Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Giacomo Savarese di Roberto Maria Selvaggi

Posted by on Lug 28, 2019

Giacomo Savarese di Roberto Maria Selvaggi

La storiografia risorgimentale non si è limitata nel tempo a cancellare la memoria storica meridionale ma, per il timore di lasciare dello spazio e delle radici su cui potesse riprendere vita il ricordo di un tempo in cui la metà del nostro paese fu autonoma e prospera, ha dimenticato anche quei personaggi che, pur critici del centralismo borbonico e della mancanza di autonomia amministrativa e rappresentativa, di fronte alla rozza e violenta unificazione ed alla sistematica denigrazione delle istituzioni preesistenti, si ribellarono e levarono alta la protesta, per quanto fu loro possibile, contro lo stato di cose in cui versò il sud dopo il 1861.

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La grande marina mercantile e militare napoletana

Posted by on Lug 18, 2019

La grande marina mercantile e militare napoletana

Il primato delle Due Sicilie sul Mediterraneo si concretizzò

Nella terza flotta al mondo per tonnellaggio e traffici,

rafforzato dalla grande tradizione delle scuole marinare

e da un’industria cantieristica all’avanguardia

Tra le vie del quartiere Flaminio di Roma che portano i nomi di illustri giuristi ve n’è una intitolata al sardo Domenico Alberto Azuni. Essa è situata proprio accanto al Ministero della Marina, quasi a voler ricordare le benemerenze, vere o presunte, del giurista sardo nel Diritto Internazionale Marittimo.

 Non ne esiste invece nessuna intitolata a Michele De Jorio, giurista napoletano autore del primo codice di diritto marittimo, il “Codice Ferdinandeo”.

In una rarissima lettera di Bartolomeo Pagano, nel 1798, il Codice Azuni viene definito “uno sfacciato plagio del Codice Ferdinandeo”; sfacciato perché in molte parti banalmente copiato di sana pianta.

Il Regno delle Due Sicilie fu il terzo paese d’Europa anche nel campo navale: è bene ricordarlo.

Il resto d’Italia viveva stretto tra terraferma e legami stretti con altre realtà statuali, il Lombardo-Veneto gravitava nell’orbita austriaca, pur avendo porti importanti come Venezia e Trieste, ed il piccolo Piemonte vivacchiava di angusti commerci col porto di Genova.

Il Regno del Sud era il più grande e più abitato stato della penisola, con poli di commercio marittimo di importanza internazionale come le Puglie ed i suoi porti di Bari, Brindisi, Gallipoli e Manfredonia.

Intorno a Napoli ferveva la più grande industria navale italiana, e non a caso il primo vapore europeo a solcare il mare, il Ferdinando I, fu qui costruito.

Ebbene anche questo è successivamente stato negato.

In una relazione ufficiale piemontese del 1890 si millantava il primato di un piroscafo sardo che iniziò a navigare su un fiume, e non sul mare, il 6 novembre 1819.

Jules Millenet scriverà nel1834: “In un’epoca in cui la Francia non possedeva alcun battello a vapore, e dove questo sistema di navigazione non era stato ancora adottato in Inghilterra, se non sui fiumi e sui golfi, si costruiva a Napoli il primo bastimento a vapore che abbia attraversato il mediterraneo”.

Dal 1815 al 1830 ebbe il monopolio della navigazione a vapore la “Amministrazione Privilegiata dei Pacchetti a vapore delle Due Sicilie”, società di proprietà del principe di Bufera prima e della Società Sicari, Benucci e Pizzardi, poi.

Ferdinando II decise di abolire il monopolio con un decreto, che accordava anche esenzioni fiscali e facilitazioni “a chiunque, suddito o straniero che, stabilitosi nel Regno, costruisse nei cantieri dello stesso battelli a vapore per destinarli alla marina mercantile delle Due Sicilie”.

Nacquero così tante compagnie di navigazione: nel 1839 Vincenzo Florio fondava l’Amministrazione dei Pacchetti a vapore siciliani, nel 1841 nasceva la Compagnia Andrea De Martino e soci, poi l’Amministrazione Napoletana, la Giglio delle Onde e la Calabro Sicula.

E nel 1853 ancora un primato: il palermitano Salvatore de Pace costituiva infatti la Società Sicula Transatlantica, e con il piroscafo Sicilia iniziava i viaggi periodici con l’America, con scalo a Napoli e Gibilterra, e raggiungendo New York in 26 giorni.

Quelli furono però solo viaggi di affare e di piacere, solo dopo l’unità divennero quella vera e propria tragedia che fu l’esodo di milioni di meridionali verso la speranza di un futuro diverso.

Nel 1860 tutta la flotta mercantile iniziò lo stesso declino che accomunò l’ex Regno delle Due Sicilie.

La società Rubattino di Genova, per intenderci quella che fornì il naviglio a Garibaldi, fu spudoratamente agevolata e nel giro di venti anni divorò la flotta Florio, ed altrettanto accadde per gli altri, che mano a mano scomparirono.

La Marina Militare napoletana era anch’essa tra le migliori del mondo.

Aveva combattuto molto poco, salvo che nella Campagna di Sicilia del 1849, ed era dotata di navi moderne con equipaggi di prim’ordine, fedeli alla patria ed al re, ma non fu altrettanto onorata nei suoi ufficiali.

Il conte d’Aquila, fratello di Ferdinando II, Comandante Generale della marina, non fu mai uomo di polso e lasciò sempre fare agli altri, non nascondendo spesso atteggiamenti frondisti nei confronti dello stesso re.

Solo alla fine, nell’estate del 1860, capì quel che sarebbe accaduto e tentò senza successo di riprendere le redini della situazione, per ristabilire un governo autenticamente nazionale che non facesse da battistrada a Garibaldi e a quel che ne seguì.

Il lavoro di corruzione operato sugli ufficiali di marina fu incessante e continuo, e portò come inevitabile conseguenza al dissolvimento dell’arma nelle vicende finali del Regno: a parte alcuni uomini, come gli ammiragli Lettieri e Del Re ed i comandanti Pasca e Flores, il grosso passò più o meno apertamente al nemico fin dal maggio 1860.

