Alta Terra di Lavoro

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CHI SIAMO? di RAIMONDO ROTONDI

Posted by on Lug 9, 2020

CHI SIAMO? di RAIMONDO ROTONDI

Qualche giorno fa Claudio Saltarelli, nella sua introduzione alle “Costituzioni di Anderson del 1723”, ha evidenziato alcune apparenti contraddizioni esistenti nel nostro ambiente culturale. Nell’occasione è riemerso il dilemma ricorrente: “sapere da dove veniamo e capire cosa vogliamo essere”.

Occorre premettere che contraddizioni e confusioni, volute, sono onnipresenti già nella divulgazione ufficiale della nostra storia dove, ancora oggi, collaborazionisti degli invasori stranieri sono definiti “patrioti” e ricchissimi alto borghesi sono chiamati “popolo”, mentre il fastidioso popolo reale (brutto, sporco e cattivo) non entra quasi nella narrazione o, se vi entra, deve accontentarsi di rapide comparsate.

Sono passati 54 anni dalla pubblicazione della “Storia del brigantaggio dopo l’Unità” e 19 anni dalla scomparsa dell’autore Franco Molfese, morto il 21 luglio 2001 all’età di 85 anni.

Molti di noi hanno iniziato, proprio da quel libro, il percorso all’interno di quello che viene ancora definito con il noto pleonasmo “revisionismo storico”, coniato da chi ritiene che la divulgazione storica debba servire soltanto a confermare dogmi precostituiti, evitando con cura ogni  rivisitazione problematica, anche se basata su fonti inconfutabili.

Franco Molfese, che era un convinto marxista-leninista, ebbe il merito impagabile di portare per la prima volta alla luce le dimensioni apocalittiche della sfortunata guerra di popolo che “scrittori prezzolati”, per dirla alla Antonio Gramsci, definirono “brigantaggio postunitario”. Lo stesso Antonio Gramsci, già un secolo fa, aveva posto le prime basi della contro storia del risorgimento.

Pensando ai suddetti “padrini” e ai loro presunti discendenti ideologici, oramai irretiti dalle idee plutocratico – classiste del fu Camillo Benso, non possiamo meravigliarci se anche nel nostro variegato mondo culturale esiste una certa confusione, a volte tinta da sfumature di rosso.

Le sfumature di rosso, che dovrebbero presupporre un atteggiamento critico nei confronti del pensiero borghese, portano stranamente alla persistente ammirazione nei confronti della rivoluzione francese, che fu la più borghese delle rivoluzioni.

Nessuno sembra ricordare che il pensiero anarco-socialista ottocentesco nacque qualche decennio dopo quella rivoluzione, che aveva consegnato il potere alla tirannia di una borghesia famelica, proprio come reazione a quella tirannia e alle tremende ingiustizie sociali da essa provocate.

Ciò nonostante la rivoluzione francese è una sirena che continua ad incantare ancora tanti pensatori “sfumati di rosso”.

La contraddizione diventa ancora più evidente quando parliamo della repubblica napoletana del 1799.

Il pensiero “rosso sfumato”, che continua a definirsi schierato con il popolo, ha finito per santificare, in modo palesemente contraddittorio, i nobili e gli alto borghesi che collaborarono con gli invasori francesi e li aiutarono a massacrare il popolo, che a quell’invasione si oppose con tutte le sue forze.

A parziale discolpa di una tale voluta confusione ideologica occorre dire che la storia stessa del Regno di Sicilia – Napoli – Due Sicilie, dal 1130 alla tragica conclusione, presenta sfaccettature misteriose, enigmi labirintici, e domande che secoli di studi e intere biblioteche di libri hanno lasciato senza risposta. Sarebbe del resto assurdo pensare di poter semplificare oltre sette secoli di vicende dello Stato più grande e ricco dell’Italia preunitaria, soprattutto dopo la “damnatio memoriae” messa in atto dalla storiografia ufficiale.

