Civitella del Tronto la storia, la fortezza, l’epopea di Gianandrea de Antonellis
Introduzione
Questo non è propriamente un saggio storico. Si tratta piuttosto di atto d’amore, sotto la forma di un saggio romanzato, per la terra dalla quale sono venuti i miei avi e per un’epopea che poche altre volte, nella storia d’Italia e d’Europa, è stata tanto fulgidamente espressa.
Civitella del Tronto non è soltanto un luogo storico, un nome negli annali militari, una meta turistica interessantissima. Civitella è soprattutto un simbolo, oserei dire un mito.
Civitella del Tronto e la sua vicenda vanno infatti ben oltre i propri confini storici e geografici: l’eroica e disperata difesa dei soldati borbonici tra il 1860 ed il 1861 è un simbolo di tutte le battaglie condotte contro un nemico preponderante, senza la speranza di vincere, ma con la certezza di essere dalla parte giusta, di combattere per l’Onore, incuranti delle conseguenze: della morte, della cancellazione dalla memoria, dall’esclusione dalla vita sociale, dall’infamia che ricoprirà sopravvissuti e scomparsi.
Affrontare il pericolo della non esistenza, insomma. Chi ha combattuto a Civitella, in tutte le Civitelle della storia, non può essere ricordato, ma nemmeno demonizzato (il pericolo che la verità venga a galla è troppo forte): deve essere cancellato, deve risultare come mai esistito.
Civitella è soprattutto questo: un buco nella storia. Inviso agli studiosi liberali come a quelli marxisti: per i primi è il segno che la popolazione degli Stati “liberati” dall’avanzata garibaldino-piemontese si trovavano benissimo sotto il precedente governo; per i secondi è una atroce smentita della teoria secondo la quale qualsiasi azione è dovuta a motivazioni economiche (quale convenienza c’è nell’andare a combattere una battaglia già persa?). Ergo: Civitella non è mai esistita, è inutile menzionarla nei testi scolastici.
Ecco perché chiunque, in qualsiasi modo venga a conoscenza dei tragici ed eroici fatti che si consumarono fino al 20 marzo 1861 in questa contrada abruzzese, non può che rimanerne incantato. Nascostagli dai libri di storia, come qualcosa di cui ci si vergogna, anziché andare fieri, la vicenda di Civitella appare a chi la incontra più come una fiaba o una leggenda che un episodio realmente accaduto.
Ed è come se anche gli stessi protagonisti di quel mitico – in tutti i sensi – assedio avessero a loro volta vissuto in un’atmosfera da favola, staccati dalla realtà che li circondava – o per lo meno ad essa indifferenti.
Si può combattere fino allo stremo contro un nemico preponderante? Si può resistere oltre ogni umana sopportazione nella speranza che giunga dall’esterno un aiuto? Si può credere che un esercito sconfitto nel corso di una fulminea campagna, incapace di resistere alle bande raccogliticce di Garibaldi, sfibrato dai tradimenti di molti ufficiali e demoralizzato dalle vicende militari, decimato dai bombardamenti e dalle epidemie di tifo a Gaeta, improvvisamente ritrovi il suo pieno vigore, si riunisca, si dia nuovi comandanti e si batta contro il potente esercito piemontese, forgiato nella guerra di Crimea e sostenuto da una politica militarista (i cui costi sarebbero stati sopportati dalle popolazioni dei Paesi occupati, ma questa è un’altra storia)?
Evidentemente, no. Eppure i soldati rinserrati nella fortezza di Civitella del Tronto continuavano a combattere come se da un momento all’altro alle spalle degli assedianti piemontesi fossero dovuti apparire non singoli gruppi di soldati raccogliticci e di brigati, ma intere divisioni inquadrate sotto la bandiera bianco-gigliata.
Questo fa dell’assedio del 1860-61 una vera e propria epopea, non un semplice episodio, sia pure eroico, della storia militare.
E questo fa di Civitella del Tronto un mito che va oltre l’estrema difesa del regno borbonico, ma può essere a ragione considerato come un simbolo riguardante ogni lotta – politica, culturale, militare, ideologica – combattuta con la consapevolezza della sconfitta, ma con la certezza di essere dalla parte giusta.
I soldati di Civitella sono i fratelli maggiori di quelli che si batterono all’Alcazar di Toledo. Furono però più disperati, si batterono con minore speranza, anzi, “Senza Speranza”, come scrissero sulla bandiera della guarnigione.
E per questo sono ancora più nobili.
Prima dell’assedio
Civitella del Tronto si crede sorga sull’antica area della picena Beregra. L’attuale città è posta sul versante meridionale di una eminente sperone roccioso di travertino, all’altezza di 590 metri; le sue origini sono oscure, ma probabilmente deve la sua nascita alla necessità di difendersi da un lato dalle invasioni barbariche, dall’altro dal pericolo saraceno.
Caduta ben presto sotto il dominio normanno e quindi passata agli Svevi, Civitella viene ricordata nel 1255, quando durante gli scontri tra Papato e Regno di Napoli, gli Ascolani l’assediano, nell’ambito di una lotta contro Teramo per la supremazia sul territorio intorno al Tronto.
Quando agli Svevi succedono gli Angioini, la posizione strategica di Civitella – posta al confine con gli Stati della Chiesa – viene valorizzata e Carlo I ne ordina l’immediata fortificazione. Durante la Guerra del Vespro Civitella diviene, assieme ad altri paesi vicini “passo”, ossia stazione daziaria (ma sarà con l’avvento degli Spagnoli che la funzione militare di Civitella viene esaltata, con la costruzione della fortezza tra il 1564 e il 1576).
Intanto la città fortificata continuava a prosperare: già sotto Roberto d’Angiò (1309-1343), si era arricchita del nuovo Palazzo Comunale, del Convento e della Chiesa di S. Francesco (1326), della Chiesa di S. Maria degli Angeli (1330) e del Convento e della Chiesa di S. Chiara (1338-1344).
I problemi, per Civitella, insorgono sotto il regno di Giovanna I (1327-1382), nipote di Roberto d’Angiò: il Re d’Ungheria Ludovico scende attraverso le Marche, desideroso di vendicare la sospetta morte del fratello Andrea, primo consorte della Regina angioina, e si assicura il possesso di Civitella. Quindi raggiunge Napoli, costringendo Giovanna a fuggire in Provenza; il dominio ungherese dura solamente quattro mesi a causa dell’ostilità del popolo meridionale e della peste e così ritorna la Regina, che regnerà un altro trentennio.
Papa Urbano VI, però, nel 1381 la detronizza a favore di Carlo III del ramo di Durazzo (1381-1386) che regna per soli cinque anni con l’ulteriore responsabilità della corona di Ungheria; lascia, dunque, al giovane figlio Ladislao (1376-1414) una terra profondamente ferita dalla guerra civile e questa difficile situazione interna induce Civitella a stringere alleanza con gli Ascolani (Lega del 1387).
Sotto il governo disordinato della sorella Giovanna II (1373-1435), che gli subentra nel 1414, si registra un aspro dissidio fra Campli e Civitella che richiama l’attenzione persino del Papa Eugenio IV.
Con il successore angioino Renato (1409-1480), il Regno – già vulnerabile – viene attaccato e diviso da Alfonso d’Aragona che conquista e controlla Civitella fino al 1438. Francesco Sforza, signore di Milano, si riappropria poi di questa terra e ne assicura il dominio all’angioino per cinque anni, ma oramai il dominio francese è agli sgoccioli. Infatti nel 1443 Alfonso si garantisce interamente il nuovo Regno e, dopo aver sconfitto Sforza, nel 1445 visita i confini settentrionali e ordina la trasformazione di Civitella in poderosa Piazzaforte.
Il figlio Ferdinando I (o Ferrante, 1423-1494) viene alleggerito della responsabilità del Regno di Sicilia che il Re uscente lascia al fratello Giovanni, Re di Navarra, e i rimanenti possedimenti vengono da lui visitati e valutati in vista di una probabile ed imminente guerra con la Francia. Sotto la protezione del primogenito Alfonso, Duca di Calabria, mette anche Civitella, come fedele presidio di confine; e quando questi nel 1494 eredita un regno in tempesta, a causa della ribellione della classe baronale, è proprio sul confine settentrionale che corre per assicurarsi la fedeltà dei locali e a far muovere in suo favore i vicini Ascolani contro l’agguerrito esercito del Re francese Carlo VIII.
