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CORSO DI STORIA DELL’ARTE, “L’età della Controriforma”

Posted by on Ott 6, 2018

CORSO DI STORIA DELL’ARTE, “L’età della Controriforma”

IV.1.1 Inquadramento storico

Tutto il XVI secolo è stato segnato dai contrasti religiosi sorti a seguito della Riforma protestante avviata nel 1517 da Martin Lutero.

 In pratica l’Europa fu spaccata a metà, protestante la parte centro-settentrionale cattolica quella meridionale, e le conseguenze furono notevoli anche sul piano culturale e sociale. In gioco non vi era solo un contrasto ideologico, ma uno scontro di potere che determinò un clima di guerra (molto simile alla «guerra fredda» avutasi dopo la Seconda Guerra Mondiale) combattuta con le armi dell’inquisizione, dello spionaggio e della caccia alle streghe. E questa guerra divenne sempre più cruenta con la conclusione, nel 1563, del Concilio di Trento. Come è noto, questo concilio, convocato nel 1545 per tentare una ricomposizione tra cattolici e protestanti, di fatto divenne il luogo di elaborazione di quella nuova ideologia della chiesa romana che, con la sua Controriforma, dava una risposta alla Riforma proposta dai protestanti.

Il Concilio di Trento dettò norme anche per la produzione artistica commissionata dalla Chiesa (un maggior rispetto delle fonti, bando alle invenzioni gratuite e alle immagini di nudi, sono alcune di queste norme), ma più in generale la Controriforma nel suo complesso determinò una radicale svolta dei tempi, svolta che finì per influenzare l’arte ben al di là delle indicazioni precettistiche date. In sintesi è come se improvvisamente la festa fosse finita. Quel clima di gioiosa eleganza e di sensuale bellezza, che si era respirato per tutto il periodo rinascimentale, era tramontato, per lasciare al suo posto un nuovo clima di rigore morale e di paura.

I protestanti accusavano la Chiesa romana di aver perso il senso di umiltà e povertà che aveva la chiesa delle origini, per inseguire solo potere, ricchezza e piaceri terreni. In realtà, se pensiamo a papi quali Alessandro VI, forse non avevano tutti i torti. La Chiesa romana non poteva non fare una autocritica su questo argomento, ma il risultato fu essenzialmente un clima di maggior severità ma applicato soprattutto verso gli altri. La risposta della Controriforma fu l’intolleranza. Si poteva essere imprigionati, torturati e condannati a morte per semplici reati di opinione. In tal modo, più che vivificare la fede dei credenti, veniva instaurato un clima di terrore che serviva ad arginare la diffusione dello scisma riformistico. Casi emblematici di questa intolleranza furono le note vicende di Giordano Bruno e di Galileo Galilei. In pratica bastava avere idee diverse da quelle delle gerarchie ecclesiastiche per andare incontro ad accuse, processi, terrore e morte.

Questo clima controriformistico di fatto perdurò per tutto il XVII secolo, cominciando a diradarsi agli inizi del Settecento per scomparire definitivamente nel corso del secolo, soprattutto con l’avvento dell’Illuminismo.

IV.1.2 L’arte dopo il Concilio di Trento

La chiesa cattolica ha sempre avuto un rapporto fecondo e produttivo con l’arte. Da non dimenticare che la religione cristiana è stata l’unica grande religione monoteistica a non bandire, per motivi ideologici, la rappresentazione artistica di figure umane e di storie. Di fatto, se nell’Occidente europeo, dopo il tramonto dell’età classica, l’arte non scomparve, lo si deve soprattutto alla Chiesa. Chiesa che, pur avendo una posizione quasi di monopolio sulla produzione artistica, di fatto ha avuto sempre un atteggiamento tollerante verso la creatività degli artisti. Tolleranza che ebbe anche con l’avvento dell’umanesimo, quando il ritorno al mondo classico, ai suoi precetti estetici, nonché al racconto di quei dei ed eroi della mitologia combattuti proprio dal cristianesimo, portarono l’arte a lidi che non sembravano molto ortodossi da un punto di vista religioso.

Ecco perché l’improvviso atteggiamento di intolleranza che la Chiesa assunse, condizionò l’arte in maniera più profonda di quello che può apparire a prima vista. Anche perché non dobbiamo dimenticare che all’epoca gli artisti erano ancora al servizio delle classi dominanti (Chiesa e aristocrazia) e non si sognavano minimamente di svolgere un ruolo da intellettuali controcorrente.

Gli artisti si adeguarono prontamente a questo nuovo clima: non più immagini che potevano inneggiare alla gioia e alla felicità, ma immagini che suscitavano necessità di pentimento e di sacrificio. Il martirio dei santi divenne uno dei temi più ricorrenti fino a tutto il Seicento, quasi a testimoniare una nuova visione della religione basata soprattutto sul dolore e sulla mortificazione. In un certo senso, in questa atmosfera buia, anche i colori si scurirono: sono sempre più gli artisti che, sulla scia di Caravaggio, affondano le loro immagini in una cornice di oscurità avvolgente.

Il Concilio di Trento si occupò delle arti nella sua ultima sessione di lavori. Il problema non era minimo, in quanto i protestanti avevano una posizione decisamente iconoclasta: soprattutto nei paesi tedeschi si diffuse la tendenza a produrre immagini, spesso a stampa, di carattere irriverente o decisamente blasfemo nei confronti della religione cattolica. Per cui non si poteva ignorare il problema di un controllo sull’ortodossia delle immagini prodotte a fini religiosi. In realtà il Concilio di Trento non fornì norme precise, ma introdusse il principio che le opere destinate alle chiese dovevano essere approvate dal vescovo della diocesi. E se le opere non erano conformi alle aspettative, queste potevano essere rifiutate o si poteva richiederne la modifica.

L’azione di controllo, e potenzialmente di censura, fu quindi demandata ai vescovi i quali ebbero atteggiamenti diversificati. In alcuni casi l’azione fu più diretta ed incisiva. San Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano dal 1560 al 1584, pubblicò nel 1577 delle precise istruzioni (Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae) destinate agli architetti e ai pittori e scultori di soggetti sacri, che rimasero quale modello di rigore per l’arte del periodo successivo. Ma già nel 1624 il cardinale Federico Borromeo, con il suo «De pictura sacra», mostrava un atteggiamento di maggiore tolleranza.

In campo artistico, in realtà, non ci furono atteggiamenti fortemente intolleranti o di censura, come avvenne invece nel caso della produzione a stampa di libri o di opere scientifiche. Unico caso noto di procedimento inquisitorio nei confronti di un artista è quello a carico di Paolo Veronese, per l’opera «Cena in casa Levi». Ma anche qui non ci furono soluzioni radicali, e il compromesso fu presto raggiunto con qualche piccola modifica e con il cambio del titolo all’opera.

Alla fine gli artisti cercarono di non usare eccessivamente il nudo, soprattutto femminile, che, se non scomparve del tutto, risultò più castigato e meno lascivo. E i soggetti mitologici, che neppure scomparvero, furono riservati solo alle opere laiche per la committenza privata.

