Posted by altaterradilavoro on Giu 1, 2024
Il libro tradotto e pubblicato da Rotondi è solo una parte delle Mémoires du general Bon Thiébault pubblicate a Parigi, nel 1893, da Fernard Calmettes sotto gli auspici della figlia dell’autore, M.lle Claire Thiébault. In effetti, il libro in italiano risulta molto più agile della pubblicazione francese, essendo stati tradotti di quella solo i capitoli IX-XIII, che riguardano l’invasione francese del Regno di Napoli, nel 1798, quando viene costituita l’effimera Repubblica Giacobina del Napoletano.
Come ogni libro tradotto e pubblicato, dopo molto tempo dalla stesura dell’autore e dalla prima edizione, il volume, oltre a narrare vicende relative al 1798, suggerisce tante cose sull’autore, sul periodo in cui viene pubblicato (1893) e sul periodo in cui viene tradotto e ripubblicato (2024).
Quello che l’autore sa e narra con sincerità.
Il generale francese Bon Thiébault racconta quanto succede nella conquista di Napoli dove un buon terzo dei lazzaroni di Napoli “è perito durante il nostro attacco” e dove “i granatieri francesi, rafforzati dai loro battaglioni, massacrarono al suono della carica tutto ciò che era di fronte a loro”. “La rabbia e il bisogno di vendetta esaltava le forze dei nostri coraggiosi, non un napoletano restò vivo sul terreno che abbiamo percorso. Mai, se non può essere a Isola, nella seconda parte della campagna, ho visto tanti morti contemporaneamente e non avrei mai immaginato che, in così poco tempo, potesse essere sterminata così tanta gente; non oso valutare il numero; migliaia di soldati napoletani e lazzaroni coprivano il suolo al punto da eccitare la pietà di colui che, per dovere, non aveva risparmiato niente per la loro distruzione”. Viene detto ai soldati di accendere il fuoco sotto le case: “tutto ciò che volle uscire dalle case fu ucciso, tutto ciò che vi restò fu bruciato. Così ordina la necessità, questa spietata divinità che gli antichi dicevano essere di ferro e che là fu di fuoco e di sangue”.
È una descrizione, nuda e cruda, di gravi delitti contro l’umanità, quelli che si presentano, purtroppo inevitabili, in tutte le guerre. L’autore ammette anche altri misfatti contro i civili operati dai Francesi a Sansevero, ad Andria, etc. Come sintetizzerà un viaggiatore scozzese, Norman Douglas, che si farà raccontare queste storie in un suo viaggio nel Napolitano, successivo agli eventi: “bisogna dire anche che i Francesi erano notevolmente sanguinari nelle loro rappresaglie”.
L’autore distingue tra i Lazzari della città di Napoli che si battono contro i Francesi e i Giacobini e hanno tante vittime, sia nel corso degli scontri campali tra eserciti, sia successivamente negli scontri con i cosiddetti briganti che resistono nelle province. “Le atrocità della repressione [francese] accrescevano quelle del brigantaggio senza peraltro debellarlo”.
Dopo avere ammesso i massacri di parte francese nella guerra tra eserciti, il generale Bon Thiébault, in una citatissima pagina delle Memoires, ammette l’inettitudine dei generali napoletani e riconosce il valore delle truppe quando si auto-organizzano, con pochi o nessun ufficiale, per la guerriglia sia urbana, sia campale. “Non appena questi [i Napoletani] formavano dei plotoni regolari, essi diventavano niente; armati come banditi, in truppe di fanatici, essi erano terribili, ed è, per così dire, quando non c’erano più armate napoletane che la guerra di Napoli diveniva spaventosa. Anche se questi Napoletani del 1798, selvaggi e superstiziosi, erano stati battuti dappertutto, anche se, senza contare le perdite che subirono durante i combattimenti, più di sessantamila di loro erano stati passati per fil di spada sulle macerie delle loro città o sulle ceneri delle loro capanne, noi non li abbiamo lasciati sconfitti su nessun punto”.
L’autore non dice niente sui Sanfedisti che non arrivano a contatto con le truppe francesi e si sollevano solo contro i compatrioti giacobini. A proposito di questi ultimi parleranno molti viaggiatori. Questi mettono in rilievo che, in alcune città, si sono verificate, a distanza di poco l’una dall’altra, una prima sollevazione giacobina e una seconda sollevazione, di segno contrario, antigiacobina e sanfedista.