I successi del nemico sgomentano Alfonso che, in un estremo tentativo di rinvigorire il Regno, abdica – il 22 Gennaio 1495 – in favore del figlio Ferdinando II. Durante l’invasione francese anche Civitella ha la sua parte di morte e dolore con l’aggravante di una insurrezione civile contro gli avidi amministratori aragonesi, agevolata dalla caotica presenza nemica. La rivolta civitellese mira, ovviamente, alle mura e ai torrioni aragonesi del versante settentrionale e, mentre Ferdinando II dopo aver regnato per soli 29 giorni è costretto alla fuga, i civitellesi passano per filofrancesi.
La supremazia della Francia ingelosisce gli Stati italiani che riuniti il 31 marzo nella Lega di Venezia chiamano in loro aiuto la Spagna, l’Inghilterra e l’Imperatore Massimiliano I d’Asburgo e così, in poco tempo, Ferdinando II torna nella Capitale. Civitella ha, ovviamente, bisogno del perdono del Re per tornare in possesso dei privilegi passati e manda a corte i migliori ambasciatori; la sua posizione la favorisce ma i tempi sono comunque tristi con i francesi che spadroneggiavano e con la prematura morte di Ferdinando II che porta al potere lo zio Federico che, pur dimostrandosi abile e prudente, non immagina certo il patto segreto fra Luigi XII di Francia e Ferdinando II il Cattolico di Spagna.
L’obiettivo di queste due potenze è quello di spartirsi le regioni del Reame napoletano; a un tale tradimento spagnolo Federico risponde con una resa totale alla Francia, il 25 Luglio 1501, nelle cui terre va a morire. Questo atto riapre le ostilità tra le due potenze europee; entrambe decise a non rinunciare ai possedimenti italiani, si trascinano per anni in una guerra feroce che colpisce soprattutto i loro sudditi. Civitella, nel 1528, vive una replica del barbaro saccheggio fatto dai Lanzichenecchi a Roma nell’anno precedente, organizzato a loro danno dai francesi di Francesco I; ma la Francia nulla può contro il grande Carlo V, nipote di Ferdinando II il Cattolico e di Massimiliano I d’Asburgo, re di Spagna e Imperatore d’Austria e Germania. Solo le enormi responsabilità riescono a logorare nel tempo l’Asburgo che nel 1556 abdica in favore di Filippo II al quale consegna la Spagna e il regno di Napoli, e del fratello Ferdinando al quale cede la corona germanica.
Sotto il grande Imperatore i civitellesi si fanno carico di ingenti alloggiamenti militari e partecipano numerosi, nel 1547, alla lotta contro i Luterani come volontari; tutto ciò fa guadagnare loro il titolo di “nobiles cives” (nobili cittadini) e la garanzia di conservare i privilegi fiscali ottenuti sotto gli Aragonesi. Civitella è inoltre protagonista di un’eroica resistenza ai francesi, dal 22 Aprile al 16 Maggio 1557; questo la rende necessaria agli spagnoli. La sua posizione strategica sul confine spinge Filippo II alla rapida decisione di realizzare, sui resti della fortificazione aragonese, un’imponente fortezza che arriverà ad occupare una superficie di quasi 25.000 metri quadrati. Il progetto spagnolo si traduce in un decennio di lavoro per l’intera popolazione e in un permanente vantaggio economico assicurato dalla presenza di un’ingente guarnigione militare e delle relative famiglie.
Nel 1576 la fortezza è operativa ma la condizione di lontana colonia spagnola, nella quale il reame napoletano si trovava già dal 1505 (e che conserverà fino al 1734), acuisce i vecchi problemi economici. Il malessere diventa cronico nel XVII secolo, anche sul piano politico, e lo dimostrano i moti popolari come quello di Masaniello nel Luglio del 1647; la Spagna ne esce fortemente indebolita. Quando nel 1665 a Filippo IV succede il figlio Carlo II, di appena quattro anni, il ramo degli Asburgo di Spagna si avvia all’estinzione; la madre del piccolo Re, Marianna d’Austria, si mostra palesemente inesperta e il suo debole governo aggrava gli enormi problemi della Spagna. A soffrirne di più sono i sudditi del vicereame napoletano che, oramai abbandonati a se stessi, sono flagellati da carestie e epidemie e terrorizzati da un banditismo dilagante.
Carlo II muore senza eredi nel 1700 e – per testamento – gli succede Filippo di Borbone, Duca d’Angiò, con il nome di Filippo V; la sua nomina scatena in Europa un’aspra guerra di successione con l’Austria. Il Trattato di Utrecht (1713) riconosce la corona di Spagna a Filippo V e lascia il Regno di Napoli agli Austriaci che lo occupano già dal 1707. Così, fino al 1734, la fortezza di Civitella, come quella di Pescara e dell’Aquila, è un presidio dell’esercito austriaco; in questo periodo vengono revocati molti privilegi fiscali e, di contro, viene imposto l’onere di vettovagliare le forze militati che vi stanziano e si registra – inoltre – un calo demografico di quasi un terzo dei residenti. Nel 1733 Filippo V approfitta della guerra tra la Francia e l’Austria per riportare il suo esercito nel napoletano; il 14 Maggio del 1734 il figlio Carlo viene dichiarato Re di Napoli con il nome di Carlo VII. Le truppe austriache lasciano Civitella il 16 Agosto, dopo un feroce assedio durato fino al 4 Agosto; inizia così la dominazione borbonica che verrà interrotta prima dalla Repubblica Partenopea (23 Gennaio – 13 Giugno 1799) e poi dalla seconda occupazione napoleonica (1806 – 1815). Per ciò che interessa Civitella nel Dicembre del 1798 cade con disonore in mano francese, mentre l’assedio che si conclude il 22 Maggio del 1806 è un trionfo di coraggio e fedeltà militare, a partire dal Governatore militare, l’irlandese Matteo Wade. Sul trono napoletano si succedono Ferdinando IV (chiamato Ferdinando I dopo il Congresso di Vienna), Francesco I e Ferdinando II sotto il quale gli ideali della rivoluzione francese danno vita alla prima guerra d’indipendenza (1848 – 1849).
Il malcontento popolare acquista toni politici e si prepara il terreno per il compimento dell’unità d’Italia; nel 1859 Francesco II eredita un Regno che ha oramai i giorni contati. L’esercito di Vittorio Emanuele II di Savoia stringe d’assedio Civitella dal 26 Ottobre 1860 al 20 Marzo 1861 e la sua testarda resistenza al corso della storia la rende l’ultima roccaforte borbonica a piegarsi all’invasore piemontese. La resa per Civitella si trasforma in un metodico smantellamento della fortezza grazie ad un bombardamento a freddo, con l’intento di spegnere il fuoco della resistenza filoborbonica. Ma sul piano generale della storia unitaria il Regno di Francesco II finisce il 13 Febbraio con la caduta di Gaeta; la resa viene suggellata il 17 Marzo con la proclamazione in Parlamento, a Torino, del regno d’Italia. Perciò quando cade Civitella, il 20 Marzo, l’evento non acquista grande rilevanza storica; per i civitellesi è sicuramente l’inizio di un declino economico che li costringerà ad emigrare, trasformando una nobile Città in un anonimo paese della Provincia di Teramo.
La fortezza per la sua posizione ha subito numerosi assedi, ma quello che è passato maggiormente alla storia è l’assedio del 1860-1861, conclusasi con la resa del 20 marzo 1861, ultima roccaforte borbonica a piegarsi alla nascente unità d’Italia.
La fortezza
La fortezza di Civitella del Tronto domina il sottostante borgo ed è considerata una delle più importanti piazzeforti del Viceregno napoletano per la sua fedeltà e per la sua inattaccabilità. In Europa è addirittura la seconda fortezza per grandezza: si estende per 500 metri di lunghezza e copre una superficie di 25.000 mq.
I primi insediamenti difensivi risalgono intorno all’anno Mille, ma fu nel periodo angioino a diventare strategicamente importante (per via del confine che presidiava) ed in quello aragonese-spagnolo a prendere la forma attuale. Nel 1557 resistette a lungo all’assedio portatole da Francesco di Lorena, Duca di Guisa. Immediatamente dopo la città fortificata fu munita dell’attuale fortezza e nel 1589 Cittadella fu elevata al titolo di città da Filippo II di Spagna per aver sopportato il lungo attacco da parte dei Francesi.