IV.1.3 La pittura tra fine ’500 e inizi ’600

Dopo il Concilio di Trento lo spirito del Rinascimento si è decisamente esaurito, non però la pittura, definita «manierista», che ne era derivata. Il superamento di questa pittura avvenne in un paio di decenni tra fine Cinquecento e inizi Seicento, grazie soprattutto a tre pittori: Annibale Carracci, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio e il pittore fiammingo Pieter Paul Rubens. Annibale Carracci è il più giovane di un terzetto di artisti bolognesi formato, oltre che da lui, dal fratello Agostino e dal cugino Ludovico. Questi tre artisti diedero vita a Bologna all’Accademia degli Incamminati che fu il baricentro di quella tendenza dell’arte seicentesca che definiamo «classicismo». Nei loro insegnamenti si cercava di coniugare il modello dei grandi maestri cinquecenteschi, quali Raffaello e Tiziano, con un rinnovato studio del vero: in pratica una pittura che coniugasse l’idealismo (fatto di armonia, proporzione, decoro, misura, ecc.) con il realismo (fatto soprattutto di ispirazione e studio della realtà).

Ma l’artista che più rappresentò il realismo (o naturalismo) fu sicuramente Caravaggio. Egli fu autore di un’autentica rivoluzione pittorica, dimostrando la forza che poteva avere una rappresentazione esatta della realtà, senza alcuna trasfigurazione o aggiustamento. Il suo stile, unito anche ad una grandissima qualità pittorica innata, gli permise di produrre opere che ebbero un’influenza grandissima su tutta la pittura europea del XVII secolo.

Il fiammingo Pieter Paul Rubens, infine, fu il pittore che unendo in una originale sintesi spunti realisti tipici dell’arte nordica con gli ultimi virtuosismi dell’arte manierista creò la pittura barocca, pittura molto esuberante giocata sempre su composizioni molto complesse.

Questi sono in sintesi i tre maggiori percorsi lungo la quale si snoda l’arte europea del Seicento: il classicismo, il naturalismo e il barocco. Mentre di quest’ultimo stile ci occuperemo nel prossimo capitolo, vediamo la differenza fondamentale che passa tra classicismo di matrice carraccesca e naturalismo alla Caravaggio.

Per capire questa differenza conviene fare un esempio. Un pittore rinascimentale come Raffaello quando doveva dipingere una Madonna usava probabilmente una modella, ma l’immagine che ne derivava non era il ritratto della donna in carne e ossa che lui aveva davanti, altrimenti la finzione non sarebbe passata: il quadro doveva raffigurare un’immagine femminile idealizzata (quale noi attribuiamo, per convenzione culturale ma anche per aspettativa psicologica, alla Madonna) e non una figura di una donna reale appartenente ad un tempo ed un luogo relativi. Questo procedimento di passare dal reale all’ideale lo possiamo chiamare di «trasfigurazione». In questo modo la realtà veniva aggiustata a quelle che sono le «regole dell’arte»: decoro, compostezza, ordine, armonia, eccetera. Questo è il processo che attuavano i Carracci.

Caravaggio, al contrario, abolì dalla sua pittura qualsiasi «trasfigurazione»: la realtà rappresentata nei suoi quadri appariva nuda e cruda come l’immagine reale che si presentava agli occhi del pittore. I modelli e le modelle erano rappresentati con tale verismo da sembrare quasi foto reali. L’effetto, per il pubblico del tempo, fu quasi sconvolgente: non erano abituati a veder rappresentata la realtà senza il filtro della «trasfigurazione» e ciò che vedevano nei quadri di Caravaggio era troppo forte da essere immediatamente accettato.

Altra differenza notevole tra lo stile dei Carracci e quella di Caravaggio è ancora una volta, come già tra fiorentini e veneziani, il diverso rapporto tra disegno e pittura. Mentre per i Carracci l’arte nasce soprattutto dal disegno, che rimane la trama logica, razionale e visibile, dell’immagine costruita, Caravaggio costruisce i suoi quadri solo con gli strumenti della pittura: cioè luce e colore. Non solo: nella sua evoluzione stilistica Caravaggio accentuò sempre più il contrasto tra luce e ombra, al punto che l’immagine non poteva più essere costruita con gli strumenti razionali del disegno. In pratica nei suoi quadri ciò che appare non è la struttura dei corpi, ma solo quel tanto che opportuni effetti di luce ci permettono di vedere. E questi effetti di luce, quasi lampi che appaiono nell’oscurità per mostrarci un’immagine affogata nel buio, divennero una delle cifre stilistiche più forti di Caravaggio.

Lo stile di Caravaggio ebbe un’influenza enorme nei pittori a lui posteriori, che compresero la grande forza di un’arte che riesce a drammatizzare la realtà con il semplice ricorso alla rappresentazione veritiera e a un sapiente uso della luce e dell’ombra. La sua presenza a Napoli fu uno stimolo enorme per quei pittori, quali Battistello Caracciolo, Massimo Stanzione, Mattia Preti e tanti altri, che diedero vita ad una indimenticabile stagione artistica napoletana che si svolse per tutto il XVII e XVIII secolo. La sua influenza fu recepita da pittori spagnoli, Zurbaran e Velazquez su tutti, da pittori francesi quali George De La Tour ed anche da quello che rimane sicuramente il maggior pittore olandese del Seicento: Rembrandt.

IV.1.4 La nascita dei generi pittorici

Nel corso del Cinquecento, la produzione pittorica conosce un aumento vertiginoso rispetto ai secoli precedenti. Ciò è dovuto a molteplici cause, quali l’aumento della ricchezza (quindi maggior committenza soprattutto privata) ma anche la maggior bravura dei pittori in grado di soddisfare qualsiasi esigenza di rappresentazione. Inoltre, l’introduzione dei colori ad olio e della tela come supporto, ebbero la conseguenza di far aumentare la produzione di beni mobili (quadri da cavalletto) rispetto a quelli immobili (affreschi e mosaici), con la conseguenza che venne favorito il collezionismo e il mercato delle opere d’arte. In maniera più o meno diretta, queste cause produssero un ulteriore effetto: aumentò la specializzazione dei soggetti delle opere d’arte. E con ciò nacquero i cosiddetti «generi», che altro non sono che un raggruppamento delle opere per soggetti omogenei.

La consapevolezza che potessero esistere più generi pittorici fu chiara quando presero autonomia i soggetti che raffiguravano i paesaggi e le nature morte. Precedentemente il paesaggio veniva utilizzato solo come sfondo di quadri che avevano altri soggetti principali: il ritratto, il racconto di una storia, e così via. L’idea, poi, di fare quadri che rappresentassero solo composizione di oggetti inanimati non era mai stata considerata per mancanza di una reale motivazione. Quando il collezionismo cominciò a far tesoro anche di disegni preparatori e studi di quadri, anche questo genere trovò una sua possibilità di commercializzazione.