Ma dal punto di vista tecnico e marinaresco i napoletani non furono secondi a nessuno: la piccola marina sarda sembrava una flottiglia di pescherecci disastrati a confronto con quella delle Due Sicilie.

La cantieristica napoletana, oltre a costruire tutto il naviglio interno, eseguiva lavori per mezza Europa.

Il 14 agosto 1852 fu inaugurato a Napoli il bacino di raddobbo per le grandi riparazioni, con una spesa di 300000 ducati, unico del mediterraneo.

Intorno al polo cantieristico, grazie alla ferrovia costruita appositamente per unire la capitale con le realtà industriali, nacquero altre industrie private, oltre Pietrarsa, che prosperarono anche grazie a quel polo, aggiungendo agli oltre 2000 addetti di Castellammare ed ai 4000 di Pietrarsa quelli della Zino & Henry, della Guppy & Co., dello stabilimento Pattison ed altri ancora.

Per non parlare del ferro utilizzato, tutto, proveniente dalle fonderie pubbliche e private della Calabria.

Con l’arrivo dei “liberatori” tutte queste industrie furono sistematicamente portate al fallimento, con decine di migliaia di persone gettate in mezzo ad una strada, come testimoniato dalle prime rivolte operaie represse nel sangue, e cancellando per di più anche il ricordo di tale operosità e ricchezza e iniziando quella serie di luoghi comuni relativi al Sud povero, mafioso ed incapace di iniziative imprenditoriali.

Proprio dove oggi sorge un anonimo museo ferroviario morirono, falciati dal fuoco dei bersaglieri, degli operai che chiedevano solo pane e lavoro, perché non avevano ancora capito di avere perso, oltre a quello, anche la propria dignità di uomini liberi.

Roberto Maria Selvaggi

fonte http://www.adsic.it/2001/12/19/la-grande-marina-mercantile-e-militare-napoletana/#more-77

Da “Il SUD Quotidiano” del 20/12/97

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AZ. GALARDI CON VINO TERRA DI LAVORO AL PREMIO TERRA LABORIS 2019

Posted by on Giu 11, 2019

AZ. GALARDI CON VINO TERRA DI LAVORO AL PREMIO TERRA LABORIS 2019

Per gli organizzatori del Premio aver avuto tra le aziende partecipanti una che utilizza il nome “Terra di Lavoro” è stato un onore oltre che un piacere ma. in questa caso, c’è stata anche una forte emozione perché tra i protagonisti della prestigiosa azienda c’è anche la Sig.ra Allegra Selavaggi figlia del sommo Roberto Maria Selvaggi. Di seguito breve scheda dell’azienda con foto a corredo.

Grande Giornata quella del 26 maggio 2019 in quel di Rongolise dove s’è consegnato il Premio Terra Laboris giunto alla quarta edizione e tra le aziende partecipanti c’era anche la prestigiosa Azienda Agricola Biologica Galardi che ha tra i suoi prodotti un’eccellenza assoluta nel mondo dei Vini, il Vino Terra di Lavoro che non è un dei tanti Vini di pregio prodotti in Italia e nel Regno ma è il “Vino”, non fosse per altro perché è custode del più antico Vino del pianeta nato nella Magna Grecia e amato dai Romani, il Falerno.

GALARDI

DESCRIZIONE AZIENDALE

LA STORIA

L’origine dell’azienda di famiglia risale alla seconda metà dell’800. I terreni di proprietà, boschi di castagno, impianti di ulivi e vigneti, si estendono sul versante occidentale del vulcano di Roccamonfina verso il golfo di Gaeta.

Nel 1991 nasce la Galardi per l’avvio del progetto di produzione di olio di oliva e vino rosso di qualità ad opera di Roberto Selvaggi, Maria Luisa Murena, Francesco Catello, Dora e Arturo Celentano. Provenienti da ambiti professionali diversi, iniziarono la Galardi come un gioco, ma ben presto il crescente successo ed il progredire degli impegni che la vigna richiedeva consolidano nel tempo questa unione.

Per il nuovo corso della produzione vitivinicola l’azienda, sin dall’inizio, ha scelto di affidarsi alla consulenza dell’enologo Riccardo Cotarella. Il primo intervento ha riguardato il recupero dei vecchi vigneti ed in seguito la realizzazione dei nuovi impianti. La prima vendemmia del vino Terra di Lavoro è del 1994.

Dal 1997 l’azienda, favorevolmente inserita in un ecosistema particolarmente equilibrato, ha scelto di applicare in campo i dettami dell’Agricoltura Biologica.

La Galardi ha progressivamente innestato nuovi vigneti e ad oggi la produzione conta circa 30.000 bottiglie l’anno ed una piccola selezione dedicata a Magnum e Doppie Magnum.

Il Terra di Lavoro è realizzato sin dal principio con un blend di uve aglianico e piedirosso, 80% e 20% rispettivamente, ottenute da una attenta coltivazione dei vigneti ispirata alla qualità.

IL TERRITORIO

I vigneti preposti alla produzione del Terra di Lavoro si estendono su 10 ettari e sono esposti a sud ovest fra i 400 e 500 m s.l.m. immersi tra bosco di castagno, castagneti e uliveti.

Si inseriscono a metà quota di un vulcano, a diretto contatto con il mare distante una manciata di chilometri e da una vallata particolarmente ventosa (Cassino e la valle del Garigliano).

FILOSOFIA

La Galardi ha deciso di realizzare una sola etichetta conferendo anno dopo anno i massimi livelli di qualità al Terra di Lavoro. Nella filosofia dell’azienda permane l’importanza fondamentale di produrre un vino con uve all’altezza delle aspettative. L’attenzione al territorio e alle caratteristiche del terreno sono gli elementi che guidano le scelte dell’azienda anche in vista di progetti futuri.

