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Il cattolicesimo sociale presso le seterie di San Leucio

Posted by on Mag 2, 2016

Il cattolicesimo sociale presso le seterie di San Leucio

quando sento parlare i cattocomunisti di politiche sociali giustizia sociale mi vien da ridere, anche io facevo la stessa cosa fino a quando non ho approfondito alcuni argomenti, e dopo aver pubblicato i fatti di Pietrarsa questa sera pubblico un articolo del Dr. Ubaldo Sterlicchio sulla politica sociale che esordiva a San Leucio a fine settecento grazie a Ferdinando IV di Borbone. di seguito l’articolo e in allegato il pdf con le note storiche. noterete la data del 2012 perché l’articolo e gia stato pubblicato su la Rete delle Due Sicilie, come tutti gli altri che il Dr. Sterlicchio ci ha gentilmente concesso, poichè a noi non interessa la genitorialità ma solo la diffusione di elementi utili alla causa anche se del passato e pubblicato da atri.

Il cattolicesimo sociale presso le seterie di San Leucio

 

Sui re Borbone e sul Regno delle Due Sicilie, molto è stato scritto e, spessissimo, in senso negativo. Tuttavia, nel 1902, lo storico inglese Bolton King (1860-1937) nell’avviare una delle più oneste riaffermazioni della verità storica, sostenne che «nessuno Stato in Italia poteva vantare istituzioni così progredite come quelle del Regno delle Due Sicilie».

In materia economico-sociale, nel mese di gennaio del 1789 (ancor prima che scoppiasse la Rivoluzione francese!), il re Ferdinando IV (poi I) di Borbone (1751-1825) emanò lo Statuto delle seterie di San Leucio (località presso Caserta), per regolamentarvi la vita ed il lavoro degli operai e dei loro nuclei familiari.

Quest’opera costituì l’atto principale della cosiddetta «era di Ferdinando». Il volume, pubblicato in soli 150 esemplari su carta imperiale d’Olanda per le Leggi e carta reale per i Doveri, aveva il seguente titolo: «L’origine della popolazione di S. Leucio e i suoi progressi fino al giorno d’oggi colle Leggi corrispondenti al buon Governo di Essa» e comprendeva anche i «Doveri verso Dio, verso sé, verso gli Altri, verso il Re, verso lo Stato, per uso delle Scuole normali di S. Leucio», nonché un «Orario per il tempo della Preghiera, Messa ed Esposizione del Santissimo per gli individui della popolazione di S. Leucio».

L’opera è comunque meglio conosciuta come il Codice-statuto di San Leucio.

L’editto in questione fu redatto con somma saggezza ed il suo compilatore si ispirò ai principî di equità, giustizia ed aiuto alle classi più deboli, indicando le norme comportamentali per una vita retta, informata ai canoni del Vangelo ed uniformata al Diritto naturale. Con esso, Ferdinando IV di Borbone riuscì mirabilmente a coniugare le teorie socio-economiche dell’illuminista Gaetano Filangieri (1753-1788) e quelle politico-economiche di Thomas More (1478-1535), rendendo così reale quel «cattolicesimo sociale» che il santo filosofo aveva concepito nella sua Utopia.

La colonia di San Leucio fu un progetto ideato e voluto dallo stesso re. L’opificio, conosciuto successivamente in tutta Europa per l’elevato livello tecnologico ed i cui pregiati manufatti venivano largamente esportati, divenne il “fiore all’occhiello” dell’industria del Sud. Si trattò di un vero e proprio “miracolo”, non solo sotto il profilo economico, ma anche e soprattutto sotto l’aspetto sociale, che stupì i contemporanei.

Lo stesso denigratore dei Borbone, Alexandre Dumas padre (1802-1870), dovette ammettere che: «Nel 1778, quando cioè Sain-Simon aveva appena dodici anni, e Fourier non ne aveva cinque, il re Ferdinando non solo ideò il falansterio, … ma lo mise ad effetto, dandogli leggi più umanitarie di quelle compilate da’ due capiscuola, e da’ loro due discepoli. Aspetto alla costituzione di San Leucio, quelle di Saint-Simon e di Fourier son timidi saggi di socialismo».