In Italia, le prime opere di capostipiti di questi due nuovi generi, vengono fatte risalire ad Annibale Carracci e a Caravaggio. La «Fuga in Egitto» realizzata nel 1603 dal Carracci viene considerata come il primo quadro di paesaggio, mentre la «Canestra di frutti» del 1596 del Caravaggio è considerata la prima natura morta dell’arte italiana. Il Carracci è anche considerato l’iniziatore della cosiddetta pittura «di genere». Con questo termine vengono normalmente indicate le opere che raffigurano momenti ed episodi di vita quotidiana presi tra la gente comune. Tipici sono le sue opere quali «La macelleria», del 1583, o «Il mangiafagioli», dello stesso anno, in cui non sono narrati episodi né storici né religiosi né mitologici, ma è rappresentata la vita comune, e spesso pittoresca, del popolo minuto.

Nel corso del Seicento e Settecento, la specializzazione per generi della pittura ebbe largo seguito, e molte saranno le opere prodotte nei diversi ambiti. Particolare evoluzione ebbe soprattutto il genere vedutistico. Con questo termine intendiamo non solo la rappresentazione di paesaggio (che normalmente raffigura scorci di natura quali montagne, colline, laghi, cascate, vedute marine eccetera), ma un genere più ampio che comprende anche le rappresentazioni di città, in scorci a volte ampi (come dei paesaggi) a volte molto più ristretti, quali un angolo di strada magari con qualche scena di pittoresca vita quotidiana.

Questa divisione per generi della pittura produsse anche riflessioni e dibattiti su quali fossero i generi più o meno nobili o più o meno ardui da affrontare. A titolo di esempio riportiamo quanto scrisse il teorico francese André Félibien des Avaux (1619-95). Secondo Félibien quattro erano i principali generi che lui elencava secondo la seguente scala di difficoltà: la natura morta, il paesaggio, il ritratto, le pitture di storia. Il genere più semplice era quello della natura morta perché l’artista rappresentava solo oggetti inanimati, che poteva controllare nelle composizioni e nelle luci che meglio preferiva, e quindi il compito gli risultava agevole. Più difficile era rappresentare il paesaggio, perché qui il pittore non poteva spostare la composizione come voleva e la luce da rappresentare era quella naturale. Di difficoltà maggiore risultava quindi il ritratto perché qui il pittore si doveva confrontare non con soggetti inanimati ma con persone vive, che doveva rappresentare cogliendone anche l’aspetto psicologico. Infine la pittura di storia (intendendo con questo termine opere di tipo narrativo sia nel campo prettamente storico, sia in quelli religioso o mitologico o favolistico in genere) rappresentava il grado di maggior difficoltà che un pittore poteva affrontare. Innanzitutto perché nei quadri di storia vi erano tutti i generi precedenti (la natura morta, il paesaggio e il ritratto) ma in più il pittore doveva anche rappresentare il movimento, cioè dipingere i personaggi non in posizione statica, come nei ritratti, ma nell’atto di muoversi compiendo un’azione. In sintesi doveva cogliere il dinamismo aggiungendo pathos alla scena rappresentata.

Ovviamente questa fu una idea espressa da Felibien, e non fu l’unica riguardo alle progressive difficoltà dei generi pittorici: altri scrittori proposero altre riflessioni, anche se l’analisi del teorico francese, probabilmente, fu quella che più si avvicinava al comune sentire dei pittori, i quali per tutto il XVII e XVIII ebbero effettivamente la tendenza a specializzare il loro operato in base a questi generi.

 

IV.1.5 Annibale Carracci

Annibale Carracci (1560-1609), insieme al fratello maggiore Agostino e al cugino Ludovico, è il pittore che più di ogni altro recupera la lezione classicista del Rinascimento italiano e la proietta nell’arte del Seicento quale matrice di classica bellezza. Nella sua opera si avverte la reazione a quel manierismo teso alla ricerca di nuovi effetti spettacolari, in nome di un ritorno ai fondamenti classici della pittura: lo studio dal vero e dalle opere dei grandi maestri predecenti, da Raffaello a Michelangelo, da Correggio a Tiziano.

Bolognese di nascita, svolse qui i suoi primi lavori, e sempre in questa città fondò insieme al fratello e al cugino, l’Accademia dei Desiderosi (1582), che dal 1590 prese il nome di Accademia degli Incamminati, accademia che svolse un ruolo fondamentale nel diffondere la tendenza classicista nell’arte del Seicento. Nel 1594 si trasferì a Roma, dove in quegli anni iniziava la sua attività anche Caravaggio. E Annibale Carracci rappresenta proprio la polarità opposta rispetto a quella di Caravaggio. Mentre quest’ultimo rivoluziona la pittura per una ricerca di totale realismo nella rappresentazione pittorica, Annibale Carracci rappresenta la tradizione, nella continuità dei maestri del Rinascimento italiano.

Le sue opere spaziano tra generi diversi, non disdegnando incursioni in territori quasi inesplorati. Nella lunetta che raffigura la «Fuga in Egitto» si tende unanimamente a riconoscere la prima pittura di paesaggio dell’arte italiana, paesaggio che da questa opera in poi assurgerà a genere autonomo e svincolato da quello di storia. Non mancano nella sua produzione anche interessanti opere «di genere», quali la «Bottega del Macellaio» o il «Mangiafagioli».

OPERE

Annibale Carracci, Volta della Galleria di Palazzo Farnese, 1597-1600, Palazzo Farnese, Roma

Nel 1594 il cardinale Odoardo Farnese invitò i Carracci a trasferirsi a Roma con l’incarico di affrescare alcuni ambienti del suo palazzo. L’invito non fu accolto da Ludovico, che preferì rimanere a Bologna ad occuparsi della loro Accademia. Annibale fu invece affascinato dall’idea di trasferirsi a Roma e convinse il fratello Agostino a seguirlo. Quest’ultimo si trattenne per poco, mentre Annibale si trattenne per oltre un decennio nella città eterna, divenendone l’artista più acclamato.

Tra le sue prime opere romane vi furono ovviamente gli affreschi per il Palazzo Farnese, che si protrassero fino al 1600. Tra le diverse opere realizzate, il capolavoro fu la decorazione della volta della Galleria.

Per decorare una volta, le tecniche che si potevano usare erano fondamentalmente due: o il «quadraturismo» o i «quadri riportati». Con il primo termine si usava indicare quelle decorazioni che simulavano soprattutto elementi architettonici, per creare l’effetto di uno spazio illusionistico indipendente dallo spazio reale racchiuso dalla volta. Il secondo termine indicava invece la scelta di utilizzare la volta adagiandoci sopra delle scene come fossero quadri, ma disposti sulla superficie curva della volta. Un tentativo riuscito di unire le due tecniche fu già utilizzata da Michelangelo per la volta della Sistina. Non è quindi da meravigliarsi che Annibale Carracci, che in questo periodo si ispira molto alle opere di Raffaelle e Michelangelo, adotti la Sistina come modello per la sua volta. Tra finte membrature architettoniche, compone la volta come una finta quadreria con tanto di cornici dipinte. L’insieme che ne risulta appare molto originale e dinamico: una vera festa per gli occhi, che nei suoi giochi illusionistici sembra anticipare già lo spirito barocco che di lì a qualche anno sorgerà nella città dei papi.