Proprio per la sua posizione strategica assunse col tempo una specifica funzione militare, diventando il più importante baluardo del Regno delle Due Sicilie. Nel 1798 fu nuovamente assediata dai Francesi ai quali il comandante spagnolo della fortezza Giovanni Lacombe si arrese senza opporre resistenza. Nel 1806 sostenne un nuovo assedio da parte dei francesi e venne strenuamente difesa dall’irlandese Matteo Wade prima di capitolare onorevolmente.
Dopo l’eroica resistenza, conclusasi con la resa del 20 marzo 1861, venne smantellata dai Piemontesi, che temevano diventasse un simbolo (e un punto di appoggio) per la guerriglia antiunitaria.
Nonostante la sua importanza architettonica e storica, venne restaurata parzialmente solo a partire dalla fine del XX secolo, dopo oltre cento anni di oblio.
Una visita
All’interno della fortezza, partendo da est, si trovano due piazze d’Armi, al di sotto delle quali erano presenti le cisterne che filtravano l’acqua piovana.
Più avanti si trovano la Chiesa di S. Giacomo, che un tempo occupava solamente la parte superiore dell’edificio mentre la parte inferiore ere adibita a magazzino, e il Palazzo del Governatore, che ospitava i Governatori spagnoli responsabili del Forte.
Continuando la visita si trovano gli alloggiamenti della truppa e negli antichi locali delle cucine e della mensa oggi si ospita il Museo Storico della Fortezza
La Fortezza, così come strutturata oggi, nasce comunque più tardi, esattamente a partire dal 1559 (dopo, quindi, la vittoriosa resistenza ai soldati francesi capitanati dal Duca di Guisa), sotto il regno di Filippo II di Spagna: le preesistenti fortificazioni angioine ed aragonesi vengono completamente demolite in quanto superate dalle nuove tecniche militari d’assedio (l’uso, cioè, dei cannoni) che necessitavano, come risposta, di mura di cinta molto spesse ed inclinate per attutire l’azione dirompente della palla di ferro.
Dal punto di vista architettonico il Forte di Civitella può essere suddiviso, per comodità didattica, in due parti: una difensiva ed una abitativa (per soli militari). La parte difensiva era concentrata tutta sul versante est del Forte, quello cioè meno aspro naturalmente e quindi più esposto agli attacchi all’arma bianca da parte del nemico.
Tale difesa si organizzava con una sequenza di tre camminamenti coperti che rappresentavano degli imbuti dove gli assalitori dovevano necessariamente passare se avessero voluto conquistare la Fortezza. Sotto i camminamenti un manipolo di difensori, dal numero progressivamente decrescente man mano che si saliva verso l’acropoli, presidiava la rampa vicina e impediva, con un fuoco di sbarramento dalle feritoie, che gli assaltatori che avessero preso le postazioni precedenti potessero ulteriormente procedere.
Strutturalmente il primo camminamento coperto si caratterizzava per la presenza di un fossato, sovrastato da un ponte parzialmente levatoio, da un enorme camino per il riscaldamento delle sentinelle e da una scala a chiocciola in travertino che permetteva la rapida ascesa verso la batteria dei cannoni posizionata sopra il bastione. Fra il primo ed il secondo trinceramento, sulla destra per chi sale, era posizionato il “calabozo del coccodrillo”; era la cella di rigore, di punizione di aragonesca memoria dove la dicitura “del coccodrillo” si riconduceva alla forma di tortura del prigioniero che si vedeva allagare la stanza fino all’altezza del proprio collo. Ciò non accadeva in questo carcere della Fortezza che non era posizionato – come accadeva solitamente nei castelli aragonesi – sotto il livello del fossato allagato, ma questa dicitura serviva comunque come monito alle stesse popolazioni della zona, come invito a non “agitarsi” troppo, confermando quindi anche il ruolo di calmieratore dei confini esercitato dalla guarnigione civitellese.
Varcato il secondo camminamento coperto si entra nella prima piazza del Forte, denominata “del Cavaliere” da una vecchia leggenda, piazzale utilizzato per l’addestramento delle truppe, analogamente a quanto accade nelle odierne caserme; questo ovviamente in tempo di pace mentre in caso di assedio questa piazza integrava i camminamenti nella difesa del versante est in quanto il nemico, pur riuscendo eventualmente ad entrarci, si trovava sottoposto al fuoco di fiancheggiamento dagli spalti superiori senza possibilità di nascondersi.
In questo sito, fino al 1861, campeggiava un monumento marmoreo funebre dedicato a Matteo Wade, eroico comandante di origine irlandese della Fortezza nel 1806 durante l’assedio sostenuto contro i francesi di Gioacchino Murat, fatto erigere da Francesco I e posizionato qui nel 1829: purtroppo l’esercito piemontese con lo scopo di farne bottino di guerra lo smontò e lo portò con se e, solo dopo molti anni, da Ancona tornò a Civitella; oggi lo si ammira in Largo Rosati, lungo il Corso principale del sottostante paese.
La parte difensiva della Fortezza si completava con il terzo camminamento coperto, varcato il quale la stessa si poteva considerare conquistata. In effetti mai nessuno riuscì militarmente nell’impresa di irrompere fin su all’acropoli del colle; quando la guarnigione cedette fu – quasi sempre – per contingenze politiche che convinsero i difensori ad abbassare le armi: non a caso lo stemma cittadino con le cinque torri è sovrastato dalla emblematica scritta “Civitas Fidelissiva” – Città Fedelissima”.
Entriamo, quindi, nella seconda parte del monumento, la caserma vera e propria. Subito si può notare la cappellina dedicata a S. Barbara, la protettrice degli artiglieri, e – sulla sinistra – la Campana Faro, ricordo dei caduti nelle due ultime guerre mondiali. Si giunge così alla seconda piazza d’armi, quella che ogni giorno veniva utilizzata per la cerimonia dell’alzabandiera.
È qui che si deve fare un importante discorso architettonico che dimostra l’origine spagnola della struttura. Gli spagnoli, infatti, erano particolarmente “fissati” sul problema dell’approvvigionamento idrico per cui gli architetti ed ingegneri iberici anche a Civitella applicarono le stesse tematiche costruttive usate in madrepatria. Ecco spiegata la presenza di ben cinque cisterne per la raccolta e la purificazione dell’acqua piovana. In questa seconda piazza c’è – appunto – il primo enorme serbatoio; si può notare come il piazzale sia suddiviso in due porzioni a forma di imbuto che permettono all’acqua di entrare nel sottosuolo attraverso due aperture oggi protette dalle grate in ferro. Sotto sono presenti due locali sovrapposti di cui il superiore conteneva alcuni strati di ghiaia e carbone che filtravano la pioggia e la facevano scendere, attraverso alcune aperture sul fondo, purificata nel secondo locale dove si accumulava: così, dal pozzo centrale, dall’alto, si poteva prendere acqua fino al necessario. Ancora oggi le cisterne raccolgono molta acqua e non deve ingannare l’aspetto attuale del pozzo dal quale, negli anni in cui la Fortezza era ridotta ad un rudere, sono state gettate pietre, sassi e quant’altro hanno ostruito la parte centrale della cisterna. Lasciando la piazza si sfilano, innanzi tutto, i resti degli uffici e delle furerie e – in sequenza – i grandi magazzini viveri, prima della distruzione coperti dalla terza enorme piazza d’armi.
Giunti all’acropoli, nel punto più alto della Fortezza a 650 m, possiamo immediatamente notare la magnifica visuale e il colpo d’occhio d’intorno.
Questa è, come dicevamo, l’ultima piazza del Forte, la “Gran Piazza” come veniva chiamata proprio perché quella di maggior superficie; qui ritroviamo la seconda cisterna per la raccolta dell’acqua piovana. Nel punto più alto era ubicato il comando della Fortezza, rappresentato materialmente dal Palazzo del Governatore.
La presenza del Governatore militare si spiegava con l’esigenza degli spagnoli di controllare in prima persona, senza delegare ai poco fidati funzionari italiani, il controllo di questa zona di confine. Il palazzo, inaugurato nel 1574, era un enorme edificio con i suoi due piani e un sottotetto; all’interno c’era tutto ciò che lo potesse rendere autonomo rispetto al resto del complesso militare ossia propri magazzini viveri, proprio panificio, propria cisterna per l’acqua piovana e così via. Molto probabilmente ospitava non solo il Governatore ma anche tutta la sua famiglia, comprese quindi quelle figure femminili mancanti, ovviamente, nel resto del Forte. Notazione interessante è che questa ubicazione del Palazzo nel punto più alto dimostra la concezione rinascimentale del complesso: la filosofia costruttiva alla base era quella di rendere visibile a tutti il potere della Spagna nella zona, esemplificato dalla presenza del Governatorato.
