, a ciò che realizzi leggendo, nonostante decine di altri volumi simili letti in precedenza.

“L’Italia,… se ha una possibilità, è quella di rinascere nella condivisione dei crimini da cui ebbe origine e i cui autori sono morti”. Sì, “quando una cosa nessuno te la vuole dire, allora la terra si crepa. Si apre. E parla!”. Ora la terra ha parlato: crimini che hanno avuto le dimensioni di un genocidio.

Pino Aprile, con questo libro, esorcizza lo spettro che alberga in noi, in noi meridionali, quella sensazione di lacerazione del nulla primordiale, quel grido che da dentro ci chiede di spiegare da dove viene. La minuziosità maniacale dei dati riportati, dimostra la profondità delle ricerche effettuate (in proprio, oppure, perché no?, citate e riprese da altri Autori, come De Crescenzo, Molfese, Di Fiore, Davis, Pisco, Cangemi ed altri) e zittisce ogni polemica, anche nostrana, azzerando quindi ogni confronto con storici negazionisti. Come, ad esempio, il capitolo, drammatico, dedicato per buona parte alle condizioni di vita e di prigionia nel carcere di Montefusco, in Irpinia. Questo tristissimo luogo divenne lo “Spielberg italiano” dopo la “liberazione piemontese”, per le condizioni disumane in cui erano tenuti centinaia e centinaia di reclusi, ove si moriva, a grappoli, per “tifo carcerario”, per denutrizione e per asfittici miasma fognari. Prigionieri spesso senza alcun reato, se non quello di essersi opposti alla conquista armata dei “fratelli d’Italia”. Solo di recente, a Montefusco, dopo proteste e segnalazioni, è stata istallata una bacheca-leggìo con la cronistoria riassuntiva di ciò che fu il Regno di Napoli. In alcuni luoghi del Sud, oggi, è anacronistica e offensiva, oltre che antistorica, la saccente rappresentazione, anche toponomastica, di personaggi del cosiddetto risorgimento, che nulla hanno a che fare con la verità di quanto accaduto. E qui ti accorgi di come un popolo che aveva forse più di altri diritto alla modernità, è, ancor ora, turlupinato e ingannato dal proprio stesso Stato. La denuncia della condizione attuale in cui versa il Meridione, figlia e conseguenza diretta di una conquista non condivisa né voluta e mai metabolizzata, è il filo conduttore di molte pagine del volume di Aprile. Deportazioni di massa, degne dei peggiori negrieri, con le quali si separavano i figli dalle madri e le mogli dai mariti, coatti, le figlie dalle famiglie, per la prostituzione, si distruggevano case e poderi, per un nonnulla, per un sospetto, una delazione e dire che il termine “nazismo”, si è coniato ancora dopo. L’infame legge Pica veniva applicata con furore, tralasciando ogni diritto o dignità umana. “Stupri, saccheggi, torture, arresti”, qualcuno allora ebbe il coraggio di denunciare, racconta Aprile, ma senza successo: l’opera di annichilimento della verità era già iniziata. “I meridionali temevano meno la morte dell’idea di dover abbandonare la propria terra”: deportati in massa, emigrati a milioni. Povero Sud, povera nostra gente, poveri noi che, ancor oggi, vediamo partire i nostri figli. Mai eravamo emigrati, perché, se anche poco, si aveva il minimo a casa propria. Quando Vittorio Emanuele II (il re dal divano facile con belle fanciulle), fu nominato “Padre della Patria”, a Napoli, nel giorno della proclamazione del Regno d’Italia, nel silenzio e nel gelo più assoluto, apparve una scritta, che la racconta tutta: “Si Vittorio è ‘o pate, ‘a mamma ha da esse ‘na zoccola!”. Corsi e ricorsi, con altre “zoccole” di calcistica e shakespeariana allusione.