Al centro della volta è il grande affresco con il «Trionfo di Bacco e Arianna». L’immagine procede da sinistra verso destra. A sinistra vediamo Bacco, dio del vino, con la testa cinta d’edera e il tirso in mano, che avanza su un cocchio trainato da leopardi, animali che vengono collegati al culto del dio. Al suo fianco, su un altro cocchio trainato da capri, è invece Arianna, che divenne la sposa di Bacco dopo essere stata abbandonata da Teseo. Un puttino sta collocando sulla sua testa una corona di stelle, ad evocare il diadema di Arianna che Bacco lanciò in cielo e fu trasformato in costellazione. Al corteo partecipano anche satiri e baccanti (donne che si votavano al culto di Bacco) con dei tamburelli in mano. Il corteo, sulla destra, è aperto invece da Sileno, già maestro di Bacco, che viene sorretto su un asino in quanto era sempre troppo ebbro per poter camminare da solo.

La composizione è decisamente studiata in ogni minimo dettaglio, con un rispetto meticoloso per le fonti letterarie, in particolare per le Metamorfosi di Ovidio. Lo stile è decisamente classicheggiante e si sviluppa nel rispetto della grande tradizione dell’arte rinascimentale.

In questo riquadro posto allato del «Trionfo di Bacco e Arianna» vediamo invece raffigurati Mercurio e Paride. Il dio, messaggero degli dei, sta portando a Paride la mela che egli dovrà consegnare alla donna che ritiene la più bella. Egli fu infatti scelto quale giudice per la disputa sorta tra le dee nell’Olimpo ma la sua preferenza cadde su Elena, facendo quindi scoccare la scintilla che portò alla guerra di Troia.

In questa immagine è ovviamente tutto idealizzato, sì che anche le due figure appaiono decisamente troppo perfette. Non si fatica a riconoscervi anche l’influenza dei nudi michelangioleschi. Ma l’immagine è decisamente illuminante, per comprendere i fondamenti dell’arte di Annibale Carracci, se viene confrontata a quello che andava facendo in quegli anni Caravaggio. In quest’ultimo anche gli dei assumono aspetto troppo umano, per assoluta mancanza di trasfigurazione. Le sue immagini sono sconvolgenti proprio perché non appaiono «finte». Le immagini di Carracci sono invece arte quale artificio. Nascono dal disegno e vengono colorate nei colori che ci consentono la più chiara visione del tutto.

Annibale Carracci, Assunzione della Vergine, 1601, Cappella Cerasi, Santa Maria del Popolo, Roma

Nel 1601 il cardinale Tiberio Cerasi, tesoriere di papa Clemente VIII, decise di decorare la cappella da lui acquistata nella chiesa di Santa Maria del Popolo. Commissionò la pala d’altare, che doveva raffigurare l’Assunzione della Vergine, ad Annibale Carracci, mentre altre due tele, con la «Crocefissione di san Pietro» e la «Conversione di san Paolo», furono commissionate a Caravaggio. La presenza nello stesso luogo di queste tre opere, ci consente un confronto tra le due tendenze fondamentali dell’arte romana agli inizi del Seicento. Da un lato il naturalismo di Caravaggio, dall’altro l’idealismo classicheggiante di Annibale Carracci che qui apre già uno spiraglio verso il barocco.

La tela ha una composizione che supera l’iconografia classica, di questo soggetto, sviluppata su tre livelli: quello superiore, divino, quello inferiore, terreno, e quello intermedio dove si vedeva il transito della Madonna, con tutto il corpo, dalla Terra al Cielo. In questo caso, invece, Annibale Carracci crea una composizione più unitaria con i tre livelli che si intrecciano tra loro. Ne vien fuori una composizione apparentemente piramidale, ma con un motivo a V creato dalle due ali di persone che si dispongono ai lati della Madonna. La Vergine, a sua volta, con le braccia aperte assume una forma triangolare che si va precisamente ad incuneare nella V formata dalle persone. Se uniamo al dinamismo di questa composizione la varietà degli scorci nonché la variegata gamma cromatica che l’artista usa, abbiamo un’opera che esprime una sensibilità che è già di matrice barocca.

In questa tela, come in altre opere posteriori del Carracci, si nota un più deciso superamento dell’idealismo, di matrice rinascimentale, per approdare ad uno stile che cerca nella padronanza della tecnica nuovi spunti per invenzioni più ardite.

Annibale Carracci, Fuga in Egitto, 1603-04, Galleria Doria Pamphili, Roma

Nel 1603 Annibale Carracci ricevette la commissione di dipingere delle tele semitonde da collocare nelle lunette della Cappella nel palazzo Aldobrandini. Tra queste lunette, per lo più opere della sua bottega, vi è anche questa «Fuga in Egitto», che viene riconosciuta come la prima opera paesaggistica dell’arte italiana.

In realtà, il quadro non è molto dissimile da tantissime opere del Quattrocento e Cinquecento italiani: il quadro narra un episodio del vangelo e sullo sfondo si vede un paesaggio. Ciò che cambia decisamente è però il rapporto tra i due elementi: gli elementi del racconto diventano minuscoli, mentre si ingigantisce, fino ad occupare la maggior parte dello spazio, il paesaggio.

Ma il carattere di maggior novità è proprio l’aspetto del paesaggio, che rivela un gusto descrittivo, ma idealistico, per creare una visione ad alta valenza estetica ed emotiva. Il paesaggio si avvia a divenire genere autonomo, proprio perché è in grado di suscitare emozioni che solo una tale visione può generare. In realtà, viste anche le influenza che questo tipo di paesaggio esercita su pittori quali Nicolas Poussin o Claude Lorrain, possiamo ritenere che Annibale Carracci, con questo quadro, fissi il canone del genere paesaggio per tutto il secolo successivo.

Annibale Carracci, Il mangiafagioli, 1583-84, Galleria Colonna, Roma

I Carracci, ed in particolare Annibale, sono stati artisti con più frecce al proprio arco. Che avessero sufficiente padronanza del mestiere per poter spaziare su tecniche e generi diversi, è abbastanza chiaro. Questa tela è una ulteriore testimonianza della loro poliedricità.

Nella tela vediamo un popolano che sta seduto ad un tavolo a consumare, con evidente appetito, un pasto a base di fagioli, cipolle, funghi e pane, accompagnato da vino bianco. La scena è probabilmente ambientata in una taverna, dove non vi è alcuna nota di lusso o eleganza. Quadri di questo tipo vengono definiti quadri «di genere», ad indicare il loro carattere didascalico e illustrativo degli aspetti minori, o folkloristici, della vita quotidiana.

Perché Annibale Carracci realizza questo quadro è presto detto: il suo modo di superare l’artificiosità del manierismo era di ritornare ad una dirette ispirazione alla realtà. Ma, questa sua intenzione, in linea con quanto teorizzato dall’Accademia inventata dai Carracci, finisce ben presto in un vicolo cieco, e sarà invece soprattutto l’ispirazione diretta ai maestri rinascimentali (non mediata dalle opere dei manieristi) a condurre Annibale Carracci all’approdo di una pittura più idealizzante che realista, mentre su questo terreno sarà soprattutto Caravaggio a produrre gli esiti più interessanti e rivoluzionari.