Qui mi limito a presentare, unica per tutte che si somigliano molto, la descrizione della doppia sollevazione di Nicastro fornita dal viaggiatore francese François Lenormant: “Nel 1799 la nobiltà di questa città (Nicastro), come quasi tutta la nobiltà calabrese e lucana colta e illuminata, si mostrava assai bendisposta verso il liberalismo e le nuove idee. La plebe, al contrario, tenuta in uno stato di completa ignoranza, nemmeno concepiva cosa diversa dal regime esistente, e se aveva sentito parlare della Rivoluzione francese, era stato soltanto dall’autorità ecclesiastica che esercitava su di essa un’influenza onnipotente”. Il dato di fatto è che nobili e borghesi di Nicastro accolgono con entusiasmo l’arrivo a Napoli dei Francesi e aderiscono subito alla Repubblica partenopea. Poi, tutto cambia quando giunge “notizia dello sbarco del cardinale Ruffo a Bagnara e della reggenza reale che egli aveva appena restaurato a Mileto, subito il popolo insorse, rovesciò il vessillo della repubblica e l’albero della libertà … Parecchi gentiluomini che si erano distinti come repubblicani furono massacrati per le strade o nelle case”.
Questo comportamento dei Nicastresi è rappresentativo di quanto verificatesi in molte altre città della Calabria e del Regno. A differenza della rivolta urbana dei Lazzari a Napoli, la rivolta nelle Calabrie non assume i connotati della rivolta legittimista o della resistenza patriottica contro l’invasore francese. Per il semplice fatto che i Francesi, nel 1798, non sono mai scesi fino in Calabria. “La Calabria ignorava l’occupazione straniera. Gli uomini di Championnet non erano andati oltre Salerno”.
Quello che della guerra l’autore non sa perché è già andata via l’armata francese.
Forse per questo, la rivolta calabrese ha assunto subito le connotazioni della lotta di classe, mentre quella dei Lazzari e dei briganti a Nord delle Calabrie, mantiene perlopiù la connotazione di lotta per l’indipendenza dai Francesi. La conseguenza è che i primi, le truppe calabresi di Ruffo, si mobilitano sull’obiettivo della rifondazione del Regno, ovviamente nel nome dei Borbone, mentre quelle dei Lazzari e dei briganti dalla Basilicata in su sull’obiettivo di ripristinare il preesistente, tra cui anche la tradizionale autorità dei Borbone, e su quello della vendetta.
Questa diversa connotazione porta a due diverse strategie: la resistenza statica nelle varie città che si difendono fino ai limiti del possibile all’arrivo dei Francesi per i Lazzari e i Briganti e la resistenza dinamica dei Calabresi che si impongono subito di risalire lungo la penisola e, quindi, di realizzare una rivoluzione. La Calabria non si mobilita nella lotta contro la Repubblica Giacobina perché occupata (Palmi, Bagnara, Scilla e Reggio Calabria restano sotto il controllo dei Borboni perché la sollevazione Giacobina viene prevenuta dalla scoperta dei congiurati, dal loro arresto e dalla loro deportazione, in numero di 74, a Messina), ma perché ha voglia di fare ascoltare al re, dopo 16 anni dal Grande Flagello che ne ha distrutto l’economia tradizionale, le proprie richieste di modificare la situazione sociale ed economica compromessa dalla ricostruzione post terremoto.
La Calabria ha tanta voglia di portare i propri problemi alla capitale e ripristinare la sovranità del re che, anche prima della comparsa di Ruffo, numerosi sono i preti che si propongono come leader e predicano ai parrocchiani di voler andare a riportare l’ordine e la religione a Napoli. Essi sentono questa come l’occasione per fare i conti con i nuovi proprietari terrieri che hanno comprato le terre della Chiesa (per costituire la Cassa Sacra) e hanno privato i poveri dei diritti agli usi civici (spigolare, raccogliere legna, frutti spontanei del bosco, etc.), diritti e usi che la Chiesa considerava sacri.