Non possiamo meravigliarci, ad esempio, per tornare all’articolo di Saltarelli, della scarsa conoscenza delle interessanti teorie, soprattutto economiche, del movimento di pensiero sei-settecentesco dei cosiddetti “Novatores”, visto che è quasi impossibile trovarne traccia in qualsiasi “sfumato” testo scolastico.  Sarebbe invece interessante approfondire meglio le divergenze che li contrapposero, all’epoca, ai “Veteres” appartenenti all’ordine religioso dei Gesuiti.

Tali divergenze sembrerebbero confermare l’opinione di quanti ritengono i “Novatores” antesignani della massoneria nel Regno di Napoli e nel Regno di Sicilia.

Delle dette divergenze (apparenti ?) ho trovato traccia perfino nelle memorie del mio concittadino Filippo Giordano (classe 1834), fra l’altro in odore di massoneria, che arriva ad affermare: “Il dominio segreto ma vero, nel mondo e singolarmente in ciascuno stato, è conteso da due grandi affiliazioni – i Gesuiti e i Massoni: entrambi agiscono nelle tenebre e con gli stessi metodi, mostrano apparentemente fini diversi, ma in sostanza identici.”.

Occorre notare che anche la massoneria odierna continua a mostrare avversione nei confronti dei Gesuiti, che trovano notevoli oppositori anche all’interno della Chiesa, e, per ironia della sorte, dopo il Concilio Vaticano II, sono oggi definiti “Gesuiti Novatores”.

Le precedenti righe dovrebbero aver evidenziato, a sufficienza, che la scarsa conoscenza e la confusione regnanti nella decrittazione di fatti storici volutamente criptati esistono, e sono anche facilmente comprensibili.

Condivido, però, la necessità, manifestata da Claudio Saltarelli, di tentare di fare un po’ di chiarezza, anche se ritengo che non sarà un compito facile o breve.

Siamo i discendenti odierni di un popolo che centosessanta anni fa subì una distruzione e un crollo di portata tale che si fatica a trovare termini di paragone. La memoria inconscia di quel disastro non è stata mai cancellata; è passata in silenzio fra le generazioni, con i suoi miti, i suoi rimpianti e i suoi sensi di colpa.

Le polveri mefitiche generate dal crollo, mai diradate, aleggiano ancora sul tessuto sociale odierno dell’ex Regno, dove all’epoca persero tutti, anche quelli che parteggiarono per i vincitori.

Difficile non avvertire, fra le righe delle loro numerose memorie, l’amarezza e la disillusione.

A coloro che all’epoca s’illusero di poter vincere insieme con i nemici, e non tardarono a capire la portata del loro errore, restava soltanto la magra consolazione di un’apparente facciata di rispettabilità. Quanto poco fosse rispettabile quell’apparenza doveva essere evidente anche a loro stessi, sempre più immiseriti dal cambiamento che avevano voluto e con il quale non erano più d’accordo.

La necessità di mantenere almeno la parvenza del benessere economico spinse molti di loro a ricorrere ai mezzi più bassi e spregevoli, e a rendersi anche protagonisti delle cronache giudiziarie.

Altri sprofondarono negli stravizi e nella vita dissoluta, che falcidiarono intere generazioni di rampolli delle famiglie “bene” del nuovo decadente ordine meridionale.

Gli insorgenti non decaddero, ma caddero a migliaia sotto il piombo di un’occupazione feroce.

Altri (circa il 50% della popolazione) scelsero di lottare per conquistarsi una nuova vita, nella diaspora di un’emigrazione quasi sempre senza ritorno.

Tanti non morirono e non partirono, ma rimasero ad affrontare un terribile inverno di fame, miseria e umiliazioni, durato oltre un secolo.

Vae victis: “guai ai vinti !”. Le parole di Brenno sembravano risuonare in ogni angolo delle nostre campagne desolate, penetrando sempre più a fondo nel corpo della società sconfitta.

Il peso della “spada di Brenno” non si è mai alleggerito e l’ex Regno non è mai riuscito a trovare il suo Furio Camillo.

