Chi fu Giorgio Ascarelli, il mecenate ebreo “padre” del Napoli
Soggette al tempo, e alle vicende umane, certe memorie anche delle preziose imprese sbiadiscono o svaniscono. Se Napoli ha serbato sempre il nome di Giorgio Ascarelli non si deve pertanto alle sue fortune industriali né alle attività filantropiche, non al suo mecenatismo né al fatto che rappresentasse quella signorilità mercantile così diffusa in una generazione la quale ben diversa fu dagli arricchiti successivi e fu la generazione sua, che nacque nel 1894 e assai prematuramente morì nel 1930.
Quell’idea di “Presidente”
E’ che a Napoli, notò Giuseppe Marotta, ogni idea è una persona e il tempo, al pari di Ascarelli galantuomo, ha sovrapposto a lui nella vulgata cittadina l’idea par excellence del “Presidente”. E non che sia, quello del calcio, uno spazio confinato, perché “la passione calcistica a Napoli è il ponte che affratella tifosi della più varia estrazione culturale”, osserva lo scrittore Francesco Durante nel saggio ‘I Napoletani’ dove pure aggiunge che mancando a Napoli il ‘bipartitismo calcistico’ di altre grandi città, “tutti, il borghese e il camorrista, il cafone e l’aristocratico, l’intellettuale e l’analfabeta, bevono la stessa stupefacente ambrosia, e se ne inebriano allo stesso modo”.
Ambrosia, questa, che addolcisce i ricordi della nipote di Giorgio, Roberta Ascarelli, ordinario di Letteratura tedesca e presidente dell’Istituto Italiano di Studi Germanici. Lei rammenta che “chiamarsi Ascarelli a Napoli era una condizione dolce. Per la strada non c’era nessuno che ti negava un sorriso, un abbraccio, un invito”.
“Negli anni 50 – racconta all’AGI – ancora ci volevano bene, un bene di quelli che solo Napoli conosce, fatto di piccoli piaceri, inchini sontuosi, dichiarazioni fantasiose e sincere di amicizia. Con qualche senso di colpa per i beni rapinati, i lavori forzati, le fughe e la salvezza troppo a lungo provvisoria che aveva segnato la storia della mia famiglia“.
Tra colpe e tenerezza
Perché tra colpe e tenerezza, perché ci fosse e ancora c’è così diffuso affetto: “Perché dietro ogni stretta di mano insistita e convinta – dice Roberta – c’era in realtà ancora Giorgio Ascarelli. Forse nessuno ricordava più l’orfanotrofio che aveva fatto costruire, la sua azienda modello, la generosità del nuovo arrivato che vuole mettere radici in una città con pochissimi ebrei e ancor meno diffidenze. Ma che avesse fondato la squadra del Napoli, la Napoli calcio, nel 1926, che avesse costruito a sue spese lo stadio chiamato con elegante discrezione ‘Vesuvio’ e poi dopo la sua morte, ‘a furor di popolo’ dicono le cronache, rinominato ‘Ascarelli’ è cosa che nessuno aveva dimenticato. Poi lo stadio era diventato ‘Partenopeo’ come conseguenza delle leggi razziali. Ma tutti ricordavano e tutti speravano che rinascesse nel vecchio luogo e con il vecchio nome”.
Solo l’imponenza dello stadio San Paolo e la devozione a un santo approdato a Napoli (si dice) dal mare, aveva sacrificato il ricordo di Ascarelli, offuscato per dimenticanza istituzionale mai però nella popolare memoria. Quella che alla fin fine nelle cose, forse non solo partenopee, risulta più robusta. La memoria ufficiale aveva relegato “il Presidente”, si rammarica Roberta Ascarelli, “a una tristissima targa, retorica quanto periferica al centro sportivo di Ponticelli nel 2011. Noi non eravamo neppure andate ad assistere alla celebrazione di questa fragile e malaccorta ‘ricompensa’. Ora la dedica di Piazzale Tecchio, promessa dal sindaco, è una prospettiva felice”.
Sottolinea Roberta Ascarelli – poiché tra le epopee minori è quella del pallone la maggiore – che “c’è un libro sul calcio italiano e su figure sorprendenti e tragiche di ebrei che hanno guidato squadre come la Roma, il Cesena e il Napoli tra gli anni Venti e gli anni Trenta, prima delle leggi razziali”. ‘Tre presidenti’ si chiama il volume scritto da Adam Smulevich per la casa editrice Giuntina del 2017. “E parla di Sacerdoti, Jaffe, Ascarelli tracciando un’appassionante storia di ebrei integrati nel primo dopoguerra. Ha collaborato con Smulevich la nipote di Giorgio, Flavia Pantaleo, e grazie a lei sono tornate alla luce testimonianze, lettere, documenti di un illuminato benefattore così legato alla sua città e alla sua gente da condividerne speranze e passioni (e non solo quelle calcistiche). Come si faceva ora a negargli un posto d’onore almeno nella toponomastica partenopea senza toccare i santi – soprattutto quelli che, come Paolo, nell’ebraismo erano nati. E il sindaco”, conclude Roberta, “non si è fatto aspettare”.
Francesco Palmieri
fonte
agi.it