È soprattutto la zona terremotata nel 1783 (da Reggio Calabria a Catanzaro) che assume l’iniziativa della resistenza dinamica: essi combattono con la volontà di arrivare a Napoli perché i nuovi proprietari delle terre della Chiesa hanno, per convenienza, aderito alla Repubblica e sono fuggiti a Napoli alle prime avvisaglie di rivolte contro di loro. Al di fuori della Calabria, i leader di molti di quelli che si ribellano ai Francesi lo fanno solo per difendersi e si trincerano nelle loro fortezze. Gli Abruzzi formano un piccolo esercito di 6.000 insorgenti che si difendono nella piccola provincia dell’Aquila (p. 173). La Puglia usa le due residue armate napoletane, posizionate alle Forche Caudine, per difendersi e non per dirigersi verso la capitale (p. 173). A Traetto, un vescovo si mette a capo della rivolta e pretende di trattare da pari a pari con Championnet, finché la città non viene assaltata e il vescovo passato per le armi insieme ai suoi combattenti (p. 174).
A tutta questa mobilitazione spontanea mette ordine il Cardinale Fabrizio Ruffo con una guerra di movimento che spinge tutti questi rivoltosi a imitare il suo esempio e rivolgersi verso la capitale. Ruffo riceve dalle popolazioni in procinto di ribellarsi o in aperta rivolta tutto il credito di cui necessita. Quello stesso credito che, inizialmente, non aveva ricevuto dai sovrani a Palermo. Il quale lo dota di pochi uomini, di 3,000 ducati (un impegno a ricevere ulteriori 1500 ducati al mese, il permesso di attingere alle casse dei banchi del regno) e solo una piccola parte delle armi portate da Napoli a Messina. Ruffo parte comunque, malgrado i pochi mezzi, giorno otto febbraio 1799. L’urgenza di partire è dettata dal fatto che gli viene detto che le quattro città di Reggio Calabria, Palmi, Bagnara e Scilla stanno per cadere, attraverso una sollevazione, nelle mani dei Giacobini. Sbarca a Catona con una nave e soli sette uomini e lo raggiungono colà 300 uomini dei feudi dei vari rami della sua famiglia. Come primo suo atto, invia una lettera a tutti i parroci della Calabria Ultra. La lettera viene letta durante le funzioni religiose e produce come risultato che migliaia di uomini validi, con alla testa i loro parroci e i loro monaci, si muovono verso i due luoghi di raduno indicati da Ruffo: Palmi per gli abitanti del Reggino e dell’Aspromonte e Pizzo Calabro per quelli del Nord della Piana e della Sila Piccola. A questi due raduni si presentano, di fatto, i Calabresi i cui paesi sono stati terremotati nel 1783.
Dalle 40.000 persone presenti ai due raduni, il Cardinale ricava circa 7.500 uomini, in prevalenza ex soldati dell’esercito borbonico, sbandatesi dopo la fuga del re a Palermo. Altri 5.000 circa vengono addestrati e fungono da riserva o da massa di manovra, mandata in avanti prima e in altra direzione rispetto a quella progettata da Ruffo. Loro compito è quello di ingannare gli avversari circa le intenzioni dei ribelli.
È il successo che hanno questi due raduni che porta alla formazione di un vero esercito che combatte con un coraggio e una capacità che Thiébault riconosce nelle sue Mémoires. Le diverse e maggiori capacità dell’esercito sanfedista derivano anche dal fatto che “in ogni paese si formavano masse di volontari, regolarmente arruolati, armati e inquadrati in formazioni militari, con inserimento di uomini dell’esercito … le masse eleggevano i loro capi e, senza gli ostacoli degli sconcertanti ufficiali dell’esercito regolare” (Viglione, p. 15) finiranno per diventare molto più efficienti dell’esercito regolare delle Due Sicilie.
L’armata sanfedista incorpora in se stessa una nuova struttura democratica, la gerarchia è organizzata in modo rigido nell’esecuzione degli ordini, mentre sparisce del tutto nella progettazione della strategia, Ruffo, prima di ogni azione, chiama a raccolta i propri ufficiali, che conoscono tutti i loro uomini e le loro specifiche abilità, pone il problema strategico, descrive l’obiettivo e illustra le difficoltà per raggiungerlo. Dopo la sua esposizione, lascia la parola ai suoi uomini cui spetta suggerire quale la migliore strategia per risolvere le difficoltà.