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La vera storia dell’impresa dei Mille 5/ Lo sbarco dei Garibaldini a Marsala vergognosamente protetti dagli Inglesi

Posted by on Apr 30, 2019

La vera storia dell’impresa dei Mille 5/ Lo sbarco dei Garibaldini a Marsala vergognosamente protetti dagli Inglesi

Quinta puntata del volume di Giuseppe Scianò sulla sceneggiata passata alla storia come “Impresa dei Mille”. Si parla dello sbarco a Marsala di Garibaldi e dei Mille che non ebbe nulla di eroico. Sbarcarono di giorno, protetti dalle navi Inglesi, che impedirono alle navi del regno delle Due Sicilia di bloccare e bombardare i due piroscafi garibaldini ‘Piemonte’ e ‘Lombardo’. La tragicomica commedia ‘scritta’ dagli Inglesi comincia la sua ‘avventura’ siciliana. I primi traditori Duosiciliani

di Giuseppe Scianò

Da Talamone alla Sicilia la navigazione dei Garibaldini non ha problemi. Vento in poppa in tutti i sensi. Anche se i Garibaldini fossero intercettati dai Duosiciliani, che peraltro dispongono di una buona Marina Militare, non succederebbe niente di grave. Le due navi, pur se rubate, hanno, infatti, le… carte in regola.

Come ci ricorda, infatti, lo storico Cesare Cantù (13), Garibaldi navigava
«regolarmente munito di patente per Malta» (14). Non è un salvacondotto di poco conto quel documento, perché Malta era un territorio inglese. E gli Inglesi, si sa, sono permalosi e pretestuosi nei confronti del Regno delle Due Sicilie, quanto (se non di più) il lupo di esopiana memoria nei confronti dell’agnello. Poca importanza ha il fatto che il Lombardo ed il Piemonte abbiano dichiarato una destinazione diversa o che portino a bordo gente armata ed in procinto di sbarcare in Sicilia.

Guai a fermare quei due vapori. Si sarebbe anticipato quello che sarebbe realmente accaduto, di lì a poco, alla spedizione Corte della quale parleremo più avanti. Gli Inglesi avrebbero gridato alla violazione del diritto internazionale da parte del perfido Re delle Due Sicilie!

È appena il caso di ricordare quindi che il compito di scorta dell’Ammiraglio Persano è assolutamente privo di rischi. La flotta militare sabauda, ovviamente, si discosterà soltanto quando il Lombardo e il Piemonte saranno entrati nelle acque territoriali Duosiciliane. Per recarsi, però, anch’essa nelle acque del porto di Palermo per dare manforte alle manovre di conquista della Sicilia.

Dubbio di Garibaldi: sbarcare col buio o no? – Dopo una navigazione più che tranquilla, i due piroscafi arrivano a poche miglia dalla Sicilia, di fronte alla costa marsalese. Per la verità lo sbarco a Marsala potrebbe avvenire anche nello stesso giorno: 10 maggio 1860… Ma ormai si avvicina la sera e Garibaldi ritiene che non sia prudente sbarcare al buio che, a suo giudizio, potrebbe, sì, anche giovare perché gli consentirebbe di non essere avvistato dai nemici, se non troppo tardi. Però il Nizzardo sa bene che il buio ha un inconveniente. Quello, cioè, di non far vedere bene, di non far riconoscere le persone e le bandiere, di non far vedere dove si mettono i piedi o… le navi.

Prudenza doverosa da parte di un buon vecchio marinaio, soprattutto se si considera che il Lombardo, in pieno giorno, l’indomani, sarebbe rimasto incagliato in un basso fondale. Cosa sarebbe successo se quell’incidente fosse capitato di notte?

Istruzioni… per lo sbarco – Il Fusco – con il suo linguaggio semplice e scorrevole – ci racconta che in vista di Marsala e nell’imminenza dello sbarco, Garibaldi dà incarico a Nino Bixio, per il Lombardo, e al Colonnello Sirtori per il Piemonte, di dare attuazione a quanto disposto con il «Foglio d’ordini operativo», compilato già da qualche giorno a Talamone, e più specificatamente al paragrafo che diceva che nell’imminenza dello sbarco, ai volontari bisognava parlare chiaramente dell’estrema diffidenza e della focosa suscettibilità… «che caratterizzano il temperamento de’ siculi, sovra tutto per ciò che riguarda le loro donne: spose, promesse tali, sorelle, cognate, cugine, e perfino di più lontana e indiretta parentela. A scanso di complicanze gravissime, cruente e perfino ferali, i volontari una volta a terra, dovranno astenersi da intraprendenze inopportune, corteggiamenti e galanterie disdicevoli all’uso locale. Provvederanno alla Suddetta bisogna, salvo imprevisti, il signor Colonnello Sirtori, sul Piemonte, e il signor Luogotenente Bixio, sul Lombardo» (15).

Dopo aver divagato su altri particolari dell’episodio, così continua:

«Invece, sul Lombardo, Bixio, ch’è tutto l’opposto di Sirtori, c’inzuppa il pane. La tira in lungo. Dritto, a gambe larghe, al centro della ‘ radunanza’, la visiera del cheppì calata di traverso, fino a nascondere mezza faccia, ha l’aria di sfottere. E si diverte a inventare le spaventose torture, le indicibili crudeltà e le raccapriccianti efferatezze con le quali, a suo dire, i gelosissimi mariti Siciliani (e specialmente, purtroppo, quelli della zona dov’è previsto lo sbarco) sono soliti vendicare le corna. Non solo quelle già messe, ma anche quelle intenzionali. Amanti squartati, scorticati, bruciati e sepolti vivi. Corteggiatori affogati nel pozzo nero, inchiappettati da tutti i maschi del parentado e poi tritati come carne da polpette. Rivali mangiati allegramente, in famiglia, sotto forma di spezzatino, oppure bolliti, a fuoco lento, in enormi pignatte che i calderai dell’isola fabbricano appositamente… I volontari di primo pelo, o addirittura imberbi, ascoltano quelle atrocità sgranando gli occhi e non riescono a nascondere la fifa. Mentre i più maturi e scafati sogghignano (ma è più che altro una smorfia) ed l’aria di sfottere. E si diverte a inventare le spaventose torture, le indicibili crudeltà e le raccapriccianti efferatezze con le quali, a suo dire, i gelosissimi mariti Siciliani (e specialmente, purtroppo, quelli della zona dov’è previsto lo sbarco) sono soliti vendicare le corna. Non solo quelle già messe, ma anche quelle intenzionali. Amanti squartati, scorticati, bruciati e sepolti vivi. Corteggiatori affogati nel pozzo nero, inchiappettati da tutti i maschi del parentado e poi tritati come carne da polpette. Rivali mangiati allegramente, in famiglia, sotto forma di spezzatino, oppure bolliti, a fuoco lento, in enormi pignatte che i calderai dell’isola fabbricano appositamente… I volontari di primo pelo, o addirittura imberbi, ascoltano quelle atrocità sgranando gli occhi e non riescono a nascondere la fifa. Mentre i più maturi e scafati sogghignano (ma è più che altro una smorfia) ed ammiccano. Insomma, giovanotti, i Siciliani hanno molto dei beduini!, sentenzia Bixio, che sospira, sì, un’Italia libera e unita, dalle Alpi al Lilibeo, ma che non riesce a digerire gli Italiani da Roma in giù. Tant’è vero che, proprio come fra i bedù, il taglio delle balle è la vendetta preferita dei becchi siculi!» (16).

