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Corto Circuito Flegreo racconta e insegna la resistenza alimentare al Sud

Posted by on Feb 19, 2016

Corto Circuito Flegreo racconta e insegna la resistenza alimentare al Sud

fonte  IDENTITA INSORGENTI

Uno dei più grandi studiosi del Meridionalismo, Nicola Zitara, negli anni ’70 del Novecento identificò nella classe contadina del Sud il modello operaio che reggeva le basi delle comunità, rispetto al modello operaio delle grandi industrie del Nord e come soluzione al colonialismo scriveva: ““L’errore è altrove: nel voler calare dalle fabbriche di Torino o da un vertice governativo la risposta al problema meridionale. In questi luoghi non ci sarà la forza né la volontà di ottenerla. Essa deve essere data sul campo, dalle stesse forze meridionali”. 

Oggi, in quali movimenti o associazioni possono essere ricercate queste forze meridionali, che, non solo rispondano al problema del colonialismo interno, ma che siano anche di ispirazione e d’esempio per la risoluzione di tematiche economiche, ambientali, culturali e sociali. Per noi di Identità Insorgenti una di queste è con certezza la realtà di Corto Circuito Flegreo: un’associazione che dal 2011 è emblema del buon esempio e della resistenza.

Un insieme di persone, poi costituitesi in A.P.S., che dal rapporto di fiducia iniziale hanno instaurato un vero e proprio sistema alternativo che permette loro di nutrirsi e vivere in armonia e in rispetto con la terra. Un progetto che racchiude in sé produttori e consumatori dell’area Campana sfidando le leggi e le regole imposte, scegliendo di vivere una vita sana che non risponda ai dettami della finanza, alle decisioni delle lobby. Una vita libera dai veleni come insegna Maria Rosaria Mariniello, Presidente dell’associazione di cui ci racconta il percorso in quest’intervista, fondamentale per comprendere non solo la nostra realtà, ma anche le regole del mondo in cui viviamo oggi e per saper orientarci nelle scelte che riguardano la nostra salute ed il nostro benessere. Il contributo dei saperi e l’esempio concreto di Corto Circuito sono principi ispiratori su cui lavorare, facendo rete, per cambiare il volto di Napoli, per trovare un’armonia ed un equilibrio tra città e natura.

Rosaria, come è nata l’associazione Corto Circuito Flegreo?

Corto Circuito,inizialmente, era una piccola organizzazione di gruppo d’acquisto solidale, Gas, in area flegrea. Con il tempo ci siamo resi conto dell’importanza di coinvolgere anche i singoli produttori e creare dei momenti collettivi di mercato. Così abbiamo realizzato i primi mercatini nel Giardino dell’Orco, ospiti, come oggi, di Ernesto Colutta, che gestisce l’azienda agricola omonima. Il progetto ha iniziato a prendere vita e si è animato anche grazie all’incontro con un’altra associazione La Ragnatela, una rete di soli produttori che stava vivendo un momento di crisi proprio perché, invece, a loro mancava il punto di vista dei consumatori. Da questi incontri è nato Corto Circuito Flegreo, di cui la parte più attiva sono proprio i consumatori poiché hanno fatto la scelta di ripartire da un pensiero legato alla terra, alla sacralità della terra e di come deve essere trattata. Ed io credo che senza la condivisione di un’idea non si riesca a creare nulla: noi ci siamo riusciti.

Nel percorso è stata fondamentale anche la figura dei contadini militanti, così possiamo definirli, che hanno scelto di produrre in un determinato modo.

L’incontro è stato proprio quello con dei produttori che hanno fatto delle scelte etiche molto forti e determinate.

In basi a quali caratteristiche accettate l’ingresso di un produttore nella vostra associazione? 

Bisogna dire che, prima di tutto, ci siamo costituiti in Aps proprio per tutelare e difendere i produttori, che, molto spesso, non hanno alcuna certificazione se non quella del biologico, perché come noi non ci credono o perché non hanno la forza di affrontare spese costose per il certificato e sono troppo piccoli per accedere ai criteri di adozione. Partendo da questa considerazione, abbiamo studiato e realizzato un metodo che chiamiamo “sistema di garanzia partecipata” ovvero una struttura che si basa, in primis, sulle relazioni e sul rapporto di fiducia e che poi, si arricchisce di una serie di disciplinari per ogni settore merceologico: i documenti sono a disposizione di tutti sul nostro blog. L’esperimento è innovativo ed interessante e non siamo solo noi a dirlo: durante un convengo a Pozzuoli, due anni fa, a cui hanno partecipato, invitate da noi, realtà del Nord, della Brianza e della Sicilia, ci è stato manifestato da queste la bontà del sistema e la volontà di prenderne spunto.