Un esempio di problema viene posto dal Cardinale in questi termini: “c’è una città in mano ai Giacobini che si sono asserragliati dentro le alte mura fortificate; come facciamo a prenderla d’assalto e lasciare nel contempo una via di fuga per non compiere un massacro dentro la città, una volta conquistata?” Dopo un lungo brainstorming (come si chiama il metodo oggi) qualcuno suggerisce di utilizzare decine di scale umane (uomini in piedi sulle spalle di altri per scalare le mura nel modo più veloce possibile) e di lasciare, dalla parte opposta della città, libera una porta per permettere agli sconfitti di fuggire.
Decisa la strategia, gruppi di una dozzina di uomini si muovono lungo le mura e salgono su di esse, saltano giù e si aprono le vie fino alle porte più vicine. Intorno a queste ,si attestano a difesa mentre il grosso delle truppe entra per le porte liberate. Una volta dentro, si muovono lentamente privilegiando il risultato di mettere in sicurezza ogni casa liberata e invitare i difensori ad arrendersi nella certezza di aver salva la vita. Di fronte ai palazzi dei Giacobini, si fermano a distanza e invitano a uscire oppure a lasciare la città, dalla porta non assediata, avendo la garanzia di avere salva la vita. Una volta usciti i liberali e le loro famiglie, come è pratica abituale del tempo, comincia il saccheggio delle case dei liberali lasciati liberi di andare o arrestati.
Questo piano, ineccepibile sulla carta, viene continuamente aggiornato con modifiche dettate dalla conformazione delle mura e con modifiche tendenti a evitare gli errori fatti le volte precedenti. Infatti, non sempre va tutto liscio, come progettato nel brainstorming. Spesso i Giacobini non si sono fidati delle promesse del Cardinale che considerano un brigante; spesso, presa la città, si è scatenato il panico; altre volte i Sanfedisti, avendo subito troppe perdite, reagiscono con brutalità e violenza; altre volte reagiscono perché hanno scoperto che i Giacobini hanno massacrato i legittimisti prima dell’arrivo dei Sanfedisti. In questo ultimo caso, oltre ai saccheggi, si sono verificati stupri e violenze di ogni tipo, fino alla caccia dei Giacobini guidata dai legittimisti sopravvissuti.
Anche nell’autofinanziamento, l’esercito sanfedista di Fabrizio Ruffo si muove su principi liberali avanzati: il Cardinale comincia con il fratello, duca di Bagnara. Pretende e ottiene un contributo di tasse proporzionale al reddito. Lo stesso devono pagare nobili ed ecclesiastici. Un’impostazione liberale che la Chiesa, schierata con il Cardinale, accetta solo finché non si riconquista la capitale e non si libera il Regno dai Giacobini. Poi, tutto cambia. La Chiesa abbandona il Cardinale, come già aveva fatto, per pressioni dell’aristocrazia, nobiliare ed ecclesiastica, dello Stato Pontificio quando, da Tesoriere della Camera Apostolica, finanze propone riforme fiscali in senso liberale ed egualitario.
Perso l’appoggio della Chiesa, anche Ferdinando IV lo abbandona. Da questa emarginazione nasce la decisione di Ferdinando di premiare solo Horatio Nelson regalandogli una Ducea, quella di Bronte. Nel farlo, il re compie un’usurpazione di beni del demanio comunale, proprietà delle città e degli enti caritativi e degli ospedali. Questo violava le leggi dello Stato e la tradizione giuridica del Regno. Ruffo viene praticamente costretto a restare vicino ai sovrani nella capitale e riesce a lasciare il regno solo dopo la morte del Papa (Pio VI). Ritornerà solo dopo un quarto di secolo, qualche anno prima di morire.
Nel 1806, perso di nuovo il Regno di Napoli, da Palermo, Ferdinando IV lo contatta e lo invita rifare l’azione di costruire un esercito di volontari che parta dalla Sicilia per risalire fino a Napoli. Rifiuta e la rivolta antifrancese dei Calabresi, per quanto coraggiosa, si caratterizza solo dalla difesa delle proprie case e delle proprie città. Nessuno dei resistenti delle campagne se ne fregherà della capitale e dei sovrani, a differenza che nel 1799.