Naturalmente, ogni sistema economico fu distrutto. Trasferito al Nord il trasportabile, depredati e razziati i tesori delle banche, ogni cosa, opificio o fabbrica, che servisse a produrre, fu rasa al suolo, “in modo che non debba mai più risorgere” e mai profezia fu più nefanda e veritiera. Eppure c’è chi, negli anni duemila, dall’alto di molli certezze e dall’abisso della propria ignoranza, si arroga giudizi, perfino sulla presunta diversa “mentalità” del meridionale. Certo, ebbene sì, se diversità dev’esserci, non è detto che la mentalità migliore sia la loro: la nostra è pura, semplice, solare mediterraneità. E’ strana questa cosa; gli epiteti e le ingiurie inventati dai settentrionali (non tutti, naturalmente, ma pur sempre la maggioranza) nei confronti della gente del Sud, potrebbero riempire una intera enciclopedia, eppure, nonostante tutto, non c’è rancore verso la gente del Nord. Nelle nostre contrade, non si è mai letto un cartello con su scritto: “Alzati, o Po!”, o qualcosa di simile. Uno psicologo dei comportamenti di massa potrebbe dirci che, forse, l’antimeridionalismo è dettato, in fondo, da un preciso inconscio senso di colpa, ormai antico, che serve (…l’astio) a stemperare i termini del genocidio perpetrato, riducendo a poca cosa l’obiettivo di tanto male, per ridurne la portata. Mah! C’hanno dispregiativamente gridato “terremotati”, quando avevamo ancora cadaveri caldi sotto le macerie, come se le catastrofi non avvenissero ovunque, e ovunque avvengono. Questo libro è il racconto della via crucis di un popolo.

I tagliatori di teste sono divenuti “Padri della “Patria”, – dice Aprile – e oggi hanno piazze intestate e monumenti. “L’Italia non è nata meglio o peggio di altri Paesi; quello che manca, è dire quanto è costata, e a chi; il che impedisce che l’Italia sia anche sentita tale e propria, e tutta, dagli italiani”. Oltre dieci anni di guerra civile, centinaia di migliaia di morti, moltitudini di deportati, eserciti contrapposti (invasore e lealista), l’azzeramento di ogni economia e lo sfaldamento di migliaia di famiglie, tutto questo finito nell’oblìo voluto della storia. Altro che una banda di un migliaio di straccioni con le camicie rosse dei macellai del Sud America: fu genocidio. E poi, la strage di Fenestrelle, ancor oggi, spudoratamente, ridimensionata a poca cosa da storici che definire negazionisti è poco, scandalo che dura, ancora ora, perché in quel luogo che dovrebbe essere sacro si svolgono cene di San Valentino e spettacoli di spogliarellisti. Che tristezza! E’ la menzogna di sempre che si tramanda e si perpetua, che non si redime, non si monda, non riesce a fare i conti coi propri scheletri, perché si vuole tragico il presente, con un Sud abbandonato, senza investimenti e senza lavoro, colpa e responsabilità di una economia, di una politica, di uno Stato, che si ostinano a volerci carne da macello: il genocidio continua. I “ceppi di tortura”, poi, inventati da un ex garibaldino e inaugurati dal sanguinario maggiore Frigerio, furono tale strumento di martirio, atrocità e supplizio che si rimanda direttamente il lettore alla pagina 311 di “Carnefici”, per (ahimé) la descrizione dettagliata (quel nodo alla gola detto all’inizio, sta prendendo il sopravvento). E, poi, non so perché, ma ogni volta che penso di scrivere la parola “carnefici”, come una sorta di lapsus mentale, mi viene per opzione il termine “crocifissi”: associazioni da Golgota, senza alcuna dissacrazione. “Chi aveva il diritto di farci questo?”, afferma Gennaro De Crescenzo nei suoi libri e al termine di ogni conferenza, frase fatta propria anche da Pino Aprile. L’Autore racconta, poi, in pagine accorate, la lunga rivolta della Sicilia, soffocata nel sangue: vicende durate anni, rimosse, e mai così esaurientemente esposte ed analizzate. Infinite menzogne, infinite smentite. La favola del Sud analfabeta e senza scuole, è confutata definitivamente dalle analisi di Aprile che dimostra come, da un censimento taroccato alla conta effettiva degli iscritti alle Università, la scuola e la cultura fossero in primo piano qui da noi, per crollare inesorabilmente dopo l’”Unità”.

Ebbene, come nelle migliori famiglie, dopo questo coacervo di emozioni, bisogna necessariamente chiudere con una nota di speranza; e vogliamo vedercela, questa speranza: “Un paese equo o un paese nostro”, e qui sta il nocciolo di tutta la questione, questione meridionale, appunto. “No, non è l’equità la rivendicazione. Quella ci è dovuta. Punto.” – scrive Aprile, – quel che ci manca è il riconoscimento della nostra identità, della nostra dignità di vinti, perché sopraffatti. E non si raggiunge nulla finché a Torino rimane aperto un museo Lombroso.

Antonio Pulcrano

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