Come sono strutturati i disciplinari?

Ogni disciplinare contiene in sé le regole di base per trattare la terra e i suoi prodotti, l’allevamento ed il benessere degli animali: per questi, ad esempio, conta in quanto spazio vivono, se hanno la possibilità di arrivare a fonti d’acqua o quanta aria prendono durante il giorno. Ogni settore deve rispettare questi criteri, che, sono stati valutati insieme a gruppi di lavoro e votati in assemblea, non calati dall’alto. Il sistema di garanzia partecipata coniuga il rapporto iniziale di fiducia e le visite, durante le quali è prevista la presenza dei consumatori, degli agronomi o dei veterinari a seconda del settore. La certificazione arriva dopo la visita insieme al produttore e riunisce gli aspetti positivi e negativi. Ciò che non va, se è in contrasto totale con le regole, chiaramente non può essere accettato e ci lasciamo con una stretta di mano. In caso di situazioni gestibili disponiamo di un lasso di tempo affinché il produttore possa mettersi in regola. Vengono ammessi al banco solo i prodotti di cui è stata fatta richiesta nella fase preliminare per cui quando i consumatori partecipano ai nostri incontri due volte al mese – uno il primo sabato del mese al Giardino dell’Orco presso il Lago l’Averno e l’altro la terza domenica del mese nei giardini dell’Ippodromo di Agnano – sanno che quei prodotti che trovano al banco dalle farine al pane, dalla carne alle insalate, dalle marmellate ai prodotti caseari sono certificati. Chi non è associato non può acquistare ed è una richiesta a cui teniamo sia per il rapporto di fiducia sia perché, in un secondo momento, può essere foriero di una maggiore partecipazione del consumatore a questo processo.

Come avviene la partecipazione del consumatore?

Chiunque, quando facciamo le visite di garanzia partecipata, può venire, è solo una questione di scelta. Molto spesso si delega con mille attenuanti che possono essere scuse giustissime, solo che, se noi facessimo meno deleghe nei confronti della nostra vita quotidiana le cose sarebbero migliori, se non altro nell’ambito della conoscenza: un nostro assunto di base è proprio quello di scardinare la passività del consumista. Un termine diverso da consumatore che, per noi, ha un’accezione negativa: quando si va in giro con gli occhi bendati nella grande distribuzione con la mano che fa quel gesto di riempire i carrelli solo con un’attenzione al prezzo e alle offerte, si va incontro ad una trappola: basta fare delle analisi dei contenuti del cibo comprato in questa maniera per rendersi conto che è veleno. Oggi grazie all’informazione e a Internet molte storie stanno venendo fuori come quelle dei celiaci e degli intolleranti.

La vostra associazione rappresenta qualcosa di diverso rispetto all’attuale filiera alimentare, alla produzione di massa che non rispetta la terra e continua ad utilizzare i veleni. Le leggi dell’Unione Europea in materia quale tipo di produzione favoriscono?

Sono leggi che ricoprono sempre dei comportamenti standard. Ad esempio, le leggi sul biologico e le certificazioni di parte terza molto spesso sono soltanto dichiarazioni sulla carta, perché l’ente certificatore viene pagato solo se rilascia i documenti che tu produttore richiedi. Il conflitto d’interesse è così lampante che già come meccanismo non va bene. E poi, sappiamo benissimo che anche sulle grandi scale di produzione del biologico vengono adottati dei sistemi abbastanza innaturali: le serre utilizzate sono riscaldate e ciò è ammesso in questi tipi di coltivazioni. Ma anche il riscaldamento crea tanti guasti all’ambiente circostante, non solo per le emissioni di Co2 nell’atmosfera, ma anche per l’erosione del terreno dovuta alle piogge che scavano l’ambiente circostante. E l’uso forzato del calore indotto va contro la stagionalità. E infatti i nostri mercati sono inondati di prodotti fuori stagione, una forzatura che non va bene. Come al solito fatta la legge trovato l’inganno: queste leggi non agevolano assolutamente produzioni sane. Le grandi aziende anche del biologico sono inserite in gruppi finanziari: permetterebbero mai di andare a fare una visita e di aderire ad un sistema di garanzia partecipata? Ne dubito. Ma ormai il biologico è in tutti i discount.

Con notevoli differenze di prezzi.