Questa scelta, però, rese assai vulnerabile – nel passare dei secoli – questa struttura che essendo la più visibile era anche quella – conseguentemente – più esposta al fuoco sempre più potente e preciso degli assedianti.
Lo stretto connubio fra potere politico-militare e religioso (presente sempre negli Spagnoli, ferventemente cattolici) si sostanziava con la presenza, accanto al Palazzo del Governatore, della più importante Chiesa del Forte, quella di S. Giacomo.
Terminata ed inaugurata nel 1604 fu dedicata – come detto – a S. Giacomo della Marca, figura religiosa di spicco nella zona a cui va il merito di aver ristrutturato il locale Convento Francescano di S. Maria dei Lumi. Oggi questo edificio si presenta fortemente modificato rispetto all’originale, a partire dal pavimento attualmente sostenuto da una struttura in acciaio posticcia, un tempo invece realizzato in pietra locale. L’altare si presentava orientato verso ovest (particolarità di questa Chiesa) e sono ancora visibili i resti delle nicchie per il tabernacolo. Il tutto si completava, verso l’alto, con una doppia volta a crociera. Sulle pareti non si ritrovavano affreschi ma c’era un intonaco, stuccato superiormente con fasce alternate bianche e rosse (ricordiamo qui che tutti gli edifici della Fortezza erano intonacati sia internamente che esternamente). Questa Chiesa, come quasi tutti gli edifici di culto, fungeva – prima dell’Editto Napoleonico di Saint-Cloud del 1804 che impose la costruzione di cimiteri fuori dalla cinta muraria delle città – anche come luogo di sepoltura per quei militari morti in servizio a Civitella: ecco spiegata la presenza di tre fosse comuni (due sono in prossimità della porta d’ingresso, segnalate da due croci sul pavimento, la terza ancora aperta in prossimità dell’altare che contiene visibili resti dei soldati ivi sepolti). Sulle pareti odierne della Chiesa abbiamo collocato gli stemmi delle più importanti casate europee compresi nell’emblema del Regno delle Due Sicilie.
Usciti nuovamente all’aperto ed infiltratisi poi nel pertugio che passa sotto il Palazzo del Governatore arriviamo nel locale ubicato sotto la Chiesa. I siti che si percorrono erano un tempo tutti magazzini coperti, collegati con quelli situati sotto la Gran Piazza. La spiegazione risiede nella necessità di mettere in contatto tutti questi locali con l’uscita secondaria dal Forte, posizionata qui affinché si potesse uscire e arrivare – nel più breve tempo possibile – alla Montagna dei Fiori per rifornirsi di bestiame e, soprattutto, di legname, fondamentale elemento naturale utilizzato sia per la combustione sia come materiale da costruzione.
Il fatto che si andasse a prendere la legna così lontano dalla Fortezza risiedeva nel fatto che nelle vicinanze della fortificazione era assolutamente vietato piantare alberi che potessero ostruire la visuale ai difensori per cui in un raggio di qualche chilometro c’era assoluta mancanza di vegetazione. Fuoriusciti dai magazzini si entra nel Corso principale, la via dove si svolgeva la vita extra militare del Forte. Quelli che si vedono dinanzi a noi sono i resti degli alloggiamenti della guarnigione (per dare un’idea del numero di soldati, basti ricordare che al momento della resa definitiva, nel 1861, erano presenti 513 uomini); quelli sulla destra, ad un piano, erano destinati alla truppa mentre quelli di sinistra a due piani non comunicanti ai sottufficiali. All’inizio di questo viale è possibile notare la presenza del panificio e, a terra, della pavimentazione originale, molto meglio conservata nonostante gli anni di quella – moderna – delle piazze.
A proposito di pavimentazione è utile ricordare che tutto il Forte è stato sempre pavimentato, a differenza delle strade del paese sottostante in terra battuta, proprio per la necessità di convogliare nelle cisterne l’acqua piovana. Al centro del Corso è visibile la quarta cisterna che raccoglieva l’acqua dei pluviali delle case circostanti. Trasferendoci sui camminamenti di ronda di meridione, si arriva – dopo una lunga camminata, alla parte terminale della Fortezza, non prima di aver potuto vedere dall’alto il canale di convoglio delle solite acque piovane alle latrine e la falsabraga (fossato difensivo sopra il paese). Dalla balconata una suggestiva visuale ci permette di ammirare la particolare urbanistica del paese sottostante, con edifici digradanti quasi fossero tanti antemurali della Fortezza: si possono notare, nella parte bassa, i resti delle mura angioine del 1280 dalle quali si diparte una ragnatela di viuzze strette che permettevano di attenuare notevolmente la forza d’urto di un numero pur cospicuo di assalitori, costretti – come erano – a sparpagliarsi e a subire le azioni di guerriglia urbana dei difensori del posto.
Proseguendo il percorso sullo strapiombo sul fiume Salinello si arriva sul lato nord dal quale possiamo vedere dall’alto la frazione di Villa Passo, dal lontano XIII secolo sede del Tribunale della Grascia ossia il corrispettivo della moderna dogana, e – sul colle di fronte – l’Abbazia Benedettina di S. Maria in Montesanto edificata nel 542 e smantellata per volere papale nella seconda metà del 1400. Ripercorrendo a ritroso il viale finale del Forte che, un tempo, conteneva – oltre alla cisterna visibile anche oggi – alcuni alloggiamenti e la Cappella del Carmine, distrutti e non più ricostruiti da una esplosione di una polveriera colpita da un fulmine ai primi dell’ottocento.
Percorso questo spazio, oggi alberato, ci si ritrova davanti ai locali di servizio del Forte. Sotto abbiamo il Gran Magazzino dell’Artiglieria, luogo deputato al deposito dei cannoni soprattutto d’inverno per ripararli dalle intemperie meteorologiche; sopra abbiamo i locali che ospitavano le cucine e le mense per i soldati. Questi luoghi sono oggi utilizzati per contenere la collezione di armi antiche e di mappe riguardanti la storia di Civitella del Tronto. Inaugurato nell’Agosto del 1988 il Museo, dopo recenti lavori di ammodernamento, si compone di quattro stanze, tutte ubicate sullo stesso piano.
L’assedio
Nel pregevole libro L’invenzione dell’Italia unita (Sansoni, Milano 1999), Roberto Martucci ha messo in risalto studi di storia militare nei quali si sostiene che in quel 1860 «l’insieme di fortezze in mano borbonica – Gaeta, Messina e Civitella del Tronto – presentava caratteristiche analoghe al Quadrilatero austriaco, utilizzato nel 1848 dal maresciallo Radetzky come perno della brillante controffensiva che gli consentì di ribaltare le sorti della campagna di Lombardia». Tanto più che alle piazzeforti andavano aggiunti presidi borbonici nella capitale: l’Arsenale, la Gran Guardia, i castelli di Sant’Elmo, dell’Ovo, del Carmine. Francesco II, che in quel momento aveva 25 anni, e sua moglie Maria Sofia di Wittelsbach (sorella della più famosa Sissi, Elisabetta d’Austria) che ne aveva 19, si convinsero che quella resistenza avesse un senso. E, affidato il governatorato di Gaeta al generale Giosuè Ritucci che pure aveva consigliato al re di sciogliere le truppe e ritirarsi a Roma, in quell’ultima disperata battaglia dettero prova di grande coraggio, determinazione e dignità.
Dell’assedio della fortezza di Civitella del Tronto e della sua resa, avvenuta il 21 marzo 1861 (l’ultima bandiera borbonica ad essere ammainata), riportiamo quanto accadde subito dopo la resa:
Entrato il XXVII bersaglieri col maggiore Alessandro Finazzi, che aveva fatto aprire Porta Napoli sgombrandola dalle macerie ammassate, furon messi alla porta dei genieri perché nessuno fuggisse. Si ricercarono subito i “malfattori” mentre la truppa si dava al saccheggio. Giunsero a strappare le vesti e gli orecchini da dosso alle figliolette di Santomartino.