IV.1.6 Caravaggio

Caravaggio è il soprannome di Michelangelo Merisi (1571-1610), pittore di origine lombarda figlio di un architetto. Nei suoi anni di apprendistato Caravaggio si muove sulle esperienze della pittura lombardo-veneta, in particolare di artisti quali Giovan Gerolamo Savoldo o Giovan Battista Moroni, nei quali compare già un controllo dell’effetto cromatico-luminoso che potremmo definire, a posteriori, di caravaggesca sensibilità. Nel 1593 Caravaggio giunse a Roma per restarvi fino al 1606. In questi tredici anni di soggiorno romano l’artista maturò la sua grande cifra stilistica, che lo portò ad essere uno dei maggiori riferimenti di tutta la pittura europea del XVII secolo e oltre.

A Roma condusse una vita sregolata, segnata da episodi non sempre chiari, fino a quando, il 29 maggio 1606 uccise un ragazzo per un banale litigio. Fu quindi costretto a fuggire e cominciò una peregrinazione che si chiuse, quattro anni dopo, con un epilogo non felice. Dopo essersi stabilito per un anno a Napoli, fu costretto a riparare a Malta, onde sfuggire all’estradizione che ne aveva chiesto lo Stato pontificio. Qui rimase per un certo tempo ma poi, per contrasti avuti con l’Ordine dei Cavalieri di Malta, fu costretto a fuggire nuovamente. Si portò in Sicilia dove si spostò tra Siracusa, Messina e Palermo. Nell’ottobre del 1609 fu di nuovo a Napoli e qui, dopo alcuni mesi, fu riconosciuto da alcuni Cavalieri di Malta e ferito in un agguato. Dopo essersi ripreso dalle gravi ferite, fu raggiunto dalla notizia che il papa gli avrebbe perdonato l’omicidio compiuto. Si diresse verso Roma via mare e sbarcò a Porto Ercole. Qui fu arrestato e poi rilasciato dopo due giorni. Ma dopo aver constatato che era stato derubato di tutto, fu preso da forti febbri e morì sulla spiaggia di Porto Ercole il 18 luglio 1610. Si concludeva così, a meno di quarant’anni, la vita di uno dei più grandi pittori mai esistiti, che passerà alla storia come il prototipo dell’artista maledetto: il genio che vive la sua vita al di là dei limiti, andando inevitabilmente incontro ad un destino tragico, perché non potrà conciliare diversamente la sua natura umana con la sua prepotente genialità.

Le opere di Caravaggio sono divenute tutte celeberrime, e costituiscono ognuna un’icona stessa dell’arte pittorica, divenute modelli per infinite ispirazioni. Ma, dovendo sintetizzare l’enorme contributo che Caravaggio diede alla pittura europea del suo tempo, due sono i punti di maggior forza ed interesse: il realismo e l’effetto-notte.

La prima grande novità della sua pittura è che Caravaggio non trasfigura mai i suoi soggetti. Se egli prende un ragazzo di strada per farlo posare come modello per un Bacco, nel quadro che realizza, il Bacco rappresentato avrà le fattezze precise del modello: non un’astratta immagine convenzionale che possiamo attribuire al dio greco, ma il ritratto sputato di un ragazzo del primo Seicento.

Questo realismo così intenso ed esasperato nasceva da una posizione concettuale molto distante dai precetti pittorici rinascimentali. Il pittore non era tenuto a conoscere la geometria precisa (conoscibile solo intellettualmente) dei corpi e dello spazio che rappresentava, ma ad osservare attentamente solo ciò che l’occhio proponeva alla visione. Le posizioni sono antitetiche: in un quadro rinascimentale vi è la chiarezza dell’immagine, che è chiara nella sua struttura interna anche se non sempre visibile. Nei quadri di Caravaggio l’immagine è solo ciò che appare dalla visione: ciò che non si vede non interessa. Un’attenzione così puntuale ed intensa a cogliere il dato visibile gli impedisce qualsiasi idealizzazione o trasfigurazione del reale. La sua pittura ha un’aderenza così intima e totale alla realtà che con lui, in pratica, nasce il realismo nella pittura moderna. E ne deriva una diversa concezione estetica: l’arte non è più il luogo dove la realtà trova un ordine nuovo basato sulle aspettative di bellezza e perfezione dell’animo umano, ma il luogo dove la realtà ci assale con tutta la sua drammaticità. La vita è il luogo delle contraddizioni: l’arte, perché è finzione, può risolverle e superarle (e questa è la posizione idealista), oppure può semplicemente rappresentarle (e questa è la posizione realista).

Nei quadri di Caravaggio un’attenzione particolare è sempre riservata alla luce. Non poteva essere diversamente visto che egli perseguiva una pittura realista. Ma il dato stilistico che egli inventa è l’abolizione dello sfondo per circondare le immagini di oscurità. Ottiene così un effetto molto originale: le sue immagini sembrano sempre apparizioni dal buio. Le figure appaiono grazie a sprazzi di luce: una fiaccola, uno spiraglio di finestra aperta. In questo modo l’immagine che si coglie è solo una parte della realtà: solo quel tanto che la debole illuminazione ci consente di vedere. Il resto rimane avvolto dall’oscurità, ossia dal mistero. È il buio che domina in queste immagini, quasi ad accentuarne la drammaticità. Perché questo buio è una specie di notte calata sul mondo, per assorbirne i lati più gradevoli, e lasciarvi solo paura e terrore.

Il buio è il luogo stesso delle nostre angosce e paure nei confronti di dolori, morte, sofferenze. I quadri di Caravaggio ci riportano proprio a questo territorio: è la pittura più drammatica mai vista fino ad allora, e rappresenta inevitabilmente quella oscurità, fatta di inquisizione e terrore, che sembra calata sulle coscienze dopo l’avvento della Controriforma.

OPERE

Caravaggio, Ragazzo con il canestro di frutta, 1593-94, Galleria Borghese, Roma

Questo celeberrimo quadro di Caravaggio è una delle prime opere che egli realizza a Roma, dove vi era giunto all’età di ventidue anni. Dopo un breve periodo passato a lavorare per un prelato marchigiano di nome Pandolfo Pucci, andò a lavorare presso la bottega del Cavalier d’Arpino, pittore il cui vero nome era Giuseppe Cesari. Qui fu impiegato a realizzare «fiori e frutta», ed è qui che probabilmente nacque il suo interesse per le nature morte. In questo quadro la natura morta non è però a se stante, ma sorretta dalla figura di un giovane ragazzo.

Ciò che si nota è innanzitutto l’estremo realismo con cui sono realizzate sia la figura del ragazzo sia il canestro con la frutta che regge in mano. Già in quest’opera si nota la sua estrema abilità e raffigura il reale così come appare, senza alcuna trasfigurazione. Perché il ragazzo non ha un aspetto «idealizzato»: ha la faccia autentica da vero ragazzo di quel tempo, ordinario non bello quasi un po’ volgare.

Alle sue spalle vi è subito una parete che crea uno spazio ristrettissimo: uno spazio mosso da un una luce che proviene dall’angolo superiore sinistro, luce che però non coinvolge la figura in primo piano, la cui perfetta definizione è ancora memore di una sensibilità tardorinascimentale.

