Alta Terra di Lavoro

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Cronaca di un’Unificazione

Posted by on Nov 15, 2019

Cronaca di un’Unificazione

Signore, Signori, Autorità, Amici

Perché abbiamo dedicato una serata ad un argomento che ai più potrebbe sembrare inutile, stantìo, velleitario, senza possibilità di incidere sulla nostra vita?

E’una domanda che mi è già stata rivolta ed alla quale ho risposto e rispondo…………………………………

Forse non mi sarebbe stato posto lo stesso interrogativo se l’argomento prescelto fosse stato la dominazione araba, i normanni, Federico II, i Vespri Siciliani…. episodi e dominazioni entrati nell’immaginario comune come fatti positivi, come fatti di cui andare orgogliosi.

Scrive Benedetto Croce: “Lo spirito animatore della cosiddetta “storia del risorgimento” è tutt’al più poetico, ma non certamente storico; e, a dissolverla, basterebbe nient’altro che introdurvi lo spirito storico, perché in questo caso esso si fonderebbe nella storia politica del secolo decimonono, nella quale il moto italiano prenderebbe il suo significato proprio, spogliandolo dei colori onde il sentimento e l’immaginazione l’hanno finora rivestito. E si renderebbe giustizia, come in storia è doveroso fare, alle forze di resistenza che al moto liberale opponevano la vecchia Italia o la vecchia Europa, o, nella fraseologia dei politicanti l’oscurantismo e la reazione.

Giustizia: il che non significa recriminazione o rimpianto del passato, che è morto, ma semplicemente intelligenza del presente e dei problemi del presente”

A dispetto di quanto testé letto, invece, ancora oggi, in Italia c’è sempre qualcuno che si comporta come se ci fosse ancora l’ultimo borbone da abbattere, come se ci fosse un ultimo brandello di storia da demonizzare.

So che allontanandomi da certi schemi abituali e precostituiti, rivedendo certe visioni oleografiche, rivelando verità più che note agli studiosi ma ancora ignote alla maggior parte del popolo, corro il rischio di attirare commenti ironici o quanto meno manifestazioni di incomprensione, o peggio.

Ma tratteremo queste cose perché anche questa è la nostra storia, anzi, questa è la nostra storia, la storia dei nostri antenati e della nostra terra, dove è nato e fermentato l’humus della nostra cultura, del nostro carattere, del nostro modo di essere, una storia che in mezzo a luci ed ombre – non solo ombre – ha dato al nostro popolo un grande stato, retto da una grande dinastia, che ha dato grandi impulsi alla politica, alla scienza, all’economia, alle arti, al diritto. Parleremo di queste cose perché dopo 135 anni di propaganda esercitata proponendo schemi falsi e calunniosi, riteniamo sia giunto il momento che ognuno di noi, nel suo piccolo, rilegga questa storia, riveda il proprio passato e ponga fine ad un martellamento che nel tempo si è trasformato in campagna antimeridionalistica, consapevoli del fatto che qualunque rinascita del nostro popolo non possa avvenire se non passando attraverso la riacquisizione del nostro passato e del nostro orgoglio di essere meridionali. Porgeremo ora, di seguito, senza aver l’intenzione di voler imporre ad alcuno il nostro punto di vista, citando quanto più è possibile le fonti, alcune considerazioni che tenteranno di risolvere alcuni dubbi, di spiegare alcuni fatti, riprendendo il discorso dalla fine, dal proclama di Francesco II da Gaeta:

“Popoli delle Due Sicilie

Da questa Piazza dove difendo più che la mia corona l’indipendenza della Patria comune, si alza la voce del vostro Sovrano per consolarvi delle vostre miserie, per promettervi tempi più felici. Traditi ugualmente, ugualmente spogliati risorgeremo allo stesso tempo dalle nostre sventure, che mai ha durato lungamente l’opera dell’iniquità, né sono eterne le usurpazioni.

Ho lasciato perdersi nel disprezzo le calunnie; ho guardato con disdegno i tradimenti, mentre che tradimenti e calunnie attaccavano soltanto la mia persona; ho combattuto non per me ma per l’onore del nome che portiamo. Ma quando veggo i sudditi miei che tanto amo in preda a tutti i mali della dominazione straniera, quando li vedo come popoli conquistati portando il loro sangue e le loro sostanze ad altri paesi, calpestati dal piede di straniero padrone, il mio cuore napolitano batte indignato nel mio petto, consolato soltanto dalla lealtà di questa prode armata, dallo spettacolo delle nobili proteste che da tutti gli angoli del regno si alzano contro il trionfo della violenza e dell’astuzia.

Io sono napoletano; nato tra voi, non ho respirato altra aria, non ho veduto altri paesi, non conosco altro che il suolo natìo.

Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno; i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua; le vostre ambizioni mie ambizioni……. Sono un principe vostro che ha sacrificato tutto al suo desiderio di conservare la pace, la concordia, la prosperità tra’suoi sudditi.