Una farina che viene coltivata in maniera agroecologica ed organica su un terreno sano, che cresce su un seme salvato dalla distruzione delle sementi industriali e di cui è seguita la vita e l’evoluzione in un campo di grano, la gestione del campo e la trebbiatura, noi possiamo venderla a non meno di 1.80, 2 euro al Kilo. Bisogna spiegare come mai esistono farine, considerate biologiche nei supermercati, che costano dai 50 centesimi, addirittura, fino ai 90 al kilo. C’è qualcosa che non va, e questo in tanti campi. In quello della provenienza, prima di tutto: da dove vengono queste farine? Spesso dalle zone del Baltico, luoghi che sono stati contaminati da venti disastrosi come quello di Chernobyl per esempio e sono grani che finiscono in grandi container. E siccome i grani, così come il caffè, sono quotati in borsa, con il gioco della speculazione restano chiusi nelle navi anche per 4-5 anni, attaccati da tutti i possibili agenti atmosferici e poi arrivano nella grande industria alimentare sotto forma di farina venduta a 50 cent al kilo. E prima di questo, come sono stati prodotti questi grani? Sono stati usati agenti chimici? Quanto è stato riconosciuto al produttore? Sicuramente, un prezzo iniquo. Se mettiamo insieme tutti questi elementi – economia, finanza, chimica – ci rendiamo conto poi come la rete si stringe intorno al consumista che non vuole diventare consumatore e lo deve diventare prima o poi. Perché non possiamo pensare che i nostri problemi di salute siano soltanto legati alla fortuna di non ammalarsi. La malattia fa il paio con come ti alimenti, come vivi, che tipo di igiene mentale e fisica adotti nei confronti del tuo corpo. Perché poi così come lo adotti nei confronti del tuo corpo, lo adotti nei confronti del tuo territorio e della tua terra. Per questo cerchiamo di incentivare la creazione di piccoli orti, imparando dai nostri produttori e facendo piccoli corsi di formazione. Non è solo poetico veder nascere da un seme una pianta e anche un atto di coraggio e riconoscimento di ciò che la terra ti può dare, anche su un balcone.

Quanto conta per i prodotti il riconoscimento del marchio Dop o Doc? 

Non lo so. Il marchio non va al cuore del problema, è marketing. Perché denominazione di origine protetta, che vuol dire? Che quello è un prodotto locale e va benissimo questo, ci teniamo alla biodiversità, ai prodotti tipici di certe zone. Però è anche probabile che ci sia chi fa prodotti Dop o Doc utilizzando la chimica e pure quello è protetto, ma da cosa? Non ci dobbiamo fermare alla superficie delle cose, dobbiamo vedere cosa c’è dietro. In tutto questo tentativo anche della Regione Campania di creare delle situazioni in cui si cerca di far uscire il buono che c’è in Campania – e c’è – si utilizzano dei mezzi inappropriati. Il marchio è soltanto un’icona. Ad esempio c’è il consorzio campano delle mele annurche, ma quelle mele sono trattate. Io voglio una mela annurca che non sia trattata: vuol dire che con l’utilizzo dell’agricoltura organica ci saranno meno mele e che ne mangerò una piuttosto che due.

Per l’Unione Europea alcune tipologie di sementi tradizionali sono illegali. Quest’anno seguendo la vicenda Xylella anche piantare un seme di ulivo era un atto non legale e dunque di resistenza, come vi ponete rispetto a ciò?

Domenica 21 febbraio faremo l’annuale appuntamento dello scambio dei semi. Un atto di resistenza, perché è vietato. Bisogna riconoscere la natura delle leggi: quando sono leggi di dittatura di gruppi finanziari sulle persone, sono inique ed ingiuste e non vanno rispettate, anzi vanno denunciate! Il giudizio ce lo darà la storia. Riguardo il problema Xylella, l’anno scorso, abbiamo incontrato Jairo Restrepo Rivera, un agroecologo, che basa la teoria della sua scuola colombiana partendo dall’assunto che la chimica ha solo danneggiato i contadini. Per cui loro, in America Latina, hanno creato una serie di sistemi agroecologici per nutrire la terra con sostanze organiche naturali, composti basati sulla microbiologia che nascono dall’osservazione di ciò che produce il sottobosco. Sono metodi rigeneranti per la natura e fanno in modo che i contadini possano tutelarsi, staccandosi dalla dipendenza della chimica e produrre in economia i propri fertilizzanti. Mentre in Italia, come altrove, abbiamo assistito all’escalation della chimica: dagli anni ’50 con l’arrivo delle grandi industrie statunitensi e poi con la crescita delle industrie chimiche statali si è incominciato a facilitare le produzioni quantitative a discapito della qualità. Pensate che all’inizio questi prodotti venivano regalati! Così è nata la dipendenza e il risultato, ben visibile a tutti, è la perdita e la fine di una generazione di saperi ed esperienze contadine. Il tutto combinato con le crisi economiche volute, guidate e manipolate, durante le quali,  dal Sud il contadino si è dovuto fare la valigia per andare a farsi sfruttare nelle miniere del Nord.  E queste storie di esperienze contadine vanno recuperate.