Domenico Messinelli e Zopito da Bonaventura furono fucilati dopo due ore e tre quarti dalla presa della fortezza, senza nessun tribunale di guerra e altra formalità, ma per semplice rappresaglia.
L’esecuzione avvenne sul piazzale del Belvedere, fuori Porta Napoli, e fu cosa agghiacciante.
Alla sera sette partigiani furon fucilati alle Ripe di Civitella e i morti furon lasciati insepolti secondo l’usanza sarda.
Fu costituito un consiglio di guerra di sei ufficiali che in tempi successivi inflissero fucilazioni e condanne a soldati e civili fra i più attivi nella difesa. Al Santomartino e ad altri, su richiesta di ufficiali francesi, sospesero la morte che fu commutata con 24 anni di galera nel carcere di Savona dove il Santomartino, tentando di fuggire, fu trucidato, lasciando così la giovane moglie e cinque fanciulli.
14 disgraziati furon fucilati a Santa Croce di Montefultreone, ma altre fosse di scheletri ammucchiati furon trovati nel corso di lavori stradali a metà del nostro [=XX] secolo.
Fu affannosamente cercato, con taglia di 400 lire e condono di reati, padre Leonardo Zilli da Campotosto che fu trovato solamente alle ore 14 del 27 marzo, per delazione di un ex artigliere, certo Capachietti di Nereto,
Messo nell’orrido carcere del -coccodrillo- nella fortezza, da anni non più usato dai borbonici, fu condannato a morte e fucilato sullo spiazzo del Belvedere alle 10. 35 del 3 aprile, nonostante gli fosse stata assicurata la grazia.
Chiese i sacramenti ma non gli fu concessa la comunione.
Chiese di essere sepolto nella sua chiesa di San Francesco, ma gli fu negato. Doveva morire da brigante. Fu assistito dal tremante curato di San Lorenzo, Don Beniamino Da Pacifis, che ebbe assicurazione e conforto dallo stesso condannato.
291 prigionieri, questi erano i soldati rimasti nel forte al momento della resa, furono fatti dai piemontesi. I sopravvissuti alle fucilazioni ed alla galera furon condotti in colonna, con le loro famiglie ad Ascoli dove la giunta comunale aveva fatto affiggere un manifesto che ordinava di accogliere con rispetto quei reduci che avevano, con grande amore, compiuto il loro dovere di valorosi soldati.
I morti attribuiti ai borbonici furono 58 e 18 i feriti. I piemontesi ne avrebbero avuti 11 e 31 per il solo periodo dell’assedio.
Dal 25 marzo 1861 fu effettuata la demolizione del forte, anche con mine, per raderlo al suolo.
Così finì l’ultimo baluardo del Regno delle Due Sicilie, l’estrema rocca della legittimità.
La bandiera della Reale Piazza non fu mai trovata e tanti fatti, tante verità sono rimaste sepolte sotto quella fortezza; come sappiamo che tanti documenti sono stati distrutti nel XIX secolo perché non rivelassero le vergogne dei vincitori.
L’epopea
Vestiamo i panni di un soldato borbonico, seguiamo i passi di un ufficiale dell’esercito di S.M. il Re di Napoli. Lasciamo per un momento da parte i dati storici per cercare di rendere viva la scena in cui si svolse l’ultimo atto della storia ufficiale del Regno delle Due Sicilie. Vivere direttamente certi avvenimenti – o immaginare come essi si svolsero negli atti concreti, non nei freddi dati storici (date, numero di uomini e mezzi impiegati, perdite e feriti…) – permette di comprendere ancora meglio come sia stata eroica la difesa degli ultimi soldati del Re.
In questa rievocazione si tratteggiano gli ultimi giorni di resistenza, prima della resa. Un ufficiale, inviato dal Re fin da Gaeta, si presenta per rincuorare gli animi e spingerli a resistere nella speranza che possa giungere un aiuto dalle nazioni alleate e, soprattutto da un massiccio sollevamento della popolazione.
«È necessario che almeno un focolaio di resistenza rimanga acceso» aveva suggerito il capitano Luigi Vinciguerra a Francesco II, chiedendo di essere inviato a Civitella del Tronto per portare agli assediati una parola di conforto ed un segno tangibile della vicinanza del sovrano: lo stendardo della Guardia Nobile.
La seguente ricostruzione, in gran parte di fantasia per quanto riguarda il personaggio principale, il capitano Vinciguerra, è invece rispettosa dei nomi di tutti gli altri personaggi, realmente esistiti e realmente battutisi a Civitella.
Il giorno seguente le cose andarono più o meno come Zunica aveva previsto: i due riuscirono ad intrufolarsi nel paese senza eccessive difficoltà e quindi raggiunsero la fortezza dove, riconosciuta subito la guida, il portone si aprì velocemente per fare passare i due uomini.
Luigi corse a presentarsi al nuovo comandante, l’aiutante Giuseppe Santomartino, mostrandogli le reali lettere di accredito. I due discussero brevemente, quindi Santomartino fece chiamare gli altri graduati per informarli delle novità. Poi fece radunare nella piazza i soldati e lesse loro il messaggio che il Re aveva mandato:
Leali Abruzzesi, ricordatevi quello che voi fin qui foste. La fedeltà, l’amore del vostro suolo, l’avvenire dei vostri figli armino di nuovo il vostro braccio. Noi non perderemo nessuno istante per lasciar tranquilli gl’insidiosi e perfidi che ci vogliono tutti menare nella rovina. No! Noi non ci assoggetteremo alle loro volontà, ma rivendicheremo la libertà delle nostre leggi, dei nostri costumi, della nostra religione. I miei voti vi accompagneranno da per tutto e per sempre; il cielo benedica le vostre azioni.
FRANCESCO
Poi disse:
– Soldati, il nostro amato Re ha dovuto cedere alle preponderanti forze nemiche, per risparmiare ulteriori sofferenze ai soldati che con Lui combattevano a Gaeta. Ma, pur momentaneamente sconfitto, Egli non si arrende e non ci abbandona. Anzi, se tutti lo hanno tradito, Egli si rivolge a noi, al suo leale popolo abruzzese, perché sa che noi mai lo tradiremo. Non c’è bisogno ch’io vi rammenti cosa ci potrebbe accadere se dovessimo essere sconfitti: i nostri nemici hanno eclissato le peggiori infamie commesse dai barbari o dai lanzichenecchi e la sorte più felice per noi sarebbe il morire senza cadere nei loro artigli. Sapete meglio di me quale rispetto abbiano della religione e dei vinti. Dunque vi esorto, anche se non ce ne sarà bisogno, a continuare a combattere con tutte le vostre forze, credendo fermamente nell’aiuto di Dio e nella vittoria, ora che abbiamo la certezza che il Re in persona sta guardando a noi per ristabilire la sua dinastia.
Ma non sono solo queste calde parole che Egli ci invia: il maggiore Luigi Vinciguerra, che ha attraversato in questi giorni il Regno per portarci notizie da Gaeta, ci ha recato anche il dono più gradito, inferiore alla sola presenza del Re in persona.
Si fermò un attimo e fece un cenno alle sue spalle; un sergente si fece avanti portando la bianca bandiera del reggimento della Guardia Nobile. I soldati non riuscirono a trattenere un mormorio di ammirazione.
Fu Luigi a riprendere la parola:
– Soldati, questa non è una qualsiasi bandiera, questa è una sacra reliquia: il manto dell’Immacolata, che campeggia nel verso, fu tessuto dalla Santa Regina Maria Cristina ed il Papa benedisse questo vessillo, quando consacrò la purissima nascita della Santissima Vergine Celeste, Madre di Nostra Signore quale Dogma della Chiesa. Mai fu disonorato dalla sconfitta, mai rischiò di cadere nelle mani dei nemici.
Soldati, questo stendardo sarà la guida della nostra vittoria!
La truppa esplose in un grido di gioia: “Viva ‘o Rre!”
Padre Leonardo Zilli – detto “Campotosto”, dal nome del paese natale, ma anche per l’assonanza della parola con Capatosta, a sottolineare la saldezza del sacerdote nelle decisioni prese – officiava nella semidiroccata chiesa di San Giacomo, di fronte ad un’assemblea composta di soldati feriti e donne, accennando alla prima Stazione del Calvario:
– Vedete? Gesù è legato alla colonna e sottoposto a barbara flagellazione. Ecco quel divin corpo già tutto rosso; già il sangue ha inzuppato il terreno, eppure non hanno ancor termine le battiture e quei suoi carnefici continuano a ferire e a moltiplicare le piaghe…
Nugoli di bombe cadevano all’intorno; un proiettile colpì il tetto della chiesa, ma il celebrante non si scompose, anzi, continuò la sua predica con voce più forte e ferma, quasi a voler indicare che la forza dello spirito poteva sovrastare il caos della battaglia:
– E Cristo non manda un lamento ma offre i suoi dolori all’eterno Padre per la redenzione delle nostre miserie.
