Cattolicesimo, liberalismo, tolleranza (II parte)
(Tuttavia) l’oscura e confusa ansia millenaristica che aveva indotto tanta gente a partire dopo essersi scossa dai calzari la polvere d’Europa, andava a poco a poco lasciando il posto alla presa di coscienza del fatto che quella sita fra Mar di Levante e Giordano era ormai la loro nuova patria (…). Era ormai chiaro che alla lunga la politica di saccheggio e di sterminio si sarebbe tradotta in un suicidio degli stessi conquistatori. I pochi mussulmani ed ebrei superstiti dalle città conquistate fuggivano verso la Siria e verso l’Egitto portandosi dietro i loro cari superstiti, il po’ di masserizie che erano riusciti a racimolare e a salvare e, soprattutto, il loro odio, la loro rabbia, la loro disperazione. Se la croce era stata fino ad allora fra loro un segno disprezzato, ora essa era diventata oggetto di rancore e di cieca paura. Quello che rimaneva d’un tessuto urbano, portuale e viario fra i più antichi e floridi dell’intero bacino mediterraneo stava ormai cedendo il passo alla desolazione (…). Così, i crociati si resero finalmente conto che non bastava trasformare le moschee in chiese e drizzar croci dorate sulle torri della città. La crociata non era finita con la presa di Gerusalemme: cominciava allora. I principi e i prelati… posero da parte le loro aspre rivalità e si diedero ad organizzare le terre conquistate secondo criteri feudali dell’Occidente, non senza tuttavia prendere atto e tener conto, in qualche modo, d’una realtà profondamente diversa e che pian piano cominciavano a comprendere (…). Pian piano, … l’ordine s’impose e l’intera area urbana e rurale soggetta agli occidentali… tornò a fiorire; si riuscì a mantenervi o a richiamarvi gruppi di artigiani, di mercanti e di agricoltori mussulmani o ebraici, e l’antica tradizione di più o meno cordiale vicinato fra genti di stirpe e religione diverse – un ‘carattere originale’ del Vicino Oriente – ebbe il sopravvento. I rudi occidentali impararono dalle comunità che avevano assoggettato non solo l’uso dell’arabo (e anche del greco, dell’ebraico, del siriaco) e di tutta una quantità di tradizioni, consuetudini, accorgimenti che servirono loro a viver meglio in quelle contrade nelle quali l’arte del viver bene… era tanto raffinata: essi vi appresero anche l’arte e la misura orientali del ben governare, l’arte per loro difficile della tolleranza religiosa. Nasceva così ben presto una società almeno in parte disposta all’integrazione, dove fra l’altro i matrimoni misti (anche negli alti strati della società, fra nobiltà crociata e aristocrazia sirocristiana e armena) erano requenti. Una società ‘coloniale’, che un intelligente osservatore arabo del XII secolo, Usama ibn Munqidh, emiro di Shaizar, descrive ad esempio così: ‘Ci sono presso i Franchi alcuni che, stabilitisi nel paese, han preso a vivere familiarmente con i mussulmani, e costoro son migliori di quelli che sono ancor freschi dei loro luoghi d’origine (…). Venimmo alla casa di un cavaliere di quelli antichi, venuti con la prima spedizione dei Franchi. Costui, ritiratosi dall’ufficio e dal servizio, aveva in Antiochia una proprietà del cui reddito viveva. Fece venire una bella tavola, con cibi quanto mai puliti e appetitosi. Visto che mi astenevo dal mangiare, disse: ‘Mangia pure di buon animo, che io non mangio del cibo dei Franchi, ma ho delle cuoche egiziane, e mangio solo di quel che cucinano: carne di maiale in casa mia non ne entra!’ (…). Restava comunque il problema della difesa. I conquistatori della Terrasanta erano poche migliaia fra cavalieri e non, e molti, sciolto il voto, se ne erano tornati in Europa. Ma il paese aveva bisogno di venir presidiato continuamente: infatti, passato il primo istante di disorientamento, l’islam sirogiordano ed egiziano cominciava a passar al contrattacco (…). V’erano, sì, pellegrini che giunti dall’Occidente si sobbarcavano con entusiasmo l’onere di una campagna militare: ma poi ripartivano. Per il presidio delle frontiere e la difesa dei pellegrini inermi si erano semmai organizzati liberi gruppi di cavalieri che, a titolo penitenziale, sceglievano di rimanere in Terrasanta per difendervi le conquiste cristiane e per vivere in comunità e in povertà nei luoghi che avevano veduto il Salvatore. Nasceva una singolare, quasi paradossale – in quanto guerriera – applicazione alle necessità contingenti del principio della ‘conversione’ alla vita monastica, uno dei principi che in Occidente aveva costituito il lievito della vita della Cristianità. Col tempo, quelle ‘fraternità’ si trasformarono in veri e propri ordini religiosi, acquartierati in caserme-abbazie disposte lungo i confini e nei punti strategici del deserto a guardia delle piste carovaniere. Le loro regole si ispirarono variamente alla matrice benedettina (o alle norme canonicali d’origine agostiniana) e trovarono un estimatore d’eccezione nel più grande mistico dell’Occidente di allora, Bernardo di Clairvaux, che in un breve ma famoso scritto – il ‘De laude novae militiae’ (‘In lode della nuova cavalleria’) – propose la loro vocazione militare come simbolo esteriore del combattimento spirituale da combattersi contro il peccato (esattamente come viene considerato, al di là dei suoi abusivi usi politici, il jihad dagli islamici, nda). Nacquero così gli ordini religioso-militari dei ‘Poveri Cavalieri di Cristo’ (più tardi detti ‘Templari’), dei ‘Cavalieri di San Giovanni’ (detti – per la pratica dell’assistenza a pellegrini e malati, nda – ‘Ospitalieri’), dei ‘Cavalieri di Santa Maria’ (…). Di questo mondo ammirevole e sconcertante, i Templari rimangono l’incognita ancor più indecifrabile. Guerrieri coraggiosi e spietati e abilissimi banchieri, odiati come nessun altro ‘franco’ dai mussulmani eppure in frequenti contatti… con l’islam, fedeli al loro voto personale di povertà eppure membri di un ordine che ai primi del trecento fu sciolto sotto accuse infamanti, in un clima equivoco e persecutorio (3) (…)».