Caravaggio, Bacchino malato, 1593-94, Galleria Borghese, Roma

Rispetto al «Ragazzo con il canestro di frutta», questo «Bacchino malato» appare ancora più sconvolgente nel suo crudo realismo. La figura dovrebbe rappresentare il dio Bacco, visto che ha un tralcio d’uva in testa e un grappolo in mano. Tuttavia questo non è un ipotetico ritratto del dio del vino, ma è il ritratto preciso e inconfondibile del modello che doveva imitare Bacco.

In pratica egli è talmente preciso nel rappresentare ciò che vede, che nessuno, guardando questo quadro, può immaginare di vedere un dio greco. Ciò che si vede è solo un ragazzo romano della fine Cinquecento agghindato come se fosse il dio Bacco. Un ragazzo dall’aspetto un po’ malaticcio, pallido, con labbra livide, e decisamente poco attraente.

È stato ipotizzato che questo sia in realtà un autoritratto di Caravaggio. Dalle testimonianze di Giovan Pietro Bellori, che nel 1672 pubblicò un libro dal titolo «Vite de’ pittori, scultori e architetti moderni», sappiamo che Caravaggio, dopo essere rimasto poco tempo nella bottega del Cavalier d’Arpino, si mise in proprio e le prime opere che realizzò le fece posando lui stesso davanti ad uno specchio. Siccome in quegli anni ebbe anche un incidente per il quale dovette essere ricoverato in ospedale, da ciò deriverebbe forse l’aspetto un po’ malaticcio che ha nel quadro.

Ma, indipendentemente da ciò, il quadro è emblematico del verismo di Caravaggio, verismo come mai prima si era visto in un pittore. Se si confronta questa immagine con gli dei e le divinità che in quegli anni Annibale Carracci realizzava nella Galleria Farnese, si capisce immediatamente fino a che punto il verismo di Caravaggio appare rivoluzionario e sconvolgente.

Caravaggio, Canestro di frutta, c. 1596, Pinacoteca Ambrosiana, Milano

Questa opera di Caravaggio è anch’essa divenuta un’icona della pittura, rappresentando sicuramente la natura morta più famosa dell’arte italiana. Del resto è questa l’unica natura morta certa, attribuibile al Caravaggio, che pure è stato a lungo considerato come il primo pittore italiano ad occuparsi di questo nuovo genere, nato qualche decennio prima nei Paesi Bassi.

Il realismo dell’immagine è davvero sorprendente: non vi è alcun particolare che non sia di una precisione estrema. Ma ciò che più impressiona è il particolare della mela bacata. Un particolare che ci introduce ad una inaspettata dimensione drammatica: di fuori le cose possono apparire perfette, ed invece il male è già dentro che mina dall’interno. Del resto, conoscendo Caravaggio, non c’è da meravigliarsi di questa nota pessimistica, che traspare sempre da un arte che non è fuga nel sogno ma coscienza piena della drammaticità della vita.

Caravaggio, San Matteo nella Cappella Contarelli, 1599-1602, San Luigi dei Francesi, Roma

Le tre tele che Caravaggio realizza per la Cappella Contarelli sono la prima importante commissione che egli realizza a Roma, e rappresentano anche un importante punto di svolta nel suo stile.

La cappella è sita nella chiesa di San Luigi dei Francesi, ed era stata acquista dal cardinale francese Mathieu Cointrel (il cui nome è stato poi italianizzato in Matteo Contarelli) nel 1565. Il suo intento era di decorarla con storie dedicate a san Matteo, di cui lui portava il nome. Il piano iconografico fu da lui stesso definito: al centro vi doveva essere la pala d’altare con l’effige del santo e ai due lati le immagini con la vocazione del santo e con il suo martirio. Dei lavori fu incaricato un pittore bresciano di nome Girolamo Muziano, il quale in vent’anni non realizzò alcunché. Nel 1585 il cardinale morì e i suoi eredi decisero di rivolgersi ad altri. Nel 1587 diedero incarico ad uno scultore fiammingo di nome Jacob Cobaert di realizzare un gruppo scultoreo, che egli effettivamente consegnò quindici anni dopo, gruppo che però non incontrò i favori dei committenti. Nel 1591 gli eredi del cardinale decisero di rivolgersi al Cavalier d’Arpino per la decorazione pittorica della cappella, ma questi, in circa due anni, realizzò solo l’affresco della piccola volta. Così, all’approssimarsi dell’anno santo del 1600, la cappella risultava ancora disadorna e gli eredi del Contarelli, anche grazie alle sollecitazioni del cardinal Del Monte, nuovo protettore di Caravaggio, decisero di rivolgersi al pittore di origine lombarda per far decorare la cappella. Ed infatti, Caravaggio, nel giro di meno di due anni, consegnò le due tele raffiguranti la «vocazione di san Matteo» e il «martirio di san Matteo».

Due anni dopo, nel 1602, anche il gruppo scultoreo di Jacob Cobaert fu consegnato, ma dopo pochi mesi fu rimosso. I committenti si rivolsero nuovamente al Caravaggio il quale realizzò una tela in cui era raffigurato san Matteo con un libro aperto poggiato sulle gambe, e di fianco un angelo che gli dirigeva la mano per scrivere sul libro. Poco dopo anche questa tela fu rimossa, perché non era stata gradita (è poi finita a Berlino dove è stata distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale), e la suo posto Caravaggio realizzò una seconda versione, che è quella che tuttora si trova nella Cappella.

È ormai accertato che la prima tela che Caravaggio realizzò fu quella del martirio. Dopo diversi tentativi pervenne a questa composizione che risulta un po’ sovraffollata. Il groviglio di corpi rimanda a composizioni manieriste mentre i nudi sono di chiara derivazione michelangiolesca. Il santo è sopraffatto dal soldato etiope mandato dal re Hirtacus ad impedire che san Matteo proseguisse la sua opera di proselitismo. Un angelo si sporge da una nuvola per porgere a san Matteo la palma simbolo di martirio. Tutto intorno vi è un aprirsi della folla che assiste inorridita a quanto sta avvenendo. Tra le persone ritratte si riconosce in fondo a destra un uomo con barba e baffi che probabilmente è lo stesso Caravaggio.

L’intera scena è circondata dal buio, come se il tutto stesse avvenendo di notte. Da questo momento Caravaggio userà sempre il fondo scuro per le sue immagini. Qui, tuttavia, vi è una chiara incertezza sull’uso della luce che ha il compito di rischiarare l’immagine dall’oscurità. Il distribuirsi delle zone chiare non segue una direzione precisa ed univoca, così che anche la composizione del quadro sembra svolgersi senza un motivo unitario.

Sicuramente il quadro con la «vocazione» di san Matteo risulta più efficace e compiuto. Motivo principale del quadro è il fascio di luce che proviene da una finestra che non vediamo, posta sulla destra dell’immagine. Questa luce ha un valore altamente simbolico. Essa proviene dalle spalle di Gesù, quasi forza che lo precede, ed è tale la sua intensità che la finestra aperta sulla parete di fronte non emana alcuna luce. Se questa finestra non emana luce perché è notte, a maggior ragione la luce da destra che rischiara l’ambiente ha un valenza prettamente simbolica.