Perché abbiamo parlato di questo aneddoto, per la verità molto marginale rispetto ai grandi fatti che avvenivano in quel giorno? Per fare conoscere meglio chi realmente fossero i futuri liberatori della Sicilia. Evidenziando come fossero, già nel 1860, forti i pregiudizi e i malintesi fra le popolazioni del Centro-Nord Italia ed il Popolo Siciliano, Bixio fra lo scherzoso ed il serioso dà voce ed alimenta i motivi di divaricazione psicologica e di incompatibilità.

E così, scherzando scherzando, allunga ai Siciliani pure le accuse di cannibalismo e di pratiche sodomitiche. Non ci sembra molto bello per un padre della Patria, che avrebbe potuto approfittare dell’esperienza siciliana per imparare qualcosa di buono. Per quanto riguarda l’epiteto beduino dobbiamo arguire che questo doveva essere molto diffuso per offendere i Siciliani. Lo incontreremo infatti pure nel linguaggio del Bandi, il giovane ufficiale addetto al servizio personale di Garibaldi, che pure è più colto di Bixio. Per la verità il Bandi usa anche, come epiteto, la parola arabo, mancando così contemporaneamente di rispetto alla nazionalità Siciliana ed alla nazionalità Araba. Quest’ultima è infatti tirata in ballo come termine di paragone assolutamente negativo.

C’è tuttavia una considerazione da fare. Come si vede, pur trovandoci nell’imminenza dello sbarco, di tutto si parla, tranne che delle tattiche da adottare per quella che, in teoria, è una vera e propria operazione bellica.
A bordo delle due navi garibaldine si dà infatti per scontato che lo sbarco avverrà nelle migliori condizioni di tranquillità e di sicurezza. Si dà per scontato, insomma, che non si dovrà combattere per conquistare metro per metro la costa siciliana. Così come sarebbe stato logico, se non si fosse trattato essenzialmente di seguire un copione.

11 maggio 1860. Sbarco dei Mille a Marsala
scortati da due gigantesche navi da guerra

Vietato sparare sui Garibaldini! – Come abbiamo già anticipato, Garibaldi segue le istruzioni che gli prescrivono di sbarcare a Marsala. E così l’11 maggio il Lombardo ed il Piemonte, ansimando rumorosamente, entrano nella rada di Marsala, inseguiti ad una certa distanza dalle tre navi della Marina militare Duo-siciliana Partenope, Capri e Stromboli. Quest’ultima si colloca in posizione molto più avanzata, ed è peraltro comandata da uno degli ufficiali più brillanti della Marina Duosiciliana, che è notoriamente abilissimo nell’usare l’artiglieria. Non avrà rivali degni di lui probabilmente in tutto lo scorcio di secolo. Parliamo di Guglielmo Acton, che farà parlare di sé, in bene ed in male, per tutta la durata della Spedizione per la conquista della Sicilia. Ed anche dopo.

Garibaldi non si scompone. Anzi, dà l’ordine di andare diritto dentro il porto di Marsala. Sa quello che fa. Questo è il porto della sua salvezza. È sicuro di poter comunque sbarcare, senza che le navi nemiche lo cannoneggino.

Intanto, alla fonda, nel porto di Marsala, si trovano due navi da
guerra della Mediterranean Fleet di Sua Maestà Britannica: l’Argus e
l’Intrepid, comandate rispettivamente da Winnington Ingram e da Marryat. Sono due le navi poderose. Due vere fortezze del mare. Gli equipaggi sono quasi al completo sulla tolda come se dovessero assistere ad uno spettacolo; ma abbastanza all’erta per entrare in azione immediatamente pure loro, se fosse arrivato un ordine in tal senso.

L’Armata Garibaldina sbarca, sotto protezione… – Il primo a dare spettacolo, per la verità non bello, è il piroscafo garibaldino Lombardo che si incaglia in un basso fondale. Tuttavia l’Acton non ne approfitta: così come tutti i suoi colleghi, ha un ordine ben preciso: non creare incidenti con navi straniere, né tantomeno con la flotta militare britannica, che è peraltro la più potente del mondo. Sulle banchine del porto si nota intanto uno strano movimento: un ammuìno di operai, in una tuta rossa che sembra una divisa inglese, attorno alle produzioni dello stabilimento Wodehouse. Tutto programmato, tutto predisposto. Quegli operai creano, infatti, altra confusione.

Diversi, troppi mercantili Inglesi sono pure ancorati nel porto. Come si fa a sparare con i cannoni senza metterli in pericolo? Bandiere Inglesi sventolano sulle navi ed anche sulle case, sugli uffici, sugli stabilimenti del Wodehouse, degli Ingham e dei tanti imprenditori e cittadini britannici che vivono ed operano a Marsala. Ma le bandiere Inglesi sventolano allegramente anche sugli edifici di coloro che Inglesi non sono, come vedremo meglio più in là. Dice Antonio Rosada:

«Sembrava una kermesse britannica. […] In quel giorno di maggio, quando il Comandante della pirocorvetta di Sua Maestà siciliana “Stromboli” ebbe in pugno il destino del “Lombardo”, incagliato su bassi fondali, e con esse di metà della spedizione garibaldina, il timore reverenziale che gli incuteva la vista della bandiera britannica fu l’usbergo invisibile che si frappose per quasi un’ora fra i cannoni della nave napoletana ed il trasporto genovese che le imbarcazioni costiere vuotavano febbrilmente del suo carico umano».