Per contro, i loro acerrimi avversari arabi ce ne hanno lasciato un quadro improntato spesso a simpatia, ad ammirazione, ad amicizia. Ascoltiamo ancora una volta il sensibile e raffinato emiro Usama: «Quando visitai Gerusalemme io solevo entrare nella moschea al-Aqsa, al cui fianco c’era un piccolo oratorio, di cui i Franchi avevan fatto una chiesa. Quando dunque entravo nella moschea al-Aqsa, dov’erano insediati i miei amici Templari, essi mi mettevano
a disposizione quel piccolo oratorio per compiervi le mie preghiere» (4).
Il resoconto dell’emiro Usama continua rammentando l’episodio dell’aggressione subìta, mentre pregava sdraiato al modo islamico nel piccolo oratorio, da parte di un cavaliere che costringendolo ad alzarsi gli intimava di pregare in piedi, fino a che gli altri templari intervennero allontanando quel cavaliere e ponendo all’emiro le loro scuse, anche a nome dell’aggressore, giustificandolo con il fatto che era arrivato da poco dall’Europa e non conosceva la tolleranza praticata lì, in Terra Santa.
Un cavaliere d’eccezione fu Francesco di Bernardone, che nel 1219 partecipò alla crociata in nome della santa obbedienza al Papa, che l’aveva bandita, e che, sul campo di battaglia, lui vecchio cavaliere che le armi le aveva brandite nella guerra tra Assisi e Perugia, intervenne per convincere i crociati a non attaccare a Damietta per motivi di inopportunità militare. Non certo, come fa intendere una
ambigua agiografia ecumenica, per motivi di ecumenismo ante litteram.
Francesco, uomo di pace, infatti, si recò dal sultano non certamente spinto da ideali pacifisti ma per fare, a modo suo, la crociata, ossia per predicare Cristo ad al-Malik al-Kamil, magari facendo leva sui passi del Corano nei quali si parla di Nostro Signore e della Santa Vergine Sua Madre.
L’immagine di Francesco tutto ecologia, ecumenismo e pacifismo è infatti storicamente falsa perché, caricata come è di valori attuali, è viziata di anacronismo.
Ciò non toglie, appunto, che Francesco fosse uomo di pace e di misericordia e che intendesse approcciare il sultano secondo carità. E’ certo, comunque, che quell’incontro tra il Santo assisiate ed il sultano contribuì, se non alla conversione del mussulmano, perlomeno all’apertura di un rapporto che nell’immediato, qualche anno dopo, portò all’accordo tra lo stesso sultano e Federico II per la restituzione di Gerusalemme ai cristiani, che dal canto loro si impegnavano a rispettare i diritti di pellegrinaggio dei mussulmani, e, nel lungo periodo, portò alla costante presenza francescana in Terra Santa, vivissima tuttora.
Ancora dunque la crociata e la missione!
«Nel corso del Duecento, specie grazie agli ordini francescano e domenicano, l’idea di crociata si accompagnò e si alternò – non sempre necessariamente opponendosi – a quella di missione. Non mancò, anzi, chi, come Raimondo Lullo, intese crociate e missione come due strumenti e due valoricomplementari, il primo rivolto a rivendicare alla Cristianità il legittimo possesso dei Luoghi Santi, il secondo teso all’espansione pacifica della Cristianità attraverso la salvezza delle anime degli stessi infedeli. Ora, è un fatto che la crociata non aveva mai avuto come scopo la conversione degli infedeli: comunque, nella concreta realtà storica, è indubbio che attraverso di essa i cristiani ed i mussulmani impararono a conoscersi meglio e in parecchi casi anche a stimarsi. E’ tuttavia ovvio che, se crociata e missione potevano concettualmente parlando convivere, in concreto tale convivenza era assai ardua: l’idea di missione costituisce, se non una negazione, quanto meno un superamento dell’idea di crociata, e non a caso alla cerniera fra quelle due dimensioni noi troviamo proprio l’azione di un crociato ‘sui generis’, Francesco d’Assisi, presente al campo di Damietta nel 1219-20 e pronto secondo la tradizione a sfidare a sua volta i mussulmani, ma con la forza non già delle armi, bensì della fede, dell’amore. E poiché il dialogo – e magari la polemica – abbisognava di reciproca conoscenza, la missione aprì nuovi orizzonti intellettuali: il Concilio di Vienne del 1311-12, organizzando su basi razionali la preparazione dei missionari, fondò i primi istituti di orientalistica della storia della Cristianità. Fu la Spagna – che già nel XII secolo aveva fornito all’Europa l’equipe dei traduttori (del Corano, nda) di Toledo – la patria di questo primo tentativo» (5).
fonte
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