Costantino Cavafis, il poeta affamato di bellezza
“Sarò capito, dichiarava Cavabis, il giorno in cui sarò passato di moda”. Il poeta greco è morto nel 1933 e non aveva scritto che vicino alle mode. Nei margini della storia, quasi sempre quella detta antica, o della sua vita.
Liriche confidenziali, stampate (alcune solamente) lui vivente, su fogli volanti per i suoi amici, o per dei conoscenti. Costantino visse essenzialmente ad Alessandria dìEgitto, crocevia dei mondi, delle razze e delle culture, usando con raffinatezza un greco mescolato di arcaismi. Da allora molto letto, tradotto, commentato. Si è anche pubblicato e tradotto quello che aveva respinto della sua opera: la pattumiera degli scrittori fra la buona fortuna dei chiosatori. Però Costantino Cavafis (trascrizione più conforme di Cavafy) assurse, senza sbalzi maggiori e come naturalmente, al primo rango dei poeti della sua lingua e della poesia del secolo.
Egli non somiglia ad alcuno dei suoi pari. Scrive alla confluenza dei tempi. Ironico e lucido, affamato di bellezza (morale dell’immoralista), Cavafis si fa scriba di una memoria duale. Duale più che duplice, perché passa dall’uno all’altro aspetto del tempo. Costantino prende la parola, o la restituisce, a Giuliano l’Apostata o a eroe di Sparta, a tale dio, di cui non si sa se attraversa l’agora di Efeso o la camera povera, sufficiente alla felicità. E’ anche, però, la storia che parla delle imposture e dei disastri, delle gesta superbe… Cavafis testimonia? Alla sua maniera obliqua e senza sarcasmi: non è vittima dell’onestà dei testimoni. Occorre cambiare una o due parole, allora “tutto corrisponde magnificamente”alla verità imposta.
Così la memoria agisce secondo i principii dell’eutropia, lasciando dubitare della natura di quello che pare accertato, o dover succedere, rendendo futile l’attesa dei barbari, poiché essi sono già là, nel cuore stesso della città. Gran parte della storia dei popoli e dei principi è storia di illusioni perdute. L’arte delle parole, scrive il poeta, partendo da una formale informazione, “mi permette di sognare Cesarione”: “all’incirca come / tu eri in Alessandria conquistata, pallido e e stanco, disincarnato nel tuo dolore,/ sperando ancora che avrebbero pietà di te, i subdoli…”. E’ stuzzicare il destino, lo spazio di un verso, di un dolore, di un ultimo sprazzo di bellezza prima della notte. Tuttavia, fa notare Dominique Grandmont nella sua presentazione al libro “ Poesie di Costantino Cavafis”, per le le edizioni Gallmard, “Siamo nell’assoluto contrario del romanticismo”. Iscrizioni, annali, epitaffii, commentarii, busti di marmo mutilati, parole votive. Grandi pagine di storia in un pugno di versi senza effetto gratuito, senza lirismo vano. Non una parola esce dalla sua linea, non una che non vi abbia il suo posto. Un’economia da moralista ironico che sa che tutto si gioca sempre altrove: nella memoria da venire. Memoria capace di sospendere l’avvenuto per l’offerta di un pensiero, di un dispiacere, o per la spina di un sarcasmo (“La dilazione accordata a Nerone”),ma il cui potere così bene restituisce l’oblìo o cristallizza l’incompiuto di un desiderio, poiché l’unica religione a cui Cavafis sacrifica è la bellezza, quella dei giovani uomini che, come marmi o bronzi antichi, paiono discendere dal loro basamento per abbellire Alessandria, la notte come il giorno.
Dei tre registri della sua opera (il mondo antico, Bisanzio e il tempo autobiografico), l’ultimo è dedicato quasi totalmente agli amori giovanili. Senz’altra ostentazione che di scrivere chiaramente la felicità di questi brevi e febbrili incontri.
Per il cammino contrario, il gusto antico ravviva e fertilizza la poesia: “…messa a nudo della carne- la cui visione così breve / ha attraversato ventisei anni: e che ora ritornata / per restare in questa lirica”.
Che sia ricordo immediato o lontano (e spesso ci parla dal profondo dei tempi, in nome di un artista alessandrino o di un principe di Siria), si tratta di una moneta d’oro inalterabile, coniata con le effigi della giovinezza e della bellezza.
Possiamo leggere nella poesia di Cavafis una sorta di obituario della giovinezza, la cui assenza o la cui morte dell’amato preserva la bellezza. Gli eroi che Cavafis preferisce muoiono subito, come quelli che sono amati dagli dei. Costantino Cavafis celebrò, in un tempo ancora troppo innamorato dei suoi tabù, la bellezza perenne e la storia passata. A proposito di quella del suo tempo, questo greco d’Oriente, plasmato di cultura franco-inglese, e senza vita sociale notevole, scaglia alcune frecciate, rare: “…O per finire, non è impossibile che si rimetti / alla politica- ricordandosi meritoriamente / delle sue tradizioni familiari, del dovere / verso la patria, e d’altri luoghi comuni chiassosi di questo genere”. La poesia da cui prendiamo questa citazione si intitola “All’insegna del celebre filosofo” e parecchi del nostro secolo avrebbero potuto appendere questa insegna alla loro porta.
La sontuosa e crudele vena antica come in altre opere contemporanee: nella poesia di Seféris, di Herbert, di Quasimodo, ma essa non vi gioca un ruolo preminente, al punto, si può credere talvolta in Cavafis, di offuscare il presente.
Singolare poesia senza lirismo, senza metafora, senza l’armamentario che si è creduto, per lungo tempo, obbligati ad usare per parlare con la bocca degli dei : non ci si abitua. Vogliamo dire che ogni lettura ci lava gli occhi.
Ogni traduzione (e abbiamo a che fare qui con quella di un poeta dell’altro, Apollo, grazie a TE !), con i propri trucchi, ci ricolloca davanti all’evidenza : questa voce di ieri, tornata, ci parla di noi, domani. Intemporale.
“Obliqua”… E’ lo scrittore inglese, di origine gallese, Edward Morgan Forster che descriveva Cavafis, in una strada di Alessandria d’Egitto”, in piedi, completamente immobile, in una posizione leggermente obliqua in rapporto al resto dell’universo”.
Eclittica della lirica in rapporto alla Terra?
Alfredo Saccoccio
P. S. Alla cortese attenzione del dott. Antonio Scatamacchia. Cordiali saluti.