Raccontacene una in particolare che nel tuo percorso.

Una tra le tante: c’è un nostro socio che produce in arido cultura alle pendici del Vesuvio e in particolare ha recuperato tutte le specie dei pomodorini del Piennolo, per intenderci quelli sempre presenti sul Presepe: questa tradizione si stava perdendo e Francesco, il nostro socio, ha recuperato tantissimi semi e adesso ha una piantagione su un terreno molto fertile. Lui addirittura non ha l’acqua nei suoi orti e sfrutta la tecnica dell’umidità con i teli che toglie e mette e poi con un sistema a goccia quando le temperature sono elevate, però alla fine esce fuori un pomodoro del Piennolo che non ha eguali come sapore. Lui non usa alcun fertilizzante neanche naturale, lascia fare alla terra. L’aneddoto bello che volevo sottolineare è che quando siamo andati a fare la visita del sistema di garanzia partecipata da Francesco, c’era l’agronomo due, tre consumatori e c’era il padre insieme a lui. Suo padre, ogni tanto, chiedeva al figlio come doveva fare determinate cose. E allora ho chiesto a Francesco di chi fosse la terra, lui mi ha risposto che era di suo padre, ereditata a sua volta da suo padre che faceva il contadino e allora gli ho domandato”come mai tuo padre ti chiede come deve fare per coltivare?” Lui mi ha risposto che il padre fa parte di quella generazione che, quando ha visto che la terra non rendeva, è andato a lavorare nell’Italsider di Taranto. Quindi per tutta la sua vita ha fatto il meccanico. Dopo essere stato trasferito da Taranto a Bagnoli, con la chiusura degli stabilimenti a Bagnoli ha deciso di tornare a dare una mano. E all’inizio pensava di coltivare i terreni nella vecchia maniera. Francesco ha detto al padre: “no, papà. Qui le cose vanno diversamente, tutte le polverine e i liquidi che vai a comprare al consorzio, puoi anche prenderli, portarli all’isola ecologica e smaltirli correttamente, perché noi, qui, non li usiamo”. E da allora è iniziato un apprendimento del figlio nei confronti del padre. Da questa parabola si evince che si è perduto il sapere di una generazione, perché sicuramente il nonno di Francesco non coltivava come il figlio. E magari se questa generazione persa riprende a coltivare, non lo fa interrogando quelle sapienze lì, perché le ritengono superate, antiquate, vecchie. Il problema è che noi non possiamo sempre pensare ad una modernità fatta solo di ciò che sta davanti, perché senza passato non c’è memoria e senza memoria viviamo male il presente e non avremo il futuro.

Tornando al caso Xylella molti contadini hanno dimostrato come le piante potessero essere curate con metodi antichi e naturali.