La storia, intanto, non si è fermata. I nipoti degli sconfitti sono stati chiamati a combattere, morire e vincere nei sanguinosi carnai della prima guerra mondiale. I pronipoti hanno immolato le loro vite nei deserti africani e nelle steppe russe, durante la seconda guerra mondiale.

“Dobbiamo mostrarci degni delle vergogne d’Italia” è la frase che Curzio Malaparte mette in bocca  a un soldato dell’appena ricostituito “Esercito Cobelligerante Italiano”, a comando inglese, formato dopo il così divulgato “armistizio dell’8 settembre 1943”, che fece seguito all’effettiva, e meno divulgabile, resa senza condizioni firmata a Cassibile il 3 settembre 1943.

In quest’ultima data l’Italia sconfitta fu posta sotto l’ombrello statunitense e la “tutela” della Gran Bretagna che, già 83 anni prima, aveva avuto un ruolo decisivo nella sconfitta del Regno delle Due Sicilie. Non cambiò molto: i discendenti di quelli che erano stati gli abitanti del Regno si trovarono, in qualche modo, di fronte a una sorta di riedizione del 1860.

I tutori continuarono a tutelare, come non avevano mai smesso di fare. La malavita organizzata si riappropriò, in modo soltanto più evidente, della consistente fetta di potere che non aveva mai abbandonato dal 1860.

Nel giugno 1946 cessò anche il regno dei Savoia, che tanti lutti e disastri avevano provocato nei territori dell’ex Regno delle Due Sicilie, dove furono, però, premiati da una sconcertante maggioranza nel referendum istituzionale. Potrebbe sembrare frutto di confusione culturale, ma forse si trattò di qualcosa di diverso.

La città di Napoli, piegata e sconfitta ottantasei anni prima proprio dai Savoia, li premiò con una maggioranza schiacciante di 903.651 voti pro monarchia contro i 241.973 pro repubblica.

Napoli consacrò alla difesa della monarchia dei Savoia addirittura la vita di molti giovani, in scontri avvenuti in Via Medina e in altre zone.

Per quanto possa sembrare strano e contraddittorio, la storia del 1860 si ripeteva: la cosiddetta “polizia ausiliaria”, che ritenne di mantenere l’ordine in quel modo cruento contro manifestanti disarmati, era composta da miliziani provenienti dal nord ai quali, di sicuro, era stato inculcato il disprezzo lombrosiano per i meridionali “affricani”, che meritavano di essere uccisi senza troppi perché.

C’è, però, anche qualcosa di poco chiaro in quegli avvenimenti.

Sappiamo che il destino dei Savoia era segnato e il referendum era “monitorato”, con attenzione dalle potenze vincitrici.

A Napoli, però, i “monitor” non funzionarono.

L’apparato repressivo ipertrofico, sproporzionato e feroce, funzionò invece benissimo.

Ho sempre pensato che Napoli, dopo le eroiche “quattro giornate” del 43, unico esempio di insurrezione popolare vittoriosa contro gli occupanti tedeschi, aveva rischiato di ricavarsi un forte ruolo politico nell’Italia del dopoguerra.

Qualcuno riteneva che si dovesse scongiurare un tale “pericolo”, per conservare ancora l’ordine stabilito dalla guerra del 1860.

Alcune eredità di quella guerra lontana stavano intanto scomparendo, insieme ai Savoia.

Il brigantaggio post unitario, ad esempio, non era mai cessato del tutto. Nel tempo si era trasformato in una sorta di “jacquerie” anarcoide e inconsapevole, che aveva comunque mantenuto per diverse generazioni il controllo delle zone rurali e montane più remote e inaccessibili.

La vicenda storica del brigantaggio post unitario si disciolse infine nei fatti della seconda guerra mondiale, finendo per cessare definitivamente soltanto in contemporanea con il tramonto della monarchia sabauda. La strana coincidenza storica ha sempre colpito la mia fantasia.

Tornava, intanto, più feroce che mai, l’altra piaga prodotta dalla guerra del 1860: l’emigrazione.