Il fascio di luce ci fa intravedere la figura di Gesù, parzialmente coperta da quella di san Pietro. Entrambi stanno indicando san Matteo, ma il gesto di Gesù ha una maggiore forza e determinazione. San Matteo, al momento della chiamata di Gesù, era un gabelliere, cioè un esattore di tasse. Incarico sicuramente odioso non esente da una componente violenta. Quando Gesù lo incontrò, gli disse di seguirlo e san Matteo abbandonò tutto per obbedirgli.

Caravaggio trasforma questo episodio in una scena dei suoi tempi. San Matteo, e gli altri gabellieri seduti con lui a contare i denari raccolti, hanno abiti seicenteschi, ed anche l’ambiente somiglia molto ad una taverna della Roma di quegli anni. Come a dire che il sacro non ha una collocazione lontana nel tempo e nello spazio, ma è sempre presente tra di noi. E una sua chiamata può sempre giungerci. Ovviamente il crudo realismo di Caravaggio ebbe un ruolo determinante per giungere a questo risultato.

Da questo momento in poi la pittura di Caravaggio acquista un carattere sempre più drammatico, sia nei soggetti sia nel suo stile che accentua in maniera violenta i contrasti tra luci ed ombre. Tuttavia la prevalenza è sempre dell’oscurità, e le immagini si riducono all’essenziale rischiarate da una luce che ha sempre un valore più simbolico che reale. La luce è quanto noi possiamo conoscere del tutto che ci rimane invisibile. Per questo i quadri di Caravaggio producono sempre una forte risonanza interiore in chi guarda: sono il frammento di un mistero che non riusciremo mai a rischiarare.

Il terzo quadro con san Matteo e l’angelo fu realizzato da Caravaggio in un secondo momento, dopo che gli eredi del Contarelli decisero di rimuovere la statua realizzata da Cobaert. Caravaggio realizza una prima versione, ma gli eredi la rifiutarono. In questo quadro si vedeva san Matteo con l’aspetto di un popolano quasi analfabeta, al quale l’angelo dirigeva la mano per farlo scrivere. Anche in questo caso ciò che non fu compreso fu l’eccessivo realismo del pittore, il quale non aveva la predisposizione a trasfigurare la realtà ma a rappresentarla in maniera nuda e cruda.

La seconda versione apparve invece più accettabile. Qui il santo scrive da solo, mentre l’angelo gli dà dei suggerimenti. In questo modo si salvava la tradizione, che voleva san Matteo ispirato da un angelo, ma al contempo si vedeva un santo con l’aspetto di un vecchio saggio, di certo non analfabeta.

Caravaggio, Crocefissione di san Pietro, 1600-01, Cappella Cerasi, Santa Maria del Popolo, Roma

Dopo la commissione per la Cappella Contarelli, un altro importante lavoro fu affidato al Caravaggio, nel settembre del 1600, questa volta da Tiberio Cerasi, tesoriere di papa Clemente VIII: due tele da collocare nella cappella da lui acquistata nella chiesa di Santa Maria del Popolo. Caravaggio doveva realizzare i due quadri sui soggetti della «Crocefissione di san Pietro» e della «Conversione di san Paolo». La pala d’altare, invece, con la raffigurazione della Assunzione della Vergine, fu affidata a Annibale Carracci, segno che ormai sono loro due i pittori più ricercati della capitale.

Caravaggio realizza i quadri a lui commissionati entro l’anno successivo. Nel frattempo il cardinale Cerasi era morto e suoi esecutori testamentari erano i priori dell’Ospedale della Consolazione. Questi rifiutano i due quadri del Caravaggio, il quale si vide costretto a ripetere le due opere. La seconda versione venne accettata e le due tele furono collocate nella Cappella Cerasi.

La Crocefissione di san Pietro ha un impianto molto solido e tutta la scena ha un vigore notevole. Il taglio del quadro è decisamente innovativo, con la scelta di comprimere l’immagine in un angolo visivo ristrettissimo che non riesce a contenere neppure tutta la croce. Come è noto, al momento del martirio, san Paolo, che doveva essere crocefisso, chiese, per essere inferiore a Gesù, di essere crocefisso a testa in giù. Ed è quanto si apprestano a fare i tre operai che stanno eseguendo il compito. I tre sono tutti dipinti senza che ne possiamo vedere il volto: tecnica questa che serve ad accentuare la loro disumana mancanza di pietà. Vediamo invece bene il volto di san Pietro, che ci appare senza alcuna trasfigurazione, come un povero vecchio in carne ed ossa, al quale viene imposto l’incredibile supplizio di essere inchiodato mani e piedi a delle assi di legno.

Non c’è nessuna dimensione trascendentale in questa immagine: lo sgomento che produce è la sensazione del dolore vero, inflitto ad una persona reale come noi. Il tutto viene ancora più drammatizzato da questa oscurità che avvolge il tutto. Anche qui sembra che la notte sia calata, come metafora più ampia. L’oscurità che li avvolge è il buio delle coscienze, nel quale nasce la ferocia ma anche il terrore.

Caravaggio, Conversione di san Paolo, 1600-01, Cappella Cerasi, Santa Maria del Popolo, Roma

Quadro realizzato in coppia con la «Crocefissione di san Pietro», quest’opera è anch’essa frutto di una revisione generale, dopo che la prima versione era stata rifiutata. A differenza della «Crocefissione di san Pietro», la cui prima versione è andata dispersa, la versione iniziale di quest’opera è invece conservata nella collezione Odescalchi-Balbi. Si tratta di un’immagine decisamente complessa e con una maggior dinamicità. Nella seconda versione, invece, regna una calma e un silenzio assoluti. San Paolo, vestito da legionario romano, è appena caduto da cavallo. Ad investirlo è un fascio di luce (ovviamente allegoria della grazia divina) che lui raccoglie ad occhi chiusi e braccia spalancate.

Fatto decisamente insolito, i tre quarti del quadro sono in realtà occupati dall’immagine di un cavallo, che oltre tutto ci mostra il suo posteriore. Ciò ci dà l’idea di quanto fosse poco ortodosso, e forse anche insofferente, Caravaggio per giungere ad una scelta iconografica così insolita. Ma, a parte ciò, il senso del mistero che c’è nell’incontro con Dio traspare in maniera forte ed evidente. Ed anche qui il tutto è come se avvenisse di notte. L’oscurità, in fondo, aumenta sempre il pathos, che qui nasce dall’impossibilità di andare oltre con lo sguardo per comprendere cosa c’è oltre ciò che ci è dato vedere.