Esatto. Quello che si è scoperto è che i terreni si sono esauriti a furia di usare prodotti chimici. Facciamo l’esempio di una persona: se una persona mediamente sana ha un raffreddore si cura con delle medicine anche omeopatiche il suo malanno passa, se una persona è piena di malanni il suo raffreddore può evolversi in una bronchite o in qualcosa di gravissimo: questo è successo nei terreni in Puglia. Le coltivazioni intensive degli uliveti e progressivamente l’uso della chimica hanno esaurito il terreno, quindi è la terra che si è impoverita. Hanno trovato che in alcuni casi c’era la Xylella in alcuni ulivi che sono riusciti a reagire perché il terreno non era diventato polvere di cemento, perché di questo parliamo. Un mese fa ho partecipato ad un corso in Cilento con la Deafal, una onlus che si occupa di agricoltura organica, e con Matteo Mancini nella cooperativa sociale di San Mauro Cilento abbiamo fatto quest’incontro per i loro quarant’anni di attività, dove ho appreso di quest’esperimento bellissimo: l’utilizzo della Samsa – la loro associazione raggruppa 400 produttori di olive ed hanno un frantoio sociale, cui afferiscono i soci per ricavare l’olio – che per loro era problematico, essendo un residuo del frantoio, che deve essere gestito come un residuo organico smaltito in maniera speciale è stato trasformato da loro, a partire dal corso che abbiamo fatto con Jairo, facendo studi ed investimenti, in composto organico. E’ qualcosa di rivoluzionario che ti permette di non avere più il problema dei residui. La Samsa, poi, nel suo germe contiene il DNA dell’ulivo, insieme ad altre sostanze che sono zuccheri, carbone, legna, elementi presi dalla terra: sarà il compost che darà da mangiare a quegli ulivi e a quella terra che non è più sfruttata. E questa è la stessa cosa che stanno facendo i contadini del Messico con l’esperienza sociale del Tatawelo: sono stati attaccati da un fungo che si chiama Roja e stanno lavorando per fabbricare funghi antagonisti con i sistemi dell’agroecologia, creandosi dei mini laboratori nei singoli villaggi dove ci sono i caffetales e facendo una lotta antagonista non distruttiva, ma parlando lo stesso linguaggio che ha fatto nascere la roja, che è un fungo nato dai cambiamenti climatici, per i forti arrivi di umidità eccessiva. Il contadino così impara che può risolversi i problemi nati sul suo campo creando un’antagonista naturale senza ricorrere alla chimica e risparmiando anche soldi. Perché poi il contadino non ha i soldi per andare al consorzio agrario a comprare i preparati contro il fungo. E quindi queste diventano quelle economie che escono da quella debolezza strutturale nella quale sono stati costretti per anni e anche la loro salute ne risente positivamente: in quelle zone del mondo la Monsanto ha fatto veramente guai sulla salute delle persone, danneggiando ad esempio la fertilità dei maschi, mandando veleni con gli aerei e anche la Del Monte ha usato sempre gli aerei a bassa quota per spruzzare i campi delle splendide ananas e banane che noi mangiamo, comprandoli al supermercato con il bollino blu. Quel bollino blu della Del Monte quanto veleno ha rilasciato ai contadini e ai campi? Il Round Up produce una lunga serie di malattie: da tumori o problemi respiratori alla nascita di feti malformi. Ma se noi qua apriamo il vaso di Pandora –  e lo dobbiamo aprire – escono tutti i mali del mondo nei confronti dei quali noi possiamo fare qualcosa. E non vengano a parlarci dei grandi numeri, perché li usano per fregarci. Siamo un gruppo piccolo? Si. Ed io non so vivere diversamente, voglio vivere così. Non avremo la pubblicità in televisione, ma è chiaro che quella la fa la Del Monte.

Da sabato 12 avete promosso tre giorni di confronto con l’associazione Tatawelo che opera in Messico producendo caffé. Durante l’incontro è stata raccontata con dei video l’esperienza dei contadini messicani e la loro struttura sociale autonoma: per te quanto l’autonomia politica può contribuire a proteggere le produzioni sane?  

Riguardo l’esperienza di cui si è parlato lo scorso sabato bisogna dire che sono autonome rispetto al Governo centrale perché sono dei territori che si sono organizzati autonomamente e sono in eterno contrasto con il potere centrale. Coloro che, nel filmato che è stato proiettato, portano la bandana lo fanno per sfuggire alla repressione e in più c’è un valore simbolico che è quello del non riconoscimento da parte del Governo: se tu non ci riconosci, noi non ci facciamo riconoscere e per te non abbiamo volto. Questo è stupendo. In quell’esperienza lì, delle comunità zapatiste, essersi organizzati, ed è una storia molto complessa che ho vissuto da vicino nel 2009 quando ci sono stata, la loro autonomia agricola diventa la condizione indispensabile per poter mandare avanti l’economia del villaggio, perché non hanno aiuti dal governo e non li vogliono, perché quando arrivano gli aiuti arriva anche la repressione, le multinazionali, tutto quello per cui loro stanno cercando di resistere e quindi preferiscono fare da soli. L’importanza di progetti come questi è che tu stai dando una mano anche a resistere all’avanzata di certe situazioni che hanno creato la povertà. Non è soltanto il gesto del momento, è una cosa che va in un progetto strategico a cambiare la vita delle persone e a far ritornare la terra alla sua salute originaria che lì avevano perso. E noi abbiamo visto spesso esperienze anche in Colombia, in Argentina, in Guatemala.

Potrebbero essere replicate qui queste esperienze? 

Noi pensiamo sempre che fare la lotta biologica e creare il virus che ha gli anticorpi per quel virus che fa del male, consideriamoci anche noi degli anticorpi.

Elena Lopresti

sementa

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