I territori del fu Regno vedevano di nuovo interi paesi quasi svuotarsi. Si partiva per il nord, per le miniere belghe o francesi, per l’Inghilterra, per gli Stati Uniti, per le foreste canadesi… Si partiva.

Gli “intellettuali antifascisti” del dopoguerra restavano e scrivevano.

Alcuni di loro dovevano far dimenticare di essere stati anche intellettuali del passato regime.  

Nello zelo trasformista attaccavano, quindi, tutto quello che poteva sembrare fascista, non risparmiando la pesantissima e ridondante retorica risorgimentale adottata dal fascismo.

Nel periodo di contestazione “sessantottino” i prolissi racconti finto aulici di “martiri”, “ideali” e “bandiere al vento” erano poi considerati alla stregua di obsolete baggianate.  

I programmi scolastici continuavano, però, a seguire il vecchio stile. Ricordo ancora bene, dei tempi delle elementari,  le gesta di un eroico “popolo” di soli Conti e Marchesi con l’hobby dei “moti” sconclusionati dall’esito disastroso. Ricordo anche che i Briganti erano tutti Calabresi e “scorrevano le campagne”, apparentemente senza motivo, quando non venivano assoldati dai preti e dai “Borboni” per “terrorizzare i contadini” (sic). I “Borboni” erano, a seconda dei casi, comiche macchiette o ferocissimi tiranni che tenevano in pugno in pugno il popolo con le “tre effe”: feste, forche e farina. Nonostante la mia tenera età avvertivo tutta la bizzarria di quella stramba “ricostruzione storica”.

Dovevano, però, passare ancora molti anni prima che mi capitassero fra le mani pubblicazioni di orientamento diverso.

Franco Molfese aveva pubblicato “Storia del brigantaggio dopo l’Unità” il 1° gennaio del 1966. A me capitò di leggerne una copia soltanto nel 1982, mentre prestavo servizio militare a Palmanova. Nel 1984 fu pubblicato “Il Brigante Chiavone” di Michele Ferri e Domenico Celestino, che parlava di fatti avvenuti proprio nelle mie zone. I Briganti tornavano sulla scena, anche se nel ruolo un po’ ambiguo dei “cattivi parzialmente giustificati” nell’ambito della narrazione risorgimentale ortodossa.

Era nata nel frattempo, in quel di Bruxelles, l’idea di un’Europa formata da “regioni storiche” nelle quali la memoria doveva essere incentivata e finanziata, al fine di togliere terra sotto i piedi ai fastidiosi stati sovrani.

I finanziamenti fecero sorgere dappertutto, anche in Italia, alcune fra le più improbabili “regioni storiche”. Tutti ricordano la mai esistita “Padania” e la rievocazione delle sue improbabili radici storiche, in un tripudio sconcertante di simil-kilt e presunte “tradizioni celtiche”.

Non andò meglio a noi ex regnicoli dell’Alta Terra di Lavoro che, per essere stati aggregati amministrativamente alla Provincia di Frosinone, nel 1927, ci trovammo aggregati anche alla denominazione “Ciociaria”, fra l’altro priva di effettive radici storiche anche nella parte nord, ex Stato Pontificio, del territorio provinciale. Una calzatura agro-pastorale arcaica, utilizzata per millenni in un’areale vastissimo, divenne il presunto simbolo culturale di una zona che avrebbe potuto vantare ben altro passato (Cicerone, Caio Mario, San Tommaso D’Aquino, i Papi d’Anagni, ecc.). Fummo sommersi da “costumi tipici” inventati di sana pianta in epoca fascista, da ricette culinarie prese chissà dove, da mai esistiti “saltarelli ciociari”, da tutta la paccottiglia propinata da chi pretendeva di spacciare per cultura un finto folklore di cartapesta. In quel bailamme restarono coinvolti anche i più politici dei nostri insorgenti post unitari che divennero, loro malgrado, “briganti ciociari” e si ritrovarono ad essere confusi con le vicende di banditismo e ribellismo sociale avvenute nei primi decenni dell’ottocento nelle Province di Campagna e Marittima dello Stato Pontificio.