L’Acton, ufficiale napoletano di origini Inglesi, aduso ad obbedire, da buon militare obbedisce agli ordini ricevuti, da un lato. Ma, dall’altro, sa di avere a portata di mano un bersaglio facilissimo: il Lombardo incagliato ed un altro bersaglio, un poco più difficile, il Piemonte. Né l’uno né l’altro sarebbero per lui un problema tecnico. L’uno e l’altro sono, però, un enorme, insormontabile, problema politico e diplomatico.

Fa armare i pezzi, ma non si decide ad ordinare il fuoco. Teme le conseguenze… Si accosta allora all’Intrepid e fa chiedere se gli uomini che si vedono sul molo siano per caso soldati o cittadini britannici. La risposta è
«no». Ma è seguita da un secco avvertimento: i comandanti dell’Intrepid e dell’Argus sono a terra. Non si può rischiare di colpirli.

Acton capisce bene cosa significhi quell’avvertimento. Guai, infatti, se fosse stato messo in pericolo uno solo dei tanti capelli dei due ufficiali Inglesi… L’Acton decide, quindi, di aspettare che i due comandanti ritornino a bordo. Il tempo, intanto, trascorre velocemente, a tutto vantaggio di Garibaldi e dei suoi Mille.

Finalmente arrivano i commanders Marryat e Winnington Ingram, che salgono a bordo dello Stromboli. Il tempo continua a trascorrere senza che il bravo tiratore, Acton, riesca a fare qualcosa. La visita degli Inglesi gli fa capire che le cose possono andare soltanto di male in peggio. I due commanders, infatti, gli fanno un’altra e più severa ammonizione: attenzione a non danneggiare gli opifici britannici e i loro dipendenti! Tanto peggio, inoltre, gli dicono, sarebbe colpire i mercantili Inglesi ormeggiati nel porto e che non hanno intenzione di muoversi fino a che non verranno venti più propizi.

Trevelyan ci dà una notizia precisa al riguardo:

«Il “Piemonte” gettò l’ancora al sicuro dentro il molo nel bel mezzo dei bastimenti mercantili Inglesi…». A bordo, come sappiamo, c’era Garibaldi.

Ai due commanders non piacciono neppure i timidissimi tiri radenti che l’Acton ha cominciato ad ordinare. Tiri a pelo d’acqua che finiscono a mare prima di raggiungere il molo, sollevando – questi sì – acqua e fango. Insomma, l’Acton si dimostra meno efficace (anzi più innocuo) di quanto non lo sia stato fino a quel momento.

Più pericoloso è, invece, il Comandante della Partenope, Cossovich, intanto sopraggiunto, che può sparare in direzione dei Garibaldini, ormai messisi al sicuro dietro l’antemurale del molo. La sua mitraglia, tuttavia, fa qualche piccolo danno ad alcuni tetti di Marsala ed una palla di cannone osa danneggiare due botti di vino nel baglio del Wodehouse. Gli Inglesi sono indignati per la grave provocazione e diffidano pure il Cossovich, che aveva potuto fare, fino a quel momento, un po’ meglio il proprio dovere, perché, almeno, non aveva ufficiali Inglesi a bordo.

Il ridicolo sbarco dei Garibaldini a Marsala – È appena il caso di dire che lo sbarco dei Mille, sotto tutela degli Inglesi, avviene senza che alcun Siciliano dia loro il benvenuto o batta loro le mani. È uno sbarco che non manca di aspetti ridicoli. Sembra, infatti, che non pochi Garibaldini del Lombardo siano stati presi in braccio dai poveri dipendenti Wodehouse e portati in barca e a terra, fra una bestemmia e l’altra. Ai Duosiciliani, purché non facciano danno, viene consentito di sparare fino a sera, evitando però le proprietà e le navi Inglesi, secondo diffida. Vale a dire: si può sparare soltanto in aria e a mare. Poi, le autorità Inglesi daranno l’alt…

Si è fatto tardi. Non si può esagerare! – Mentre il buon Garibaldi ringrazia Dio e gli Inglesi per la grazia ricevuta, è opportuno fare qualche riflessione sulla vicenda dello strano sbarco.

Abbiamo già parlato dell’Acton e della sua Stromboli, efficientissima fregata forzatamente inoperosa. Abbiamo parlato del Cossovich, bravo o no che fosse, il quale riuscì almeno a sparare qualche colpo di mitraglia verso il porto, facendo indignare gli Inglesi. Insomma, la Partenope qualche fastidio riuscì a darlo, se non altro alla quiete pubblica. Fu l’unica, probabilmente.

Di Mariano Caracciolo, Comandante del Capri e della sua nave, non abbiamo ancora detto nulla. Precisiamo soltanto che i fatti successivi confermeranno la fondatezza di ciò che il Buttà insinua. E cioè che il Caracciolo non avrebbe sparato, dalla sua «Capri», neppure un colpo, perché in tal senso si era «appattato» con Garibaldi o con chi per lui.

L’affaire Marsala non finisce di stupire. – Se si andasse veramente a fondo si finirebbe con il mandare a picco i Padri della Patria e la mitologia risorgimentale. Lo dimostrano tutti quelli che, con un minimo di sincerità, parlano di quell’avvenimento. Così Padre Buttà descriverà la scena dello sbarco:

«Due legni Inglesi fecero la spia contro i Regi, e protessero lo sbarco di Garibaldi. Tre piroscafi di guerra Napoletani, che si trovavano in crociera nelle acque di Marsala, presero il largo fino a che non fosse stato effettuato quello sbarco. Uno dei piroscafi, il Capri, era comandato da Marino Caracciolo; il quale, come rilevasi dalla “Difesa Nazionale” di Tommaso Cava, a pag. 101, volle poi tenuto al fronte battesimale un figlio da Garibaldi, e costui, memore dei servizi ricevuti da quello in Marsala, accettò, con piacere, di farsi compare col primo che tradì Francesco II. Marino Caracciolo è quello stesso che poi entrò nel forte di Baia e prese possesso a nome del compare. Un altro legno era comandato da Guglielmo Acton, poi Ministro del Regno d’Italia».