Un’altra bomba cadde di fronte alla porta della chiesa, spalancandone il portale. L’officiante fu investito dal terribile riverbero di fiamme e sembrò trasumanare. Preso da un vigore che non pareva semplicemente umano, come se due angeli lo sorreggessero, si incamminò verso il portale, lo superò (le fiamme parvero abbassarsi al suo passaggio) ed uscì per portare l’ostia ai combattenti. Un gruppo di donne, reso coraggioso dal suo esempio, decise di seguirlo e per i bastioni si udì intonare Christus vincit! Christus regnat! Christus imperat!
I Piemontesi intensificarono il bombardamento, cercando di far cessare quella preghiera che ai loro orecchi suonava come una sfida ed insieme una beffa insopportabile: riuscirono a colpire la statua della Madonna del Carmelo, posta sull’estremo baluardo del forte che cadde lungo il dirupo fino al letto del Salinello.
– Non preoccupatevi, la statua non sarà loro preda, non potranno offendere l’effigie di Nostra Signora come hanno fatto altrove: anche questo è un segno del favore divino!
Ed intonò, con voce che per un momento riuscì a coprire il boato degli scoppi:
– Christus vincit! Christus regnat! Christus imperat!
* * *
Quattro giorni dopo l’arrivo di Luigi, domenica 24 febbraio, i Piemontesi scatenarono contro la città e la fortezza un bombardamento infernale che, dalle otto di mattina, per diciotto ininterrotte ore fece piovere migliaia di proiettili, provocando grandi distruzioni. Quando le esplosioni cessarono, dopo circa tre ore di un cupo silenzio che non prometteva alcunché di buono, si udì il grido di guerra degli invasori: tre colonne assalirono la fortezza. Non era ancora l’alba del lunedì. I Piemontesi avevano sperato di cogliere la popolazione nel sonno, ma si sbagliarono: nonostante il feroce cannoneggiamento tutti gli assediati, dal comandante della piazza all’ultimo civile, comprese le donne ed i ragazzi, resistettero ed aiutarono i soldati a resistere portando munizioni, tamponando le ferite, aiutando a caricare i fucili. Luigi rimase commosso dalla passione che quelle persone prodigavano per la loro causa: se i regnicoli fossero stati tutti come gli Abruzzesi, Garibaldi non avrebbe potuto nemmeno mettere piede a Marsala se non per fare la fine di Pisacane…
Al termine dell’assalto, le donne erano le prime a prestare le cure ai feriti e a infondere coraggio ai più deboli. Una di esse, terminata la recita del rosario, iniziò a raccontare un episodio accaduto qualche settimana prima, infarcendolo di particolari come se fosse stato da lei vissuto in prima persona. Luigi le si avvicinò, colpito dall’interesse che aveva suscitato in chi le stava vicino e desideroso di distrarsi in qualche maniera.
La popolana non si scompose per la presenza dell’ufficiale, ma proseguì, felice in cuor suo di aver catturato un ulteriore ascoltatore. Stava parlando di una certa Evangelina, una bella ragazza, fidanzata del sergente borbonico Sergio Salicelli. Quando il sergente morì, la poveretta non capì più nulla. La sua anima semplice non riusciva a rendersi conto che degli altri uomini avessero potuto far del male al suo Sergio. Un giorno la masseria dove viveva fu visitata da un drappello di bersaglieri, comandato da un giovane sottufficiale, reso malinconico dalla lontananza da casa. Vedersi ed innamorarsi per i due era stata una cosa: lui, a parte l’accento settentrionale e la divisa, sembrava Salicelli redivivo; lei aveva i tratti troppo dolci per non far breccia nel cuore del militare, che finalmente era stato oggetto non di astio ma di attenzioni spontanee, anziché suggerite dalla paura. Evangelina era così presa dal suo sentimento che, per avvertire il suo soldatino di una possibile imboscata, una volta, di notte, fece una lunga corsa fino all’accampamento. Mentre avanzava attraverso i campi, il rimorso si faceva largo nel suo cuore, ma l’amore riusciva sempre a schiacciarlo. Era quindi arrivata, ma, invece di essere festeggiata, si vide sparare addosso da una sentinella. La palla la sfiorò solamente, ma ella ne fu talmente sconvolta da rimanere muta. In tal modo non le fu possibile avvertire i Piemontesi, che vennero colti di sorpresa. Quando ella vide il bersagliere trasportato a spalla dai suoi commilitoni, riuscì a riprendere la voce, ma non fu che per gridare, ululare, mentre correva, le braccia levate in alto, incurante dei rovi che le strappavano vesti, degli zoccoli perduti, fino a che non cadde in un burrone, chissà se cosciente o meno. Il suo corpo fu ritrovato da un bersagliere e sepolto a fianco del sergente.
Il bene ed il male avevano confini così strani!
* * *
Le giornate trascorrevano, uguali eppure – purtroppo – mai monotone: ogni giorno bombardamenti, mentre la truppa era asserragliata e la tanto desiderata speranza di riuscire a sfondare lo sbarramento piemontese si faceva ogni giorno più lontana, se mai era stata davvero presente in quel forte. Una settimana dopo l’arrivo di Luigi la polvere da sparo aveva cominciato a scarseggiare e gli assediati avevano dovuto respingere un assalto lanciando le bombe con la forza delle proprie braccia. La “Scornata”, un’antica colubrina spagnola da ventiquattro libbre che già agli inizi del secolo aveva bastonato gli invasori francesi, ormai aveva cessato di terrorizzare i nemici. Pochi giorni dopo anche le munizioni terminarono. I soldati ebbero l’idea di smantellare una garitta per usare le pietre ed i mattoni con cui era stata costruita a mo’ di proiettili. Agli assedianti parve allora che la stessa fortezza si scuotesse per scrollarsi di dosso gli assalitori, come una belva fa con i parassiti.
Nei momenti di tregua, chiesti dal comando anche al solo scopo di dar respiro alla truppa, Luigi leggeva e rileggeva le copie della “Gazzetta di Gaeta” che aveva portato dalla fortezza tirrenica. In particolare lo aveva colpito un articolo che gli era sfuggito quando si trovava ancora a Gaeta (ove non riusciva a trovare un attimo per leggere e preferiva passare il poco tempo libero per stare con Pino Lancia). Si trattava della ripresa di un libello pubblicato dal duca de la Rochefoucauld, che anche al parlamento francese aveva fatto sentire la propria voce in difesa delle libertà calpestate nei territori italiani.
Il titolo era Mandrino riabilitato e in esso con molta verità, forza e ragione veniva stigmatizzato il nuovo diritto che ispirava tanto entusiasmo ai partigiani della rivoluzione. Il più bieco machiavellismo e la ragione del più forte venivano indicati come principale strumento politico e, assieme alla violenza piemontese, si condannava anche la colpevole acquiescenza delle altre potenze europee:
L’atto che fu sempre qualificato per furto si vorrebbe ora riconoscere siccome la conseguenza di un dritto a patto soltanto che si operi in grandi proporzioni e, soprattutto, che si riesca.
Il successo è la morale del giorno. Ciò che in altri tempi si qualificava di delitto agli occhi della religione, della morale, della saggezza e della ragione è riconosciuto oggi come un diritto.
Questo diritto è quello del più forte: tanto peggio al più debole. In una parola l’epoca attuale si è incaricata di rigenerare il mondo.
I furti, i disordini, le violenze, gli omicidi, gli incendi sono altrettante prove per le quali è d’uopo passare prima di giungere alla felicità. Ma è giusto che si ottenga questa felicità a prezzo di qualche sacrificio ed inoltre non è ragionevole che i nuovi padroni si arricchiscano per poter poi diffondere la prosperità?
Ciò che una volta si chiamava ambizione oggi non è che amore per i propri simili.