Il mondo intero l’ha veduto; per non versare il sangue ho preferito rischiare la mia corona. I traditori pagati dal nemico straniero sedevano accanto ai fedeli nel mio consiglio; ma nella sincerità del mio cuore, io non poteva credere al tradimento. Mi costava troppo punire; mi dolea aprire, dopo tante nostre sventure un’era di persecuzione; e così la slealtà di pochi e la clemenza mia hanno aiutata l’invasione piemontese, pria per mezzo degli avventurieri rivoluzionari, e poi della sua armata regolare, paralizzando la fedeltà dei miei popoli, il valore dei miei soldati……..

Sparisce sotto i colpi de’vostri dominatori l’antica monarchia di Ruggiero e di Carlo III; e le Due Sicilie sono state dichiarate provincie di un regno lontano. Napoli e Palermo saranno governati da Prefetti venuti da Torino.. “


Il proclama continua; con nobili parole il giovane Francesco ricorda il calvario del suo breve regno, in questo suo ultimo messaggio emanato da Gaeta assediata, l’8 Dicembre 1860.

Nel frattempo nell’intero Regno iniziava la sollevazione popolare; iniziava la resistenza disperata che doveva insanguinare le nostre contrade per ben dieci anni.

Dai vincitori con disprezzo fu chiamata “brigantaggio”.

E’norma che ha diritto alla dignità di partigiano chi vince, mentre è bandito, brigante, chi perde .

Come e perché si arrivò a quei giorni?.

Come e perché la cultura ufficiale ha condannato i Borbone ed il Regno delle Due Sicilie, in una condanna severa e senza appello?

Sono ormai 135 anni di calunnie che pesano sulla storia e solo ora, a distanza di 135 anni ci si comincia a chiedere se fu vera gloria l’impresa garibaldina e se fu veramente così negativo il regime borbonico, se i popoli del Regno stavano peggio prima o dopo l’annessione, se fu solo per demerito del Re e dei combattenti che si perse il Regno o già tutto era stato deciso a tavolino da alcune potenze?

Non è certo scopo di questa conversazione sovvertire le conoscenze storiche ufficiali; non c’è né il tempo, né la competenza. Si cercherà solo di aprire uno spiraglio, di suscitare un dubbio, di sollecitare la curiosità.

Esistono ormai parecchie pubblicazioni che trattano anche questo argomento, e concordo che c’è da mediare fra tesi opposte, “navigando fra il perfetto disaccordo che deriva dalla lettura comparata dei vari testi, superando da una parte la tendenza agiografica nei confronti dei Savoia e la divinizzazione ad oltranza del Risorgimento, che innalza certi fatti a miti, certe opinioni a culti, certi personaggi ad eroi e dopo morti, a monumenti.”

Mentre dall’altra parte occorre superare il sentimento nostalgico e dorato dei legittimisti e dei tradizionalisti.

Esistono comunque documenti e testi che riportano un aspetto della verità, verità che per convenienza dei vincitori ci è stata sempre tenuta nascosta.

Sul numero di agosto 1993 della rivista “HISTORIA” è riportato un articolo di Rino Camilleri dal titolo “Ferrovie dello scandalo – Tangenti nell’800” che riporta fra l’altro e lo raccontiamo solo per testimoniare che v’è nulla di nuovo sotto il sole, un biglietto scritto da Mazzini che recita: “Io soltanto vi dico che ove altri farebbe sua pro d’ogni frutto dell’impresa, egli mira a fondare la Cassa del partito, non la sua”, prima teorizzazione del principio-tormentone di tangentopoli secondo cui una cosa è intascare per sé, altra per il partito. Ma lasciamo stare questo tema. Nello stesso articolo v’è una finestra intitolata “Delitto eccellente sull’Ercole”. L’Ercole era la nave che portava da Palermo a Napoli Ippolito Nievo.

Ippolito Nievo, fu un buono ed amato scrittore, romanziere e poeta padovano dell’ottocento, chi non ricorda “Le confessioni di un Italiano” con i personaggi della Pisana, di Carlino Altoviti, il castello di Fratta etc. Ma fu anche un garibaldino, anzi fu colonnello e viceintendente dei mille, amministratore dei fondi della spedizione. Sull’Ercole erano imbarcati anche i documenti contabili e le ricevute.

Nella notte fra il 4 e il 5 marzo 1861 esplosero le caldaie della nave che si inabissò trascinando con sé uomini e carico. Si sospettò il sabotaggio, ma l’inchiesta (breve) non approdò a nulla; più recentemente – riporta l’autore – si è scoperto che l’atto fu davvero doloso.

Perché fu affondato l’Ercole?

E’forse azzardato pensare che si volessero far sparire le prove che Nievo recava con sé?

E chi ordinò l’attentato?