Infatti, il Codice Leuciano anticipò di quasi un secolo le prime leggi sul lavoro varate in Inghilterra: previdenza, assistenza sanitaria, case ai lavoratori, asili nido, istruzione elementare obbligatoria e gratuita per i fanciulli. Esso perseguiva obiettivi di convivenza tipicamente moderni (anche con l’affacciarsi di problematiche che, volendo usare una terminologia dei nostri tempi, potremmo definire “sindacali”) e mirava a realizzare una sorta di «socialismo evangelico»: sanciva cioè, per i componenti della colonia, la perfetta uguaglianza, con l’unica possibilità di differenziazione basata sul merito. Le giovani coppie, inoltre, avevano diritto di prelazione per sistemarsi. Fu così costruito un vero e proprio stabilimento di moderna concezione, che richiamò gente da fuori e famiglie intere in cerca di lavoro e reddito garantito. Lo Statuto prevedeva un criterio retributivo, certamente parsimonioso, tuttavia in anticipo sui tempi, ed una specie di piano contro il pauperismo del Sud; perché l’iniziativa doveva essere, sono queste le testuali parole del re Ferdinando: «utile alle famiglie, alleviandole da’ pesi, che ora soffrono, e portandole ad uno stato tale da potersi mantener con agio, e senza pianger miseria, come finora è accaduto in molte delle più numerose e oziose».

Con una regolamentazione che disciplinava i tempi e i modi del lavoro, che fissava i criteri dell’istruzione da impartire agli adolescenti, che si preoccupava di tutti gli aspetti della mutua assistenza e che, alla base del vivere civile, poneva l’osservanza delle pratiche religiose, considerando la religione cattolica apostolica romana il cardine spirituale intorno al quale ruotava la vita stessa della collettività, San Leucio apparve come una specie di isola sotto la protezione di un Re, illuminato e paterno, desideroso della felicità del popolo, secondo i più puri canoni delle utopie settecentesche.

«Nessun uomo, nessuna famiglia, nessuna Città, nessun Regno può sussistere, e prosperare senza il timor santo di Dio». Con queste parole ispirate al Vangelo, il re Borbone introduce, in una legge dello Stato, i due precetti cardine del cattolicesimo:

1) amare Dio sopra ogni cosa;

2) amare il Prossimo come se stesso.

Mirabile è, poi, la successiva analitica enunciazione dei comportamenti da tenere per la pratica osservanza di tali prescrizioni e degne di una particolare menzione sono i tre cosiddetti “doveri negativi”, che costituiscono altrettante regole inderogabili, ai fini della civile e pacifica convivenza, in qualunque tipo di società: «l’astenersi dall’offendere alcuno nella persona, nella roba e nell’onore».

Ai lavoratori delle seterie veniva assegnata una casa all’interno della colonia. Le abitazioni medesime venivano progettate tenendo presente tutte le regole urbanistiche dell’epoca, per far sì che durassero nel tempo (esse sono tuttora abitate) e fin dall’inizio furono dotate di acqua corrente e servizi igienici. Stiamo parlando del lontano 1789!

A San Leucio si ebbe anche la prima forma al mondo di assistenza sanitaria pubblica: a fine messa, i fedeli erano tenuti a versare il proprio obolo in una cassa custodita dal parroco, utilizzata per assicurare l’assistenza medica e farmaceutica ai bisognosi. In tutto il Regno delle Due Sicilie, la tenuta e la gestione degli ospedali era a carico dello Stato ed a San Leucio, in particolare, esisteva «una Casa separata totalmente dalle altre, in luogo di aria buona e ventilata, chiamata degl’Infermi», laddove, «ne’ debiti tempi di autunno e di primavera d’ogni anno… a tutti i fanciulli e le fanciulle» veniva praticata gratuitamente «l’inoculazione del Vaiuolo». Nella medesima struttura sanitaria potevano trovare altresì ricovero coloro che fossero stati «attaccati da morbi contagiosi, tanto acuti, che cronici»; ivi, peraltro, le spese per «i medici, i medicamenti, le biancherie» e quant’altro occorresse «pel mantenimento del luogo, e degl’individui», erano a carico del Sovrano.

