Come si mangiava nella Napoli del Siglo de Oro?
Luigi Vinciguerra
Come si mangiava nella Napoli del Siglo de Oro? Una risposta ci viene attraverso un manoscritto conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, che contiene tra l’altro un interessante ricettario meridionale, intitolato Apparecchi diversi da mangiare, datato 3 agosto 1524 in Nerula (località identificata inizialmente come Lagonegro e successivamente come la laziale Nerola) e costituito da 86 ricette, di cui la Olschki offre una nuova edizione critica.
Il lavoro di trascrizione filologica si deve a Carolina Stromboli, docente di Linguistica italiana e Dialettologia italiana all’Università di Salerno, che ha recentemente curato l’edizione critica con traduzione in italiano di Lo cunto de li cunti di Giovan Battista Basile (Salerno, Roma 2013) e, a partire da quel capolavoro barocco, Le parole del Cunto. Indagini sul lessico napoletano del Seicento (Cesati, Firenze 2017).
Di conseguenza, l’interesse preminente della curatrice risiede soprattutto nell’analisi lessicale dei termini legati al cibo, a partire dalla presenza di molti gastronimi (ovvero, termini legati al cibo) della cucina meridionale, in particolare napoletana o campana, come picza, ceppola (‘zeppola’), provola, susamelli, casocavallo, strangolaprievete e così via, molti dei quali registrano una delle prime occorrenze proprio in questo ricettario.
Intanto, il testo si può definire napolitano in quanto il tipo di lingua utilizzato (genericamente meridionale) non appartiene né all’area lucana, né a quella laziale, mentre le ricette puntano decisamente verso Napoli e, in particolare, «verso una tradizione gastronomica affermatasi nella capitale del Regno durante il periodo aragonese» (p. 3).
Che si tratti di un ricettario destinato all’aristocrazia è evidenziato non solo dal fatto che sia stato presumibilmente composto (o copiato) nel castello Orsini di Nerola, ma anche dal fatto che numerose pietanze quivi descritte compaiono anche «nel menu del banchetto di nozze di Bona Sforza con Sigismondo I Jagellone, re di Polonia, tenutosi a Napoli il 6 dicembre 1517» (p. 4).
Inoltre, l’attenzione con cui è descritta la tecnica per realizzare le pietanze (nonché una certa sintesi) «consente di ipotizzare che gli Apparecchi siano stati scritti da un cuoco professionista, appunti personali da consultare per non dimenticare qualche dettaglio, o destinati a un collaboratore o ad allievi più giovani» (p. 6); anche se, come accennato, a redigere materialmente il ricettario potrebbe essere stato un copista e non direttamente un cuoco.
Le ricette cominciano solitamente con la pestatura di ingredienti come mandorle, spezie, pane, fegatelli o altro, che vengono poi passati al setaccio e diluiti con acqua di rose, brodo o altri liquidi e poi cucinati. Le tecniche di cottura sono quelle consuete, lessatura, frittura, cottura arrosto; non sono indicati tempi precisi di preparazione, ma si danno solo indicazioni generiche (non sia troppo cocto, como è meza cocta, come sono bene cocte, etc.).
La matrice napolitana si evince anche dall’utilizzo delle unità di misura, espresse seguendo quelle del Regno di Napoli sia per i pesi (oncia, libbra, rotolo) che per le monete (tornese, carlino, grano).
Le dosi e le tempistiche non sempre sono segnalate in maniera precisa, tanto che spesso si consiglia al cuoco di regolarsi come meglio crede: «ad discrectione de chi fa la cosa» (p. 39), «fati come pare ad vui» (p. 44), «finché pare ad vui che baste» (p. 46).
Gli ingredienti più utilizzati sono lo zucchero (che ricorre in ben 73 ricette su 86) e la cannella (in 63 casi); seguono le mandorle (spesso tostate) e, tra le carni, quelle del piccione. Il formaggio più frequente è il caciocavallo, ma non mancano ricotta e provola. Il latte più utilizzato è quello di capra. Raro il pesce e – ciò che è in apparenza strano, ma i Napolitani sarebbero divenuti mangiamaccheroni solo più tardi – assente la pasta, sostituita dal riso e dalle pizze. Per il condimenti si usa quasi sempre la sugna (e solo quattro volte l’olio).
Naturalmente, il ricettario in questione non è un testo isolato: esso si colloca nella tradizione dei ricettari tardomedievali di area italiana, il cui esempio più celebre è il Libro de arte coquinaria, redatto da Maestro Martino de Rossi, «ticinese di origine e probabilmente cuoco professionista presso varie corti quattrocentesche, inclusa quella papale; il suo libro di ricette interrompe a metà Quattrocento una tradizione di ricettari anonimi in volgare e costituisce finalmente il primo libro d’autore che segna il passaggio dalla raccolta adespota all’opera originale, destinata probabilmente non solo alla consultazione saltuaria, ma anche alla lettura» (p. 11), uno dei cui esemplari antichi (non a caso noto come Cuoco napoletano) fu probabilmente realizzato nella Napoli aragonese dell’ultimo decennio del Quattrocento ed aggiunge alcune ricette di probabile ascendenza catalana reperite nella Capitale.
Infine, per assaporare (mai verbo è stato più adatto) l’idioma quattrocentesco, riportiamo la ricetta della picza reale, omettendo i puntuali simboli della trascrizione diplomatica presenti nel testo: «Pigliate cinque specie de caso frischo, et tre de recocta, et quindici ova, et una libra de amendole, et meza libra de aqua de rosa, et una libra de zucaro; et questo se pista bene per ordene onne cosa, et inmescati onne cosa insemi, et fatila come turta. Et come è meza cocta, levati quello che sta sopra come panno; et poy pigliati una libra de zucaro et una de amendole et pistate bone cossì insemi multo bene; fati come una picza, et mictila supra la dicta turta et fatila cocere, che sia fenita; et ala dicta turta se ce vole ponere musco» (p. 66). Il completo glossario finale, che riporta tutti i gastronimi utilizzati nel ricettario, ci spiega che il musco è una «sostanza odorosa di origine animale, usata in farmacopea» (p. 83) detta anche muschio. L’ossimoro culinario, che mischia dolce e salato, formaggi e zucchero, acqua di rosa e muschio, culmina in quest’ultima ricetta, non a caso intitolata “reale”. Luigi Vinciguerra
Carolina Stromboli, Un ricettario meridionale del primo Cinquecento. Edizione e glossario di Apparecchi diversi da mangiare, Olschki, Firenze 2025, p. 106, € 25
Fonte: «Veritatis Diaconia»


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