La presentazione del traduttore e del prefattore dell’edizione italiana
La breve Prefazione di Massimo Viglione rimane fortemente legata al tema letterale del volume che è quello di narrare chi ha fatto che cosa e come l’ha fatta durante l’invasione. Si parla del trasferimento dei sovrani di Napoli in Sicilia, il re di Napoli è anche re di Sicilia, sottolineando l’analogo trasferimento dei sovrani sabaudi in Sardegna, quasi per suggerire la normalità della soluzione, la fuga, di fronte allo strapotere degli eserciti napoleonici. È una tradizionale difesa dell’operato del re adottata dai neoborbonici. A mio avviso, questa difesa lascia il tempo che trova. Non è, però, compito mio criticarla.
Sempre nella Prefazione, si accenna alla grande razzia di opere d’arte napoletana, cosa questa che si è verificata ovunque hanno dilagato gli eserciti napoleonici. Inoltre, si sostiene che la Francia, dopo il sostegno che Ferdinando IV ha dato al Papa le cui terre erano state invase, ha trovato un desiderato pretesto per invadere il Regno di Napoli. E anche questa si presenta come una difesa dell’operato del re: anche se non avesse dichiarato guerra alla Francia, sarebbe stato attaccato.
Il punto, però, è un altro: gli eserciti francesi avevano già sconfitto una coalizione europea nel 1797 alla quale Ferdinando IV non aveva aderito; poi, nel 1798, da solo dichiara guerra alla Francia, malgrado avvisato di non farlo dal potentissimo sovrano dell’impero austriaco, Francesco II che gli sconsiglia di gettarsi nell’impresa da solo (dato che le potenze europee stanno preparando una seconda coalizione, che si formerà nel 1798). La decisione porta il Regno alla sconfitta, all’invasione e, infine, il re alla subalternità nei confronti di Nelson che lo spinge a trasformarsi in un sovrano che viola il capitolato firmato dai suoi plenipotenziari e da quelli inglesi e, soprattutto, a rompere con Fabrizio Ruffo che quel capitolato aveva fortemente voluto.
Nella Prefazione, si sostiene che il Regno sia caduto per i tradimenti delle gerarchie militari. Questo vuol dire che quanto è successo nel 1860 era già successo nel 1798. Questo vuol dire che i Borbone non hanno saputo trovare le giuste riforme per cambiare il modo di arruolare e formare gli ufficiali in modo da garantirsi il futuro? Mi domando: si può ipotizzare che questo sia dipeso dal fatto che non hanno dato ascolto a Fabrizio Ruffo che, nel 1799, ha intuito che, nei nuovi tempi post rivoluzione francese, era il rapporto tra soldati e gerarchie che andava messo in discussione e riformato? Per esempio, con l’ascolto dei subalterni da parte della gerarchia militare e addirittura l’elezione degli ufficiali direttamente dalla truppa?
Nell’Introduzione, Rotondi fornisce, a mio avviso giustamente, una corretta risposta alle mie domande: con il 1798 emerge la consapevolezza che la classe dirigente borbonica sia terrorizzata più dalle masse popolari che dagli invasori e che questa classe di pavidi opportunisti avrebbe proiettato la propria ombra anche sui decenni successivi. Ma se Ferdinando IV ha avuto dalla propria Fabrizio Ruffo che ha impostato tutte le proprie carte sul rapporto con le masse, che non temeva, perché il re ha diffidato del Cardinale e condottiero e si è fidato di più di quegli aristocratici che le masse le temevano più dei nemici esterni? Perché i re delle Due Sicilie non hanno compreso che Ruffo era nel futuro, in quel futuro immaginato da Giambattista Vico il quale avrebbe potuto dire di lui che conosceva la Dottrina Civile necessaria per guidare le masse.
Ferdinando I, Francesco I, Ferdinando II e Francesco II, che si autodefinivano e si consideravano riformisti, forse non lo sono stati abbastanza perché sono stati poco capaci di vedere quanto immaginato da Vico e, in parte, messo in atto da Ruffo. La storia è, a questo proposito, impietosa. Se hai perso un Regno (quello di Napoli) nel 1798 e lo hai perso ancora nel 1806, riuscendo a mantenere solo quello di Sicilia, e se li hai riunificati, forse perché convinto che così rendevi entrambi più forti e, invece, li hai persi entrambi, di sicuro in qualcosa hai sbagliato.
Thiébault Paul, L’invasione francese del Regno di Napoli (1798-1799). Memorie di un protagonista, traduzione di Raimondo Rotondi e prefazione di Massimo Viglione, D’Amico Editore 2024, € 18.00
Giuseppe Gangemi
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