Nel Regno delle Due Sicilie, la prima esperienza italiana di diritto allo studio si ebbe in virtù di un Decreto Regio del 1768 di Ferdinando IV, con il quale veniva sancito l’obbligo, per ogni Comune, di avere almeno un corso gratuito, per «i fanciulli di ambi i sessi», in parallelo con i normali corsi scolastici a pagamento. Ed anche a San Leucio, per i ragazzi, l’educazione e l’istruzione elementare erano gratuite ed obbligatorie, potendo essi beneficiare della prima scuola dell’obbligo d’Italia, che iniziava al sesto anno di età e che comprendeva le materie tradizionali, quali la matematica, la letteratura, il catechismo, la geografia, nonché l’economia domestica per le femmine e gli esercizi ginnici per i maschi.

I figli erano ammessi al lavoro a 15 anni, con turni regolari per tutti, ma con un orario ridotto rispetto a quelli praticati nel resto d’Europa. In un periodo storico nel quale, in Inghilterra, lavoro minorile e orari di lavoro disumani erano la norma, negli opifici borbonici gli operai lavoravano otto ore al giorno [in alcuni documenti risalenti addirittura al 1840 (ben oltre mezzo secolo più tardi!) si legge che l’orario di lavoro delle fabbriche inglesi era di 13-14 ore il giorno per sei giorni la settimana, mentre i bambini di 5-6 anni erano obbligati a lavorare persino 13-15 ore negli opifici o nelle miniere in situazioni malsane e pericolose] e guadagnavano un salario sufficiente a sostentare le proprie famiglie. Per i giovani, inoltre, esisteva una sorta di politica dell’occupazione ante litteram: «Per non farli andare altrove a cercar la maniera d’impiegarsi, ho (chi parla è il Re, promulgatore dello Statuto) provveduto questo luogo di macchine, di strumenti e di artisti abili ad insegnar loro le più perfette manifatture» (quanto potrebbero imparare, dal Re Ferdinando, i politici ed i sindacalisti italiani del XXI secolo, per la realizzazione di una politica occupazionale che non costringa i giovani, in cerca di lavoro, ad abbandonare la propria terra!).

Sorprendente è, poi, la norma sui matrimoni, la quale stabiliva che «nella scelta non si mischino punto i genitori, ma sia libera de’ giovani». E non solo: l’antica costumanza della dote venne abolita, poiché «lo spirito e l’anima di questa società sono l’eguaglianza tra gl’individui che la compongono».

Alle maestranze locali si aggiunsero subito anche artigiani francesi, genovesi, piemontesi e messinesi che si stabilirono a San Leucio, richiamati dai molti benefici di cui usufruivano gli operai delle seterie.

Il Codice Leuciano fu ben presto tradotto in greco, francese e tedesco. Ma di gran lunga più importante, sotto il profilo culturale, fu la traduzione in latino, opera dell’Abate Vincenzo Lupoli (1737-1800). La traduzione latina, arricchita con dotte ed erudite annotazioni dell’autore, contribuì infatti a divulgare, negli ambienti culturali europei, la legislazione di San Leucio più di quanto la diffusione dei prodotti della manifattura della seta avesse fatto conoscere la Real Colonia; quest’opera letteraria richiamò particolarmente l’attenzione internazionale sull’organizzazione etico-amministrativa di una comunità a struttura sociale basata sul principio dell’uguaglianza, sia sotto il profilo giuridico che economico, garantita da una regolamentazione che riguardava tutte le manifestazioni della vita individuale e collettiva.

L’Abate Lupoli collocò il re Borbone al di sopra dei più famosi legislatori dell’antichità ed, in conclusione del suo lavoro letterario, fece un’esaltazione del re e della famiglia reale, suggellando il suo scritto con l’elegante epigrafe latina che ancora si può leggere alla base della statua di Ferdinando I eretta nel Belvedere di San Leucio, incisa nel 1824 ad opera del cavalier Antonio Sancio, Amministratore, in quel tempo, del Real Sito di San Leucio e del Sito Reale di Caserta.