Altra volta si dava la morte a chi rubava la borsa nella tasca altrui, ma questo era un vero abuso della forza: il debole usava del suo diritto e se fosse stato più forte avrebbe avuto ragione. Sventura a chi soccombe nella lotta! Onore a chi per impadronirsi degli Stati che gli convengono, fa la guerra senza averla dichiarata, a fine di assicurare la felicità dei nuovi sudditi che formano la meta dei suoi desideri.
Egli è nel solo interesse dei popoli che si agisce e se questi vengono consultati, è solo per la forma, essendo deciso che la loro felicità deve essere assicurata loro malgrado, imponendosi ad essi il governo che deve assicurarla.
Tali sono i progressi della civiltà moderna.
Mandrino non uccideva che per difendere se stesso: oggi, in tempi più illuminati, si uccide e si fa strage nell’interesse dell’umanità! Si fucilano coloro i quali sono tanto ciechi da essere persuasi che adempiono ad un dovere, sfidando la morte per non violare un giuramento.
Ecco i felicissimi frutti delle nuove idee!
Sventura a chi soccombe nella lotta! Queste parole martellavano nella testa di Luigi, spronandolo con la paura quando la forza ed il coraggio gli venivano meno: egli immaginava bene quale sarebbe stata la sua fine se fosse caduto in mano dei nemici. Non aveva voluto piegarsi ed ogni suo diritto sarebbe stato calpestato: non sarebbe stato riconosciuto come un combattente ma condannato alla stregua di un brigante. Perciò, ogni volta che veniva prospettata l’idea di una resa, ripensando a quel moderno Vae victis! faceva di tutto per scacciare l’idea di arrendersi. Più di una volta, al consiglio degli ufficiali, aveva ricordato le nefandezze commesse dai Piemontesi all’abbazia di Casamari, al santuario della Madonna dei Lumi…
I suoi interventi avevano sempre raggiunto lo scopo, ma ora la situazione era decisamente peggiorata: rimanevano meno di trecento uomini validi, ma erano quasi allo stremo; inoltre si doveva rispondere della vita dei feriti e dei civili che avevano deciso di rifugiarsi entro le mura. Il maggiore Ascione aveva consentito ad arrendersi ed era nata una ribellione contro di lui, che era stato posto addirittura sotto sorveglianza, nel timore che si comportasse come il capitano Giovine. Luigi, preso dallo sconforto, andò a parlare con padre “Campotosto”.
I due si rinchiusero nella scoperchiata chiesetta di Santa Barbara e parlarono non a lungo, ma concitatamente.
– Luigi caro, non ti sto parlando come amico, o commilitone, ma come cappellano dell’esercito e come sacerdote di Santa Romana Chiesa: portando lo stendardo qui tu hai compiuto un gesto che va molto al di là dell’esecuzione di un ordine militare. Hai portato una reliquia, come hai detto tu stesso quando l’hai mostrato ai soldati, e non devi assolutamente permettere che possa cadere in mano di quei senzadio. Tu l’hai portato qui, tu devi riportarlo al Re. Quando te lo ha consegnato eri pronto a risponderne con la vita; che cosa è cambiato in questo mese? Nulla, te lo dico io. Quindi ora dobbiamo solo pensare al miglior modo per farti uscire di qui, e non quello di farti diventare un inutile eroe.
– Ma non si potrebbe trovare un altro, che magari conosca meglio le strade dei dintorni…
– Certo, molte persone saprebbero meglio di te districarsi nei boschi che ci circondano e tu li sostituiresti più degnamente qui, imbracciando un fucile. Il fatto, però, è che in questo caso la bandiera non deve essere portata ad Ascoli, ma a Roma, e nessuno tra noi sarebbe capace di farlo meglio di te. Senza contare, ripeto, il fatto che tu hai una missione da compiere e non puoi lasciarla a metà.
– Mi vengono i brividi a pensare quel che diranno i miei commilitoni vedendomi fuggire, perché immagino che non sia il caso di rivelare loro il motivo della mia missione…
– Giusto. È questa un’altra croce che devi sopportare. Quando ti sei offerto volontario per portare qui lo stendardo, spero bene che tu non sia stato animato da sogni di gloria: ferma restando la giusta fierezza per la tua azione, se le cose fossero andate in altro modo, devi aver pensato innanzitutto al pericolo che ti sovrastava, alla vita che avresti rischiato ad ogni passo. Ed il pericolo non ti può venire solo dai Piemontesi, figliuolo, ma anche da molti nostri compatrioti e, soprattutto, da te stesso. Anzi, in questo momento sei proprio tu ed il tuo orgoglio che rappresentate il più grave nemico che il maggiore Luigi Vinciguerra deve affrontare. Superare il desiderio della sicura gloria sugli spalti della fortezza per avventurarsi in un compito oscuro, col rischio comunque di morire, ma morire come un cane, fucilato come un volgare brigante, se non addirittura appena varcate le mura della fortezza, con una schioppettata alle spalle da qualche sentinella che ti potrebbe scambiare per un disertore, come è capitato a Francesco Tromba…
– Quello era un disertore vero, però.
– No, non proprio. Era soltanto un vigliacco; o meglio uno che non si è saputo dare coraggio. Comunque avevano avuto il permesso di abbandonare la fortezza da Messinelli in persona, quando giunse la notizia della resa di Gaeta, lui e tutti gli altri che quel giorno se ne andarono, credendo di raggiungere le proprie case e finendo invece in qualche campo di concentramento. Può darsi che il Signore lo abbia voluto chiamare a sé senza umiliarlo ulteriormente, perché questa sarà la fine di chi non verrà fucilato. Per altro il soldato che lo ha colpito, in confessione, mi ha assicurato che avrebbe voluto solo spaventare la colonna dei… fuggiaschi, nulla più. Ad ogni modo, disertore o non disertore, i pericoli che affronterai saranno certamente molti e sarebbe meglio che tu ti disponessi nella migliore delle maniere per affrontarli, anziché perdere tempo tentando di convincermi a sostenere presso il comando della guarnigione la tua richiesta di rimanere, che continuo a giudicare assurda!
Luigi rimase interdetto. Allora padre Leonardo, sistemandosi sulle spalle la stola, lo apostrofò come avrebbe fatto con un ragazzino:
– Beh? Che stai aspettando? Inginocchiati, che ti devo dare l’assoluzione!
Luigi eseguì passivamente, senza rendersi ben conto di ciò che stava accadendogli intorno. Tornò alla realtà solo quando il sacerdote pronunziò, al termine di un breve ed incomprensibile borbottio, le parole Ego te absolvo. Allora il maggiore si segnò e, alzando gli occhi al cielo alla ricerca di una immagine sacra, vide lo squarcio provocato dal bombardamento e si sentì ribollire. Lanciò tra sé e sé qualche maledizione agli assedianti ed alle loro famiglie, poi si sovvenne che avrebbe dovuto confessare anche quell’ultimo cattivo pensiero, ma lasciò perdere e si levò in piedi.
Il frate, alzatosi anche lui, gli strinse il braccio dicendogli poche parole semplici che, unite allo sguardo con cui venivano profferite, ebbero il potere di rincuorarlo. Luigi ripensò a fra’ Carmelo da Acquaviva, anche lui francescano, anche lui cappellano militare borbonico. Ma quanta differenza nella storia dei due religiosi! Un uomo semplice quello, che da ammiratore di Garibaldi era diventato la guida spirituale del manipolo di uomini comandati da Pino Lancia. La sua vocazione di “reazionario” era stata, per così dire, uno scherzo della sorte.