E conclude, il Buttà, molto amareggiato:

«Nello sbarco di Marsala tanto celebrato da’ rivoluzionari, nulla trovo di straordinario, e neppure potrebbe dirsi audace». (1)

Lo sbarco a Marsala è una pagina di storia di cui vergognarsi? – Non diverse sono le stranezze che si riscontrano in ciò che è avvenuto intanto nella città di Marsala. Insomma: la commedia continua! Abbiamo già parlato della fiera ostentata indifferenza della cittadinanza tutta di Marsala, senza una sola eccezione. Ma c’è un aspetto particolare dei fatti che cercheremo di evidenziare, approfittando ancora dell’aiuto di padre Buttà.

Come mai nel regime poliziesco ed oppressivo dei Borbone in una città importante come Marsala (porto, produzione industriale, commercio, presenza di una comunità inglese numerosa, operosa, ricca, importante, ecc.) in un contesto così delicato, non si trova in quel momento un solo soldato Duosiciliano? Uno qualunque di quegli innumerevoli soldati Duosiciliani che alcuni operatori dell’agiografia risorgimentale ci fanno quasi sempre trovare, crudeli, cattivi e ben armati, nonché miseramente sconfitti dai valorosi Garibaldini («buoni, questi, ed inferiori numericamente e pressoché disarmati o male armati…»).

La spiegazione è semplicissima. La lasciamo dare allo stesso Buttà.
«Egli (Garibaldi) sbarcò a Marsala, quando già sapeva che la guarnigione era stata mandata a Girgenti (cioè ad Agrigento) per ordine del Comando Generale di Palermo:

quella guarnigione di un battaglione di “Carabinieri a piedi”, comandati dal Colonnello Francesco Donati, sembrò pericolosa allo sbarco garibaldesco e due giorni prima fu mandata altrove» (2).

Ed è vero. Gli alti ufficiali della Luogotenenza di Palermo, ben manovrati dai servizi segreti britannici, in previsione dell’arrivo dei Mille e ben sapendo quanto fosse importante che lo sbarco avvenisse nel migliore dei modi, avevano ordinato al Colonnello Donati di trasferirsi con la guarnigione tutta ad Agrigento. Cosa, questa, confermata da Padre Buttà, come ben sappiamo.
La responsabilità maggiore di tale disposizione sembrerebbe attribuibile al Generale Giuseppe Letizia (3).

(3) Chi era Letizia? Un Generale che incontreremo ancora molte volte e del quale, pertanto, anticipiamo qualche notizia biografica. Era nato a Napoli nel 1794. Ufficiale dell’Esercito Napoletano, ai tempi di Gioacchino Murat, aveva partecipato alle battaglie napoleoniche di Lutzen e Bautzen. Nell’ultima battaglia era stato pure ferito. Con la restaurazione borbonica fu radiato dall’esercito dal 1816 al 1820. In quest’ultimo anno venne riammesso in servizio in tempo per partecipare alle azioni dell’Armata Borbonica contro la rivoluzione siciliana e gli indipendentisti Siciliani, fu addirittura Aiutante di campo di Florestano Pepe. La cosa non deve meravigliare perché allora – così come avverrà in seguito – fra reazionari Borbonici e carbo- nari-liberali-unitari esisteva identità di vedute contro l’indipendenza della Sicilia. Il Letizia fu coinvolto in varie congiure carbonare e fu, quindi, nuovamente sospeso dal servizio e dal grado. Le raccomandazioni (e la tolleranza dei Borbone), però, fecero sì che lo stesso fosse, nel 1848, riammesso un’altra volta nell’esercito delle Due Sicilie. Non si tratta, quindi, di un Generale pavido e inetto, come talvolta la storiografia ufficiale lo vuole fare apparire, ma di un Generale ideologicamente ostile alla causa del Regno delle Due Sicilie ed agli stessi Borbone. Inaffidabile, certamente. E disponibile nei confronti del nemico. Anticipiamo qualche notizia sulla sua carriera successiva. Nel 1861 il Generale, ex borbonico, Letizia diventerà Generale effettivo dell’Esercito Italiano. Non fu l’unico, per la verità. Ma il suo fu un trattamento di eccezionale favore, se si considera che il Letizia, al momento dello sbarco di Garibaldi a Marsala, aveva già compiuto 66 anni. Età rispettabile anche oggi, ma che allora era considerata molto avanzata. Qualche benemerenza, nei confronti dei vincitori, il Letizia doveva pure averla. Almeno abbiamo il diritto di sospettarlo. E i sospetti aumenteranno quando, fra poco, lo vedremo a Palermo trattare con Garibaldi. E mai, come in questo caso specifico, il sospetto ci è sembrato l’anticamera della verità. Dobbiamo, con l’occasione, rivolgere un grato pensiero al grande studioso meridionale Roberto Maria Selvaggi, morto recentemente, per le notizie che ci ha fornito sul Generale Letizia e su moltissimi altri ufficiali dell’Esercito Duosiciliano, nel libro Nomi e volti di un esercito dimenticato. Gli ufficiali dell’Esercito napoletano del 1860- 61, Grimaldi, Napoli, 1990.