Con l’iscrizione latina, oltre a magnificare il Sovrano, invocando per lui «faustiora ac prosperiora omnia» [ogni bene e prosperità], Monsignor Lupoli sintetizzava il programma politico-sociale che Ferdinando I, «scriptis sua manu legibus» [attraverso leggi scritte di suo pugno], intendeva realizzare con l’iniziativa leuciana. Infatti, l’Abate evidenziava che il re Borbone «arduum iniit consilium, ut (…) lecta miserorum pubes qua puerorum que puellarum, ad religionis cultum, morum humanitatem ingeniumque artium informaretur» [prese un’ardua decisione, e cioè che (…) l’eccellente gioventù di ragazze e ragazzi bisognosi venisse istruita al culto della religione, alla morigeratezza dei costumi ed alla naturale inclinazione delle proprie attitudini], «usque memor caritatis gnatos hosce suos sibi plus oculis cariores» [sempre memore dell’amore verso questi suoi figli, a Lui più cari degli occhi].

Quest’etica politica, affondante le proprie radici nella morale cattolica, caratterizzò costantemente l’operato dell’intera Dinastia borbonica delle Due Sicilie, la quale mirava a garantire pace, benessere e giustizia sociale ai popoli dalla stessa governati.

Infatti, la colonia di San Leucio, grazie alle norme ed all’organizzazione dettate dal re Ferdinando, si arricchì e prosperò, e la seta pregiata della sua filanda, assurta a fama mondiale, entrò nelle case aristocratiche di tutto il mondo.

Originariamente, si trattava di un piccolo impianto collocato nel regio padiglione della caccia, detto Belvedere; ma, poi, aveva cominciato ad espandersi, grazie alla costruzione di magazzini, filatoi, incannatoi e di una tintoria, prima dell’edificazione di abitazioni e dormitori per gli abitanti-lavoratori.

Nel 1786, gli architetti avevano realizzato, di fronte all’edificio principale, un’inedita tipologia abitativa: case a schiera, lungo il viale d’ingresso alla colonia, che presero il nome di Quartiere San Carlo e Quartiere San Ferdinando.

Quasi a complemento della lavorazione della seta, in un edificio adiacente ed allargato, trovò sede la Vaccheria, dove si allevava bestiame da carne, da latte e da lavoro, e si producevano, in gran quantità, burro e formaggi.

L’economista molisano Giuseppe Maria Galanti scrisse: «A mia memoria, devo dire che per San Leucio nessuna spesa veniva risparmiata. Il nostro amato sovrano (Dio serbi!) nulla tralascia per migliorare la colonia e dotarla di nuove macchine e sistemi i più vantaggiosi, tanto che essa ora ha raggiunto un livello talmente alto da potersi paragonare a ciò che vi è di meglio in altri paesi».

Nei progetti del Sovrano, San Leucio avrebbe dovuto trasformarsi in una vera e propria città, da chiamarsi Ferdinandopoli, avulsa dal resto del Regno. Infatti, leggi, decreti e rescritti furono espliciti, chiari, illuminanti per documentare un indirizzo preciso.

Si trattò di un progetto avanzato ed ardito che, purtroppo, a causa degli eventi politici e bellici che si susseguirono, dalla Rivoluzione francese in poi, non potette avere pratica realizzazione. Anzi, quegli avvenimenti compromisero quanto già era stato realizzato.

Tuttavia, la grandiosa idea di aver concepito San Leucio con criteri sociali, regolando la vita dei suoi abitanti con uno Statuto in cui tutti i privilegi venivano ignorati ed instaurando un’assoluta uguaglianza fra tutti i membri della comunità, consegna alla Storia Ferdinando I di Borbone come un grande ed illuminato Sovrano che, precorrendo i tempi con un eccezionale intuito sociale, intese realizzare una comunità perfetta a sfondo cristiano-sociale.

Tessuti finissimi, stoffe damascate, lampassi preziosi uscirono per decenni dalle fabbriche leuciane e ben due terzi della produzione totale erano destinati all’esportazione verso gli Stati Uniti d’America. Se mai nella vostra vita aveste la possibilità di toccare la bandiera americana situata nella Sala Ovale della Casa Bianca o quella inglese di Buckingam Palace, sappiate che state toccando le pregiate sete provenienti da San Leucio. E non solo. Dalle seterie san leuciane provengono anche meravigliosi tessuti che si possono ritrovare in Vaticano e al Quirinale, per citare altri esempi dell’arte della piccola comunità.

Nel 1997, San Leucio è divenuta Patrimonio dell’Umanità, bene protetto dall’UNESCO.

 

Telese Terme, novembre 2012.

 dott. Ubaldo Sterlicchio

Il cattolicesimo sociale presso le seterie di San Leucio

 

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