Padre Zilli era invece un uomo formatosi nell’alveo della dottrina politica tradizionale. Accanto ai libri sacri aveva letto le opere di Joseph de Maistre, Clemente Solaro della Margherita e Donoso Cortés e riteneva che l’invasione piemontese fosse solo un capitolo della tremenda lotta tra i nemici ed i sostenitori del Trono e dell’Altare. La guerra contro gli invasori, come quella contro i Francesi alla fine del secolo precedente, era dunque una vera e propria guerra santa e padre Zilli sosteneva che bisognasse resistere il più a lungo possibile, in attesa di un altro Cardinale Ruffo, che prima o poi non avrebbe mancato di apparire. Questa sorta di attesa messianica riusciva a sostenerlo anche laddove ogni speranza veniva meno. Forse senza la sua presenza Civitella non avrebbe resistito tanto a lungo, forse proprio lui incarnava la folle speranza che qualcosa o qualcuno, prima o poi, li avrebbe portati alla vittoria ed alla restaurazione. Era passato Napoleone, era passato Murat, erano passati i giacobini repubblicani del ‘99 ed i congiurati del ‘21 e del ‘48, ma alla fine i Borbone erano sempre tornati sul Trono. Ed anche questa volta, dopo la bufera, il buon Re Francesco avrebbe potuto ancora salutare il suo popolo dal balcone di Palazzo Reale…
Luigi uscì dalla chiesetta e si avviò verso il proprio alloggio, che dopo i bombardamenti del 24 febbraio era stato spostato in un luogo più riparato, vicino a quello dei soldati. Si rese conto che non avrebbe potuto fare alcun preparativo per la partenza senza essere notato. Tutti i militari erano guardinghi: una parte – la minore – era ormai stremata e non vedeva l’ora di arrendersi ai Piemontesi, in cuor suo maledicendo la decisione presa il 16 febbraio, quando era stato loro permesso di lasciare la fortezza. Un’altra, ben più pericolosa, stremata anch’essa dalla fame ma non per questo resa meno feroce, vedeva nemici e traditori ovunque: ogni gesto poteva essere interpretato come un preparativo alla resa ed il risultato era che spesso truppa e graduati si guardavano in cagnesco, vicendevolmente timorosi e pronti a rinfacciarsi l’un l’altro il desiderio di arrendersi o il credere ormai inutile continuare a combattere. Casi come quello di Ascione rischiavano di moltiplicarsi.
Luigi andò a parlare con il sergente Domenico Messinelli, che in qualità di veterano della fortezza ne deteneva di fatto il comando, del resto perfettamente meritandolo in quanto era l’unico amato e temuto a tal punto dai soldati da poterli tenere a bada. Anche lui fu d’accordo con padre Leonardo: meno gente fosse stata messa al corrente, tanto minore sarebbe stato il pericolo di indurre qualcuno a fare una spiata, nella speranza che i Piemontesi lo potessero ricompensare. Dunque silenzio con tutti: del resto la bandiera gigliata era stata temporaneamente ammainata per far posto a quella bianca, non in segno di resa, bensì per iniziare le trattative col nemico. Poteva essere quindi riposta in attesa degli eventi: purtroppo, comunque andassero le intese col nemico, anche nell’ipotesi di una ripresa dei combattimenti, Civitella non avrebbe potuto resistere per più di un paio di giorni, data la scarsità di viveri, oramai quasi terminati. Di colonne di liberatori non si vedeva l’ombra, bisognava rassegnarsi: a diventare schiavi, no; ma a lasciare la fortezza in mano dei vincitori per salvare trecento vite a soldati che, in condizioni migliori, avrebbero potuto, di lì a qualche mese, essere riuniti in una formazione con maggiori possibilità di vittoria. Per l’intanto bisognava mettere in salvo la bandiera e non permettere che cadesse in mano ai nemici. Che quei pochi momenti di allentati controlli almeno servissero a qualcosa!
Messinelli accompagnò Luigi nel suo alloggio e gli consegnò lo stendardo, avvolto in un panno damascato con numerosi buchi. Il sergente parve leggere nel pensiero dell’ufficiale e si scusò:
– Purtroppo è il migliore che abbia potuto trovare. Sono mortificato, ma Sua Maestà comprenderà certo…
Rimase un po’ in silenzio; quindi, scuotendo il capo, ripeté una frase latina, una delle poche che conosceva: “Sic transit gloria mundi”. Al che il Luigi assentì, rimanendo anch’egli muto. Nel sistemare il panno che ricopriva lo stendardo, si accorse che una mano aveva ricamato in cifre rosse su un bordo della bandiera un motto: SENZA SPERANZA. Il maggiore non aveva mai visto prima quell’aggiunta, di un colore così vivo da sembrare scritta con il sangue, e ne rimase colpito, come se si fosse trattato di una dichiarazione di sfiducia verso la Provvidenza: fissò l’altro con uno sguardo tra lo smarrimento e la richiesta di spiegazioni. Il sergente commentò:
– Così abbiamo combattuto, senza speranza, e non è una vergogna che una popolana abbia osato mettere le mani sulla bandiera ricamata dalla Regina per aggiungervi quelle parole. Esiste un senso dell’onore, in questa povera gente, che molte persone di ben altra estrazione non possono neppure immaginare… Sapevo che volevano ricamare quella frase e non mi sono potuto opporre, né ho ritenuto fondamentale interrogarvi su questo. Forse per voi si tratta di un’offesa, di una profanazione: so quanto vi stia a cuore la bandiera del vostro reggimento e che la considerate come una reliquia. Ma i combattenti di Civitella hanno voluto aggiungere quelle due parole come si porta un ex voto all’altare, come si pone una candela di fronte ad un’immagine sacra. “Senza Speranza” non è un insulto, ma l’accettazione del proprio martirio: qui si è combattuto per salvare la fede, la fedeltà, l’onore, non per cercare una vittoria…
Luigi scosse il capo, come per far comprendere che accettava l’aggiunta del motto come se si fosse trattato di una medaglia al valore. I due poi si salutarono, prima militarmente, poi abbracciandosi con calore.
– Addio, maggiore. E buona fortuna. Partite immediatamente, senza salutare nessuno: penserò io a farlo per voi. Fra poco indirò un’adunata, in modo da concentrare sulla piazza d’armi il maggior numero di curiosi. Uscite con la delegazione di quel sedicente generale Della Rocca, indossate vestiti borghesi sotto il mantello e poi… e poi non posso far altro che augurarvi ancora buona fortuna.
Luigi trattenne le lacrime e corse ad indossare la giacca che lo aveva protetto quando era partito da Gaeta. Si mise sopra due mantelli, quello marrone e quello d’ordinanza e riuscì a confondersi con la delegazione di Della Rocca.
Era questi un tale che, affermando di essere un generale dell’esercito borbonico, si era presentato qualche giorno prima con l’incarico di consegnare agli assediati l’ordine di resa del Re. Il fatto aveva suscitato molti sospetti, anche perché, mentre nessuno ricordava un alto ufficiale così chiamato, a qualcuno pareva di aver visto il figuro in questione nei panni di mercante, in quel di Ancona. Altro che generale! Naturalmente non era stato creduto, ma la sua venuta era stata sfruttata nella migliore delle maniere possibili, o quasi. Infatti, approfittando dell’andirivieni della delegazione da lui guidata, gli assediati avevano innalzato bandiera bianca, come se stessero per accettare la resa. Questo il giorno 16 marzo, un sabato. Poi, la domenica mattina, quando tutti si aspettavano di veder spalancarsi la porta, ecco che dall’alto delle mura era stato calato un paniere contenente un ragazzino, che consegnò un biglietto dalle semplici ma incisive parole: “Non vi avanzate perché sarete respinti a cannonate”. I Piemontesi si accorsero allora che sugli spalti era nuovamente tornata a garrire la bandiera del Regno delle Due Sicilie.
La loro rabbia fu enorme, ma dovettero ancora attendere tre giorni per riuscire a penetrare negli spalti. E quando i soldati di Re Francesco si arresero, per loro non ci fu pietà: Messinelli ed altri furono fucilati come briganti, in spregio al codice d’onore militare, e come briganti furono lasciati insepolti, a monito dei paesani. Anche padre Zilli, che era riuscito a nascondersi, fu catturato in seguito ad una delazione e fucilato. La persona che lo aveva denunciato aveva anche riferito del colloquio che il frate aveva intrattenuto con un ufficiale, giunto circa un mese prima e misteriosamente scomparso nei momenti antecedenti la resa, ma gli aguzzini non riuscirono a cavare una sola parola di bocca al religioso. Anche di fronte alla minaccia della fucilazione non si scompose. Lo sgherro che lo interrogava gli mostrò la grazia che era giunta da poco, dicendogli chiaramente che non l’avrebbe tenuta in conto, se non si fosse deciso a confessare cosa avesse tramato con quel tale ufficiale: padre Leonardo non si turbò e, rifiutandosi di rispondere alle domande, incominciò a pregare. Il suo atto di sfida fece saltare i nervi dei Piemontesi, che prima dell’esecuzione gli negarono di ricevere la eucaristia. Era la mattina di mercoledì 3 aprile 1861, ed erano passate esattamente due settimane dalla caduta di Civitella, dalla fine della guerra ufficiale e, quindi, dall’inizio della guerriglia che i vincitori avrebbero demonizzato definendola sprezzantemente brigantaggio.
continua……..