Come Napoli diventò ” un paradiso abitato da diavoli”
“E’ un proverbio che non ha più corso”- riferisce
Benedetto Croce nel 1923, ma la definizione che ” ebbe corso ” per ben due
secoli, il Seicento e il Settecento, in relazione alla città di Napoli di un ”
paradiso abitato da diavoli” non è quindi attribuibile a Goethe, come
erroneamente è riportato in qualche testo.
Benedetto Croce, il filosofo abruzzese che amava Napoli, ricercò le origini di
tale detto riguardo alla città partenopea. In effetti in tali secoli nei libri
italiani ed europei tale proverbio, come lo definisce Croce, aveva avuto una
sua diffusione rilevante.
Il primo testo
in cui si ritrova tale frase è “Descriptio orbis” del polacco Luca di Linda,
scritto nel 1655, molto conosciuto a quel tempo in Italia nella traduzione del
Bisaccioni. “ Fra tanti beni che abbondano nel paese di Napoli- scrive il Di
Linda- ha però luogo il detto universale: “Napoli è un paradiso abitato da
demoni”. Successivamente il dizionario di Luigi Moreri, la cui prima edizione è
del 1673 riporta, in relazione a Napoli: “ l’aria del paese è estremamente
fertile e tutto vi abbonda; il che fa dire agli Italiani che Napoli è un
paradiso abitato da diavoli. Dicono ancora: “Napoli odorifera e gentile, ma la
gente cattiva”. Tale giudizio fu ripreso dal “Grand dictionnaire géografique et
critique”, pubblicato a Venezia nel 1737 nel volume VII alla pagina 30.
Riguardo alla pubblicazione in francese del Grand dictionnaire di Lamartinière,
il filosofo e scrittore illuminista Antonio Genovesi si mostrò convinto che
tale definizione fosse stata coniata dai francesi.
Invece si trattava di un’ espressione italiana che il Moreri , prima ancora del
Seicento, ritrova in una lettera da Napoli di Bernardino Daniello, il noto
commentatore di Dante, il quale, scrivendo ad Alessandro Corvino, riportava un
lungo commento su Napoli, rimarcando che la natura, per contrasto a tanta
bellezza, avesse ben pensato ” di dare questo paradiso ad habitare a diavoli”,
per non subìre le rimostranze degli ambasciatori delle altre città che
avrebbero potuto accusarla di parzialità.
Come è noto, nel 1707 le arme austriache, dopo aver combattuto e battuto i
francesi, conquistando la Lombardia, scacciarono i franco-spagnoli dal Regno di
Napoli. Per celebrare tale riunione del Regno di Napoli ai domini della Casa
d’Austria, un giovane dotto tedesco, grande cultore di filosofia e filologia,
ebbe l’idea di tenere nell’università di Altdorf, nei pressi di Norimberga, una
conferenza per dimostrare nei particolari la verità del proverbio volgare, che
“il Regno di Napoli è un Paradiso ma abitato da diavoli”.
Tale conferenza a tema, tenutasi a Altdorf, fu molto pubblicizzata e furono
invitati, oltre alle autorità politiche e militari del tempo, gli accademici e
semplici cittadini studiosi.
Di tale intervento del dotto tedesco Benedetto Croce menziona un” opuscolo in
quarto piccolo in lingua latina di pagg. 28″ conservato nell’Università di
Nottingen e che era riuscito ad ottenere in prestito per la sua ricerca, mirata
anche a sfatare l’erronea convinzione che fosse stato Goethe a coniare il
famoso motto.
In effetti il filologo tedesco rammentava i siti geografici del Regno di
Napoli, comunicando tanta ammirazione nel descrivere particolarmente i tanti
luoghi da favola, esclamando: o mirandam itaquae Campaniae! O stupendam Neapolis
opulentiae! Alternava, però, tali parole con la ripugnanza e l’orrore che
destavano gli abitanti: O turpissima flagitorum genera! O execrandos pessimorum
hominum animos, soffermandosi, riguardo ai “Neapolitaronum facinora” sulla
lussuria, sull’ambizione e sulla cupidigia di titoli ed onori di gente “
amantissima delle liti, insolenti e vantatori nel parlare, e pieni di vanità,
superbi, prepotenti, sospettosi e grandi giocatori, avidi di vendetta, gelosi,
dediti all’ozio”.
Tale discorso molto pubblicizzato contribuì anch’esso a diffondere la vulgata
di un Paradiso abitato da diavoli, ma Benedetto Croce, citando le constatazioni
di Giovanni Andrea Buhel, che considerava tale proverbio una grossa stupidità,
rimarcò che “ siffatti giudizi soffrono di difficoltà obiettive perché
mantengono carattere statico dinanzi alla vita dei popoli, che è dinamica e
cangevole[…] soffrono dell’altro malanno di venire irrigiditi, resi assoluti,
interpretati fantasticamente, e diventano sostegno di leggende o menzogne
convenzionali”.
Angelo Martino