Concetto Gallo e i banditi niscemesi VII
Accanto ai Separatisti a san Mauro c’erano anche i fuorilegge niscemesi, quelli della banda Avila-Rizzo. Anzi, secondo il racconto di molti, erano proprio quelli che attorniavano di più Concetto Gallo, quasi venerandolo.
Si calcola che vi stazionassero da dodici a venti banditi, compreso l’ergastolano Saporito e alloggiavano in posti separati rispetto a chi aveva abbracciato la fede indipendentista. Da costoro venivano considerati come dei contadini sfortunati, ingiustamente perseguitati dallo Stato italiano.
Secondo l’accusa (sentenza della sezione istruttoria della corte di appello di Palermo del 23.12.1947) al momento dello scontro erano presenti i seguenti banditi: Avila padre e figlio, Arcerito Vincenzo, Rizzo Salvatore, Collura Gesualdo, Buccheri Vincenzo (tutti di Niscemi), Romano Giacomo, Bottiglieri Angelo, Interlandi Ignazio, Lombardo Giuseppe (tutti di Caltagirone) e Leonardi Luigi (non meglio identificato)
Al primo interrogatorio Gallo ammise di averli ospitati “per necessità di vita”, indicando in sedici il loro numero e specificando che solo in tre presero parte attiva al conflitto a fuoco del 29 dicembre.
Addirittura in un primo momento non si conobbero le esatte generalità dei Niscemesi, ma solo il nomignolo: Totò detto l’elefante, per la sua andatura dondolante, descritto nei verbali come un uomo di circa 35 anni con baffetti e pizzo, Ziu Nzulu, di bassa statura con baffi castani, Ziu Luigi, dalle basette folte e la barba rossiccia, Rafanazza, un tipo basso, nero in viso e sempre sospettoso.
E c’era pure l’adranita “Lavanna ri pudditru”, al secolo Giuseppe Milazzo, un uomo alto, sdentato e calvo, che avrà un ruolo decisivo nella individuazione dei cadaveri degli otto carabinieri di Feudo Nobile.
In realtà oltre ai Niscemesi “idealisti” (che cioè avevano aderito all’EVIS solo per pura ideologia) vi partecipò un piccolo gruppo di banditi, che riuscì a scappare rifugiandosi nel bosco di Santo Pietro, dove vi era un covo della banda.
Alcune fonti riportano che Avila padre e figlio risultavano iscritti nella sezione di Niscemi dell’EVIS, ma si tratta di un’affermazione mai provata. Anzi appare poco credibile, visto che la quasi totalità dei Niscemesi vedeva la banda come fumo negli occhi per via della ferocia e della tracotanza; il che avrebbe allontanato le simpatie dei tanti aderenti al movimento separatista.
Da fonti del ministero dell’interno si disse pure che erano state trovate le tessere di adesione di padre e figlio: la prima datata 8.3.1944 e la seconda datata 28.4.1945.
Nessuno invece ha mai parlato dell’altro capo – Rizzo – come iscritto al MIS.
La presenza dei banditi nel campo suscitò malumori fra i giovani del GRIS, non comprendendo bene a che titolo fossero là e soprattutto cosa c’entrassero con gli ideali per cui costoro combattevano.
Allora venne messa in giro la voce che il comandante Gallo aveva stipulato con loro un accordo, in base al quale essi avrebbero cessato ogni attività criminale privata e si sarebbero messi al servizio dell’Indipendentismo.
Se quest’ultimo avesse trionfato, sarebbe stata promulgata un’amnistia per quanti sino ad allora si erano macchiati di gravi reati. Inoltre la presenza veniva giustificata con la conoscenza approfondita dei luoghi che i fuorilegge avevano: circostanza che poteva tornare molto utile nel caso (quasi certo) di uno scontro con le forze “italiane”.
E poi c’era da considerare che contro quegli uomini vi erano solo delle accuse non suffragate da alcuna sentenza e non era quello il luogo o il tempo per sostituirsi ai tribunali…Queste spiegazioni rabbonirono un po’ gli animi, pur permanendo qualche diffidenza tra Separatisti e Banditi: i primi consideravano i secondi come manovalanza e come tale li trattavano.
A distanza di tanti anni esiste ancora un Movimento indipendentista, sebbene con pochissimi proseliti e quel che più contestano a Gallo è proprio l’avere accolto indiscriminatamente nell’Evis dei banditi. E tra i più efferati quelli della cosiddetta Banda dei Niscemesi.
10 gennaio 1946 i banditi assaltano la caserma di Feudo Nobile
Feudo Nobile è una località situata in territorio di Gela, ma la maggior parte dei terreni – all’epoca dei fatti – erano coltivati da Niscemesi e Vittoriesi.
Distese di viti da cui si ricavava (e si ricava)un ottimo vino (ancora oggi utilizzato per produrre il Cerasuolo) con tante case sparse, al punto che sino agli anni Settanta del secolo scorso vi insisteva la “scuola rurale”: ogni giorno i bambini venivano condotti in una cascina e lì un insegnante impartiva le lezioni.
Approssimativamente è equidistante da Gela, Niscemi e Vittoria e perciò punto strategico dove posizionare una delle tante caserme dell’Arma. Aveva un contingente di nove uomini; a comandarla il brigadiere Vincenzo Amenduni, allora trentanovenne, originario della Puglia.
Tutti erano consapevoli che si trattava di un presidio esposto alle rappresaglie dei banditi che infestavano la zona e in particolare quelli legati a Canaluni.
Per le bande la parola d’ordine era “assaltare le caserme”; a correre maggiori rischi erano ovviamente quelle piccole, specie se collocate in posti isolati: proprio come quella di Feudo Nobile.
L’allarme è alto, ma non si possono abbandonare i presidi, proprio in un momento così critico. Il 29 dicembre 1945 c’era stata la battaglia di Monte San Mauro e tre giorni prima una cinquantina di uomini del bandito Giuliano aveva sferrato un attacco in grande stile alla caserma di Bellolampo, una frazione di Palermo.
Il 9 gennaio 1946 dei contadini bussarono alla caserma di Feudo Nobile per denunciare un furto di bestiame in una località chiamata “casa Bonvissuto”.
L’indomani quattro militari e il comandante uscirono per un sopralluogo e una ricognizione. Si accingevano a ritornare in caserma, quando videro dei contadini fuggire al grido “i banditi, i banditi”. All’orizzonte apparve un gruppo di fuorilegge a cavallo armati di tutto punto.
Probabilmente alla testa della squadriglia c’era il famigerato Salvatore Rizzo. I cinque militari si rifugiarono in un casolare e si prepararono a resistere all’assalto dei malviventi.
Ne nacque un lungo e aspro conflitto a fuoco, ma le due fazioni, quanto ad armi, si rivelarono sbilanciate. I banditi ne avevano in abbondanza e possedevano anche delle granate: apparve subito chiaro quale poteva essere l’esito di quella piccola battaglia! Ma le cose andarono veramente così?
fonte
GLI ANNI DELLA RABBIA 1943-46… BANDITISMO E SEPARATISMO TRA NISCEMI E CALTAGIRONE.