Caravaggio, Deposizione nel sepolcro, 1602-04, Pinacoteca Vaticana, Roma

Questa tela del Caravaggio fu realizzata per la cappella Vittrici in Santa Maria in Vallicella a Roma. La tela rappresenta il momento della Deposizione del Cristo nel sepolcro. L’opera è realizzata nel consueto linguaggio caravaggesco, fatto di sprazzi di luce ad illuminare una scena immersa nel buio. L’inquadratura è leggermente dal basso verso l’alto, coincidendo il punto di vista con la base della grande pietra sulla quale poggiano i piedi i due uomini che stanno calando il corpo di Cristo nella tomba. Questa pietra rettangolare, vista d’angolo, funge da simbolo di quella “pietra” sulla quale è edificato l’edificio della Chiesa e che viene simbolicamente toccata dalla punta del braccio di Cristo, braccio che si distacca a peso morto dal corpo. L’intero corpo di Cristo funge da motivo fondamentale del quadro, occupando per intero la sua larghezza, sviluppandosi secondo una linea ben studiata che dall’orizzontale della testa e del tronco fa partire la verticale del braccio e il triangolo delle gambe. Il quadro ha quindi nella metà superiore uno sviluppo secondo la diagonale che dal centro va verso l’estremo superiore destro. Lungo questa diagonale si dispongono, secondo un duplice arco, le teste dei personaggi che compaiono nella scena, fino al culmine della donna con le braccia alzate. Quest’ultima donna, nella sua posa un po’ teatrale inconsueta nella produzione caravaggesca, è probabilmente una citazione a Raffaello, in particolare alla sua ultima opera, «La trasfigurazione» del 1520.

Caravaggio, Madonna dei Pellegrini, 1603-05, Chiesa di Sant’Agostino, Roma

Altra straordinaria tela di Caravaggio, quest’opera rappresenta la Madonna di Loreto venerata da due pellegrini. Anche in questo caso la qualità dell’immagine è notevole, soprattutto per la forte monumentalità delle figure che hanno una pienezza molto realistica.

Ciò che creò sconcerto alla apparizione dell’opera è che la Madonna ha le fattezze di una persona ben riconoscibile (tale Maddalena Antognetti, ex prostituta, con la quale l’artista ebbe una relazione). Questo ricorrere all’immagine di una «peccatrice» per dare il volto alla Madonna creò ovviamente sconcerto, ma non impedì al clero della Chiesa di Sant’Agostino di accettare il quadro, commissionato da un ricco notaio bolognese per la cappella da lui acquistata in quella chiesa.

Anche in questo caso il realismo di Caravaggio risulta assoluto. Nessuna trasfigurazione possibile: le persone e lo spazio hanno tutte l’aspetto delle cose reali, che risultano come sempre circondate dall’oscurità. Oscurità che, anche in questo caso, non manca di isolare l’immagine per darle maggior valore risonanza interiore e quindi maggior drammaticità.

Caravaggio, Madonna dei Palafrenieri, 1605-06, Galleria Borghese, Roma

L’opera fu commissionata al Caravaggio dalla Confraternita dei Palafrenieri per essere collocata nella loro cappella in San Pietro. L’altare della Confreaternita è dedicata a sant’Anna, e quindi il quadro doveva essere a lei dedicato. Caravaggio, invece di ricorrere alla tradizionale iconografia con la Madonna che si siede sulle ginocchia di sant’Anna, relega la madre della Vergine in un angolo quasi in disparte. Pone invece la Madonna e il Bambino in una inedita posizione: la Vergine con un piede sta schiacciando un serpente, con Gesù che pone il suo piede su quello della madre per aiutarla nell’atto che sta compiendo.

Il significato teologico è ben evidente con la Madonna, simbolo della Chiesa, che scaccia il serpente, simbolo del peccato, aiutata in ciò da Gesù. Nelle sottili questioni teologiche che al tempo dividevano i cattolici dai protestanti, il quadro è in pratica una trascrizione quasi fedele della Bolla del Rosario di Pio V, con la quale si ammetteva che la Chiesa poteva rimettere i peccati (mentre i protestanti ritenevano che non potesse) se in questo era aiutata da Gesù.

Nonostante l’aderenza alle questioni teologiche, il quadro non fu molto apprezzato, e in San Pietro rimase solo due giorni. Fu quindi spostato nella chiesa dei Palafrenieri e poco dopo venduto al cardinale Scipione Borghese.

Caravaggio, Morte della Madonna, 1605-06, Museo del Louvre, Parigi

La «Morte della Vergine» è stata sicuramente una delle tele più contestate tra quelle realizzate da Caravaggio, che pure, come abbiamo visto, non era infrequente a polemiche e rifiuti. Il motivo dello scandalo, questa volta, è l’aspetto così realistico della Vergine, da assomigliare ad una reale donna morta annegata. La Madonna ha infatti i piedi e il ventre gonfio, così come succede in genere ai corpi ripescati dall’acqua.

La tela era stata commissionata nel 1601 per la cappella Cherubini nella chiesa di Santa Maria della Scala, ma Caravaggio la realizzò tra il 1605 e il 1606, poco prima quindi di fuggire da Roma per l’accusa di omicidio. L’opera non fu mai esposta e, su consiglio di Pieter Paul Rubens, in quegli anni a Roma, fu acquistata dal duca di Mantova Vincenzo Gonzaga. Prima che nell’aprile del 1607 fosse trasferita a Mantova, a grande richiesta del popolo, l’opera fu messa in mostra riscuotendo un notevole successo.

L’opera si discosta alquanto dalle ultime opere di Caravaggio che, invece, in quest’opera, recupera in parte la sua maniera precedente al 1600. In particolare è evidente anche un certo gusto barocco (che ci fa comprendere il fascino che esercitò su un pittore come Rubens) soprattutto nel panneggio rosso posto in alto.

Ma questa inattesa vivacità di colori e di motivi fu momentanea. Le successive opere di Caravaggio, realizzate dopo la fuga da Roma, accentuarono il contrasto luministico per una più intensa drammaticità.

Caravaggio, La flagellazione, 1607, Museo di Capodimonte, Napoli

Opera realizzata a Napoli, durante il primo soggiorno in questa città di Caravaggio. L’immagine trasmette una sensazione di drammaticità notevole. La flagellazione avviene nell’oscurità, dalla quale una luce non bene identificata fa apparire solo Cristo legato alla colonna e i tre aguzzini che lo stanno percuotendo.

Rispetto al quadro con la «Crocefissione di san Pietro» qui Caravaggio non nasconde completamente i volti dei cattivi, ma uno ce lo mostra in modo molto evidente. È un volto che esprime ferocia, con un’espressione che carica l’immagine di una nota di evidente cattiveria. Il contrasto tra questa espressione intensa e il volto rassegnato di Cristo è il tratto di maggior drammaticità dell’opera, che viene ovviamente accentuata sia dall’oscurità che avvolge la scena, sia dall’intenso realismo dell’immagine.

Caravaggio, David con la testa di Golia, 1609-10, Galleria Borghese, Roma

È questa una delle ultime opere di Caravaggio, che qui si è ritratto nella testa mozzata di Golia. Questo macabro particolare ci fa ben intendere lo stato d’animo dell’artista, già per natura incline alla drammaticità, ma che qui raggiunge punte di pessimismo totale. È quasi come se prevedesse la sua imminente fine e avvertisse la necessità di prender coscienza della condizione, fisica e interiore, della morte. Si sente, forse, un uomo finito, e sta probabilmente chiedendo per sé quella pietà che si legge nello sguardo di David, mentre guarda la testa di Golia.

 

 Francesco Morante

fonte

http://www.francescomorante.it/cap_IV/IV.1.htm

 

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