Travisamenti storici simili accaddero anche in altre zone d’Italia. Nella migliore delle ipotesi si assistette, un po’ dappertutto, alla messa in scena di una versione edulcorata, consolatoria e intellettualizzata della storia e delle tradizioni dei luoghi. Un malinteso senso del decoro, generato dall’apparente progresso sociale post “boom economico”, spingeva molti a rinnegare le vere tradizioni dei nonni, o addirittura dei padri, perché ritenute poco presentabili e “politically correct”.

Qualcosa di “inquietante” avvenne, invece, nei territori dell’ex Regno, dove bastò poco per risvegliare tutto ciò che non era mai morto. Uno sterminato patrimonio di tradizioni secolari, musicali e culinarie tornò prepotentemente alla ribalta, facendosi largo fra risibili tentativi edulcoranti. Pizziche, tarantelle, tammurriate, ballarelle e spallate riconquistarono la scena musicale, fino a dare origine a veri fenomeni di massa. Il movimento di memoria culturale divenne sommovimento. Tornò, naturalmente, anche il ricordo dei mai dimenticati “Briganti”, vero mito eroico di una cultura che, nonostante tutto, non ha mai rinunciato alla sua identità.

In tanti iniziarono a scrivere di “Brigantaggio”, anche se non sempre con risultati apprezzabili.

Alle poche opere di elevata qualità si affiancavano spesso scopiazzamenti rudimentali “alla meno peggio”, veri trattati  involontari di confusione storica e culturale.

La pessima qualità di alcuni scritti è stata, però, provvidenziale. Alcuni storici, veri, hanno trovato proprio in essi lo stimolo per fare di meglio, divulgando quanto continuava ad emergere dagli archivi e da ricerche effettuate con vero metodo. Artisti vari hanno fatto di tutto per recuperare, il più fedelmente possibile, musiche ed espressioni linguistiche del passato. In quest’ultima fase s’inseriscono le nostre vicende personali, e la vicenda della nostra Associazione.

Chi siamo, dunque?

La risposta, a mio parere, è contenuta nella domanda stessa.

Siamo quelli che cercano di capire chi siamo, qual è la vera storia della nostra gente e quali sono le nostre vere radici culturali.

Saperlo è la premessa per capire dove vogliamo e possiamo andare.

Siamo, però, anche consci dei nostri limiti e del fatto che tanti anni di depistaggio storico, hanno reso quasi indecifrabili alcuni avvenimenti del passato.

Mi piace, a questo punto, citare la frase ascoltata da un anziano agricoltore molti anni fa: “Ci hanno raccontato per talmente tanto tempo che Cristo è morto di freddo, che alla fine abbiamo cominciato a crederci.”

Arpino, 07/07/2020

Raimondo Rotondi

2 Comments

  1. La cosa più pericolosa è commetere errori di interpretazione. A me l’Inno di Mameli non piace, ma non ci classifica “schiavi di Roma”, è la vittoria che è schiava di Roma. Io sono nato nell’Alto Casertano, Giurisprudenza ed abilitazione forense a Napoli, studi ginnasiali al collegio di Montecassino, lavoro in giro per tutto lo Stivale! Non so chi sono. Però so cosa ho sempre voluto: il riscatto del nostro Mezzogiorno, non certo con il ritorno del Regno, inattuabile, ma facendone apprezare la gestione e sconfessando le menzogne dei vincitori!

  2. La chiusa è bellissima: “Cristo è morto di freddo”!..da ridere per non piangere. Vale per tutti i popoli oggi costretti a marciare, dietro un tricolore importato e adattato, cantando che siamo “schiavi di Roma”…ma Iddio ci ha creati liberi e dobbiamo cercare in tutti i modi di tornare ad esserlo! Io che sono veneta la penso così, per questo sono vostra amica. caterina ossi

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