(13) Cesare Cantù nacque a Brivio (in provincia di Como) l’8 dicembre 1804. Cattolico ed antiaustriaco, fu, per la sua attività sovversiva, arrestato per un breve periodo dalla polizia del Lombardo-Veneto. Amico del Manzoni, scrisse alcuni commenti storico letterari ai Promessi Sposi. Le sue opere maggiori sono, tuttavia: La storia universale (1838-1846), in 35 volumi, Storia degli Italiani, Gli eretici d’Italiani, Il Conciliatore e i Carbonari, Ragionamento sulla storia lombarda del secolo XVII, ed altri testi a carattere storiografico. Critico verso il liberi- smo laico, fu deputato al Parlamento italiano, prima a Torino e poi, dopo il trasferimento della Capitale d’Italia, a Firenze, per 6 anni, nel periodo che va dal 1861 al 1867.

(14) Malta, com’è noto, era dal 1800 un possedimento inglese.

(15) G. Fusco, op. cit., pagg. 25 e 26.

(16) G. Fusco, op. cit., pagg. 26 e 27.

(1) G. Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, Memorie della rivoluzione dal 1860 al 1861, Bompiani, Milano, marzo 1985, pag. 330.

(2) G. Buttà, op. cit., ibidem.

(3) Chi era Letizia? Un Generale che incontreremo ancora molte volte e del quale, pertanto, anticipiamo qualche notizia biografica. Era nato a Napoli nel 1794. Ufficiale dell’Esercito Napoletano, ai tempi di Gioacchino Murat aveva partecipato alle battaglie napoleoniche di Lutzen e Bautzen. Nell’ultima battaglia era stato pure ferito. Con la restaurazione borbonica fu radiato dall’esercito dal 1816 al 1820. In quest’ultimo anno venne riammesso in servizio in tempo per partecipare alle azioni dell’Armata Borbonica contro la rivoluzione siciliana e gli indipendentisti Siciliani, fu addirittura Aiutante di campo di Florestano Pepe. La cosa non deve meravigliare perché allora – così come avverrà in seguito – fra reazionari Borbonici e carbonari-liberali-unitari esisteva identità di vedute contro l’indipendenza della Sicilia. Il Letizia fu coinvolto in varie congiure carbonare e fu, quindi, nuovamente sospeso dal servizio e dal grado. Le raccomandazioni (e la tolleranza dei Borbone), però, fecero sì che lo stesso fosse, nel 1848, riammesso un’altra volta nell’esercito delle Due Sicilie. Non si tratta, quindi, di un Generale pavido e inetto, come talvolta la storiografia ufficiale lo vuole fare apparire, ma di un Generale ideologicamente ostile alla causa del Regno delle Due Sicilie ed agli stessi Borbone. Inaffidabile, certamente. E disponibile nei confronti del nemico. Anticipiamo qualche notizia sulla sua carriera successiva. Nel 1861 il Generale, ex borbonico, Letizia diventerà Generale effettivo dell’Esercito Italiano. Non fu l’unico, per la verità. Ma il suo fu un trattamento di eccezionale favore, se si considera che il Letizia, al momento dello sbarco di Garibaldi a Marsala, aveva già compiuto 66 anni. Età rispettabile anche oggi, ma che allora era considerata molto avanzata. Qualche benemerenza, nei confronti dei vincitori, il Letizia doveva pure averla. Almeno abbiamo il diritto di sospettarlo. E i sospetti aumenteranno quando, fra poco, lo vedremo a Palermo trattare con Garibaldi. E mai, come in questo caso specifico, il sospetto ci è sembrato l’anticamera della verità. Dobbiamo, con l’occasione, rivolgere un grato pensiero al grande studioso meridionale Roberto Maria Selvaggi, morto recentemente, per le notizie che ci ha fornito sul Generale Letizia e su moltissimi altri ufficiali dell’Esercito Duosiciliano, nel libro Nomi e volti di un esercito dimenticato. Gli ufficiali dell’Esercito napoletano del 1860- 61, Grimaldi, Napoli, 1990.

Fine quinta puntata/ Continua

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La mostra a Capodimonte/La bellezza esce dai depositi e intreccia con gli spettatori una storia tutta da scrivere

Posted by on Mar 9, 2019

La mostra a Capodimonte/La bellezza esce dai depositi e intreccia con gli spettatori una storia tutta da scrivere

Dimenticare il brutto del quotidiano. Andare, per una full immersion nel bello, al Museo di Capodimonte. Che non ha la pesantezza tipica di un museo perché è una Reggia. Accogliente e ariosa, è stata appunto costruita, nel Settecento, dal Re Borbone, per contenere opere d’arte. E per abitarvi, contemplandole.
Oggi, ogni visitatore può girarvi nelle sale come un Re. La sensazione, per anni appannata, di trovarsi in una Reggia, è stata, da qualche tempo, ritrovata per l’attenta manutenzione di cui ora è oggetto l’edificio e per l’atteggiamento diverso del personale nelle sale, che ha abbandonato la sciatteria disinformata di un tempo. In più, da qualche settimana, l’illuminazione con centinaia di lampade a led ha creato, nel Salone delle Feste, la scintillante atmosfera di una fiaba principesca.
Mentre la “Flagellazione”, la famosa opera di Caravaggio (1571/1610) custodita qui, in una sala tutta per sé, è ora circondata da una cornice coeva che, in  complesse fitomorfiche curve, esprime il naturalismo barocco napoletano e storicizza l’artista, non più nume avulso dal tempo, riportandolo all’epoca sua. Il parco (grande due volte quello di Caserta.) che circonda la Reggia suggerisce chiaramente come l’arte si ispiri alla natura. Intorno all’edificio, i prati ora sono ben curati e c’è  la vista del mare dal Belvedere liberato dalla siepe che ne impediva la vista.

