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Chi non è protezionista scagli la prima pietra

Posted by on Mar 10, 2018

Chi non è protezionista scagli la prima pietra

Davos, lo slogan condiviso dalle potenze economiche che partecipano al forum mondiale dell’economia è: “No al protezionismo”. E l’obiettivo della loro contestazione è solo uno: Donald Trump. Ma Cina e Unione Europea si sono sempre distinte, in questi decenni, proprio per le loro politiche protezioniste.

Davos, lo slogan condiviso dalle potenze economiche che partecipano al forum mondiale dell’economia (WEF) è: “No al protezionismo”. E l’obiettivo della loro contestazione è solo uno: Donald Trump. Il presidente americano ha infatti introdotto nuove tariffe protezionistiche ai danni soprattutto della Cina e della Corea del Sud, come aveva promesso in campagna elettorale. Il protezionismo mina la fiducia fra Stati, aumenta i prezzi anche per i consumatori, ha creato le condizioni ideali per il conflitto prima di entrambe le guerre mondiali. Ma nel mondo di oggi quanti sono realmente libero-scambisti? Quanti possono guardare alla pagliuzza nell’occhio di Trump prima di considerare la trave nel proprio?

Fra le potenze che stanno partecipando più attivamente alla contestazione anti-Trump c’è prima di tutto la Repubblica Popolare Cinese, la maggior danneggiata dal protezionismo americano. Le nuove tariffe riguardano infatti le lavatrici (prodotte in Corea del Sud e Cina) e i pannelli solari (prodotti soprattutto in Cina). La Cina, tuttavia, impone tariffe protezionistiche e divieti di importazione su una vastissima gamma di prodotti. Ad esempio il nostro mercato delle auto, che negli anni scorsi ha guadagnato molto grazie al mercato cinese, quest’anno ha registrato un brusco calo a causa delle nuove regole più restrittive sull’importazione delle automobili. Ai funzionari del Partito è addirittura vietato acquistare vetture straniere, per sostenere l’industria nazionale. Non è tanto la tariffa protezionistica in sé (pari al 3,2% in media) a distorcere il mercato, quanto la posizione dominante dello Stato nell’economia. Il regime controlla praticamente tutte le banche e buona parte delle grandi imprese. E’ ancora proprietario ufficiale di tutte le terre, che possono essere solo affittate (ma l’affitto è revocabile in ogni momento a discrezione delle autorità locali). Le aziende devono sottostare a regole poliziesche estremamente rigide, come quella più recente che obbliga le aziende straniere all’uso di una “cloud” nei server di un’azienda pubblica cinese per la conservazione dei dati.

Il capofila della protesta europea contro il presidente statunitense è il presidente francese Emmanuel Macron. “Cerchiamo di non essere ingenui – ha dichiarato l’inquilino dell’Eliseo – la globalizzazione, oggi, sta attraversando un periodo di grave crisi e questa sfida globale richiede uno sforzo globale”. Crisi che, però, è dovuta in gran parte proprio alle politiche protezioniste europee. Ben prima di Donald Trump, infatti, è stata l’Unione Europea, e al suo interno soprattutto la Francia e la Germania a far fallire i negoziati sul Ttip il partenariato trans-Atlantico che avrebbe liberalizzato il commercio fra Usa e paesi europei. Il nuovo trattato avrebbe potuto generare più crescita (+0,5% di Pil previsto) in un’Europa ormai stagnante, un aumento del reddito medio (+545 euro a famiglia previsti) e facilitare le esportazioni (+200 miliardi di euro previsti). Il negoziato è diventato lettera morta dopo le dichiarazioni del predecessore di Macron, il presidente socialista François Hollande: “Noi non siamo per il libero scambio senza regole. Non accetteremo mai la messa in discussione dei principi essenziali per la nostra agricoltura, per la nostra cultura, per la reciprocità nell’accesso al mercato pubblico”. E dell’ex vice-cancelliere tedesco Sigmar Gabriel: “I colloqui con gli Stati Uniti sono di fatto falliti perché noi europei, naturalmente, non dobbiamo soccombere alle richieste americane: nulla si sta muovendo in avanti”. L’opinione pubblica tedesca, soprattutto quella più sindacalizzata e quella più inquadrata nell’associazionismo ecologista, è stata la più attiva nel manifestare la sua opposizione al libero scambio con gli Usa. Sono stati soprattutto loro i maggiori produttori di “fake news” contro l’apertura al commercio con il Nord America, a diffondere le leggende nere sull’invasione dei mercati europei di prodotti Ogm, di sperimentazioni selvagge delle farmaceutiche Usa, dei polli al cloro, della carne agli estrogeni, della menzogna vera e propria secondo cui le multinazionali avrebbero potuto agire impunemente contro la volontà dei parlamenti nazionali.

L’Ue che grida l’allarme contro il protezionismo, per bocca della Francia, è la stessa che ha accettato una Politica Agricola Comune, con quote di produzione che ricordano le pianificazioni della defunta Urss. E lo ha fatto soprattutto per volontà della Francia, per la protezione degli agricoltori francesi. Il Ttip è fallito soprattutto sull’agricoltura francese, che mai ha voluto accettare compromessi. L’agricoltura nel Vecchio Continente è ormai un servizio pubblico, sussidiato dagli Stati. E’ frequente e non del tutto scorretta la battuta secondo la quale prende molti più soldi una mucca europea (due euro al giorno) di un cittadino medio dell’Africa subsahariana (meno di 80 centesimi). “Un terzo del bilancio della Commissione europea è dedicato all’agricoltura, 6 miliardi per l’Italia – denunciava il professor Guido Ponti (ordinario di Economia Applicata al Politecnico di Milano) alla vigilia di Expo 2015 – col paradosso che gli agricoltori occidentali tengono i prezzi artificialmente alti e così proteggiamo coi nostri soldi gli agricoltori ricchi e impediamo a quelli poveri di venderci prodotti a basso costo. Tutto per difendere una quota di addetti piccolissima: l’agricoltura impiega il 3% dei lavoratori europei”.

L’Ue dà l’esempio del libero scambio, ma solo al suo interno. E anche qui, solo a certe condizioni. E’ stata soprattutto l’opposizione francese, contro “l’idraulico polacco” a impedire una piena liberalizzazione dei servizi, come era prevista dalla direttiva Bolkestein del 2006, di volta in volta rinviata. Ed è stata sempre la Francia, stavolta proprio con Macron alla presidenza, a ordinare l’incredibile nazionalizzazione dei cantieri navali di Saint Nazaire, dopo che erano stati acquistati dall’italiana Fincantieri, dopo una gara regolare. Benché un arbitrato abbia dato pienamente ragione all’azienda italiana, Macron ha annunciato che la proprietà italiana sarà del 50% e il controllo sui cantieri solo temporaneo.

Sì, la globalizzazione sta attraversando un periodo di grave crisi. Ma non da oggi. E Trump è solo l’ultimo (in ordine di tempo) dei problemi.

Stefano Magni

fonte

lanuovabq.it

            

 

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