Questa sorta di révolution heureuse nella Reggia e nel Real Bosco riguarda anche la strategia culturale che vi viene attuata. Attenta a non  abbassare il livello della comunicazione culturale, diversamente da quella che ha l’unico fine di ottenere un maggior numero di visitatori, questa strategia mira a educare il pubblico all’arte e al bello sollecitandone le capacità e l’attenzione.
Un esempio ne è la mostra (dal 21/12/18 al 15/5/19)  “Depositi di Capodimonte. Storie ancora da scrivere”, intelligente nella impostazione, ricca di stimoli e di idee. Una sua originale caratteristica è l’attuale mancanza del catalogo, che sarà pubblicato al suo termine, per contenere i pareri degli esperti che converranno in un convegno internazionale e le osservazioni, i suggerimenti e i desideri dei visitatori.
Le 120 opere tirate fuori dai depositi (il 20 /100 circa di quelle lì conservate) sono dipinti, ceroplastiche, gessi, marmi, tessuti e armi, porcellane e terracotte. Tutte di pregio. Non sono presentate secondo una successione cronologica, secondo il prima e il dopo. Ma sono collocate in modo che si trovino vicine tra loro quelle che hanno tra loro delle analogie.
Qui si sfida anche il visitatore a trovare degli elementi in comune tra opere diverse e, in base a questi, raggrupparle e magari scoprirne lo sconosciuto autore. Se la prosa letteraria ha un linguaggio razionale, quindi pressappoco univoco, l’opera figurativa, invece, è, a suo modo, polivalente. Le somiglianze, quindi, possono trovarsi in base  a diversi elementi. In base alla materia usata, al colore, alla tecnica, al tema rappresentato, all’aspetto che vi viene evidenziato….Ogni opera racconta una sua storia, tutta ancora da scrivere.
Da un’ attenta osservazione delle opere si comprende anche la fallace superficialità del detto “Non è bello quel che è bello. E’ bello quel che piace.” Perché il Bello oggettivamente esiste. Ma piace all’osservatore quell’aspetto dell’opera d’arte che gli è più consentaneo, e quindi più per lui comprensibile. A questo si deve anche il criterio secondo il quale le opere sono state mandate nei depositi, da cui ora sono state tratte per questa mostra.
Vi sono state mandate perché non erano consentanee al gusto o al clima politico all’epoca o alle preferenze del critico al tempo più in auge. In proposito c’è l’eclatante esempio di Caravaggio (1593/1610), molto apprezzato ai tempi suoi ma poi a lungo tenuto in non cale. Finché, nel Novecento, un critico che allora andava per la maggiore, Roberto Longhi, lo riabilitò. Perché -come ancora si dice- a suo avviso Caravaggio aveva avuto il pregio di porre in primo piano la povera gente con i suoi piedi sporchi. Sebbene un valore maggiore potrebbe attribuirsi alla sua cancellazione, con la resa del buio, dello spazio canonico e la creazione, a volte, di uno spazio diverso, formato dai movimenti delle persone. Come nelle “Sette opere di Misericordia”, la prima opera che l’artista geniale produsse al suo arrivo a Napoli.
Tra i liberi accostamenti che in questa mostra si realizzano, c’è il confronto ravvicinato tra i personaggi ritratti nelle opere dell’Ottocento e in quelle del Seicento napoletano. Da cui appare chiara la diversissima sensibilità tra le due epoche. Il sentimentalismo ottocentesco rivela lo studio dei sentimenti, risentendo dello storicismo letterario, del positivismo e dell’eredità del neoclassicismo. Il Seicento napoletano rivela un’abundantia cordis irrefrenabile e la sensualità di una carnalità dirompente.
Tra le tante opere citiamo la veduta seicentesca di una irriconoscibile Messina, che dai terremoti, epocale quello del 1908, fu travisata del tutto. Ma, a prescindere dai luoghi, questa veduta rivela, nello stile della composizione avvolgente,  i suoi rapporti con l’arte napoletana. E ci viene in mente Antonello (Messina 1430/1479).
Molto interesse suscitano, tra gli oggetti in mostra, anche quelli portati in Europa dal Capitano James Cook e poi donati a Ferdinando di Borbone da Lord Hamilton, ambasciatore inglese presso la Corte Borbonica. Sono armi, un copricapo, una maschera di pelle e e altri oggetti provenienti dall’Oceania. Che testimoniano il senso della bellezza e dell’arte di un popolo ritenuto selvaggio. E suggeriscono un modo di vivere altro ma non per questo meno felice.
Nella stessa sala, statuette in terracotta riprendono precisamente le figure e gli abbigliamenti di popoli esotici vestiti nei loro abiti tradizionali. Sono riproduzioni perfette. Ma poco suggestive. La conoscenza storica è fatta anche di immaginazione. Prendendo spunto da tutti questi oggetti, Carmine Romano, curatore della mostra insieme a Maria Tamayo e ad altri collaboratori, tra cui Linda Martino, ha raccontato una storia su Ferdinando di Borbone. Questi, personaggio vitalissimo, amante delle donne e del suo popolo, con cui, quando poteva, si mischiava festaiolo, durante una festa carnevalesca del 1748 si era abbigliato alla turca secondo una moda esotica di fantasia. Un pittore francese, Joseph-Marie Vien (1716/1809), lo ritrasse insieme ai suoi e portò questi dipinti a Londra. Dove i membri dell’ambasciata turca li videro, e, rimanendone suggestionati, si abbigliarono a quel modo di fantasia. Se l’arte copia la vita, a volte anche la vita copia l’arte.
Le opere in mostra ritorneranno nei depositi? Sulla loro sorte non si hanno ancora notizie precise. Mentre c’è in progetto la creazione di un altro spazio espositivo in un grande edificio nel Real Bosco, quello che si trova di fronte la Reggia. Ma, nel frattempo, meglio andare a visitare queste “imperdibili” opere, prima che vadano in qualche deposito. E scompaiano alla vista.
LA MOSTRA
Depositi di Capodimonte. Storie ancora da scrivere 
Fino al 15 maggio
Per saperne di più
http://www.museocapodimonte.beniculturali.it/portfolio_page/depositi-di-capodimonte-storie-ancora-da-scrivere/

Adriana Dragoni


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La vera storia di Luisa Sanfelice e dei suoi compagni

Posted by on Dic 7, 2018

La vera storia di Luisa Sanfelice e dei suoi compagni

di Roberto Maria Selvaggi

Nel 1847 un decreto reale comunicava al paese che il Ministro delle Finanze Ferdinando Ferri era stato ritirato e sostituito con il Cavalier Giustino Fortunato. Il decreto in questione chiudeva la lunga, sorprendente e disinvolta carriera di un personaggio che fu protagonista, nella sua vita, di importanti avvenimenti storici.

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