Forse quei generali borbonici comprati che non volevano veder compromessa la possibilità di riciclarsi in posti di responsabilità nel nuovo Regno d’Italia? Perché è ormai chiaro che lo sbarco dei Garibaldini in Sicilia è uno degli atti destinati alla conquista del sud la cui preparazione fu lunga e meticolosa; Vittorio Emanuele, Cavour, Garibaldi – protagonisti della storia cosiddetta risorgimentale – furono in realtà strumenti della politica imperialistica britannica e della massoneria ad essa collegata. (D’altra parte all’epoca erano ben pochi gli avvenimenti, in qualsiasi parte del globo, in cui non vi entrasse in qualche modo la regìa del Foreign Office).

Basta pensare alla partecipazione piemontese alla Guerra di Crimea (1854-1856). Essa è considerata una delle iniziative più acute e lungimiranti del Cavour. In realtà tale partecipazione rientrava nella strategia degli Inglesi mirante ad impedire la penetrazione della Russia nel Mediterraneo; per premio ai Piemontesi fu data la possibilità di partecipare assieme ai grandi al congresso di pace di Parigi (1856) e un sostegno al processo di unificazione dell’Italia sotto la guida dei Savoia.

(Ricordiamo che nel 1833, i liberali, dopo un congresso a Bologna, offersero la corona d’Italia a Ferdinando II, che non l’accettò).

Allora cominciò anche il processo di corruzione che fece trovare al momento opportuno, dalla parte del Piemonte, alcuni personaggi chiave dell’apparato militare, politico e burocratico del governo borbonico.

Cominciò, si rafforzò, una continua e serrata campagna di diffamazione, e voglio ricordare solo la lettera di Gladstone a Palmerston nella quale si definisce il governo borbonico “la negazione di Dio fatta sistema”. Tale lettera ebbe una grande amplificazione e diffusione in tutta Europa. Si scoprirà poi che Gladstone non era presente ai fatti che riferisce ed una sua successiva correzione passerà sotto silenzio.

Tutto questo può spiegare il comportamento dell’esercito che in fondo era composto di oltre 100.000 uomini, con battaglioni di svizzeri e bavaresi ed al di là delle mitologie e degli aneddoti, ben addestrato e agguerrito.

Quando poterono combattere, sul Volturno, a Caiazzo, a Capua, a Gaeta i soldati borbonici seppero dimostrare di che pasta erano fatti, anche contro truppe numericamente superiori. (cosa che del resto gli austriaci avevano già avuto occasione di provare avendoli contro, a Curtatone e Montanara, quando il loro intervento, a fianco delle truppe piemontesi, seppe rovesciare l’esito della battaglia).

Dirò ancora, per inciso, che al Regio Esercito Borbonico apparteneva il colonnello medico Ferdinando Palasciano, che per primo teorizzò il principio dello stato di neutralità, fra eserciti cobelligeranti, del soldato ferito o gravemente ammalato, precorrendo e ponendo le basi morali di quell’organismo che fu la Croce Rossa Internazionale.

Prima delle battaglie su citate, i resoconti ci narrano di guarnigioni e reparti che furono fatti arrendere senza combattere – e di comandanti linciati per questo motivo – di navi da guerra consegnate ai garibaldini da ufficiali filopiemontesi, di vascelli inglesi che tenevano a bada i Borbonici mentre le camicie rosse sbarcavano.

Ora sappiamo, aggiunge l’Autore, che gli inglesi versarono a Garibaldi l’equivalente di tre milioni di franchi francesi in piastre d’oro turche – che era allora la moneta franca del Mediterraneo – una somma che equivale a parecchi milioni di dollari d’oggi.

Si spiega così, per esempio, la resa del generale Lanza e la cessione della piazza di Palermo ai garibaldini, senza quasi sparare un colpo.

E’opportuno ricordare in questo particolare momento alcune eccezioni fra gli ufficiali. Ricorderemo il capitano Sforza a Calatafimi e soprattutto il Colonnello Ferdinando Beneventano del Bosco da Siracusa, comandante del 9° battaglione cacciatori, distintosi a Milazzo, e che fu sempre leale e fedele al suo Re ed ebbe per questo onore e riconoscimento anche dagli stessi nemici (Come dice Sciascia nella sua presentazione al diario di Padre Giuseppe Buttà “Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta”).

Insomma quel denaro darebbe ragione della ritirata di un intero esercito di professionisti davanti ai sedicenti volontari in rosso.

E’esemplare a questo riguardo quanto si legge sul diario di Buttà, in riferimento ai fatti di Calatafimi: contrariamente a “..gli scrittori garibaldini, che fregiano del nome di battaglia il fatto d’arme di Calatafimi, fanno descrizioni omeriche del loro valore, mentre ebbero di fronte un turpe generale a loro venduto per quattordicimila ducati (Landi), e meno di cinquecento soldati napoletani, che da principio li misero in fuga. L’ordine del giorno di Garibaldi, pubblicato in Calatafimi, è una vera caricatura, considerando il tradimento del Generale Landi.

Garibaldi a Calatafimi perdette centoventi volontari: se le sole quattro compagnie dell’8° cacciatori, equivalenti a meno di cinquecento uomini, lo sbaragliarono e gli fecero quel danno, quale sarebbe stata la fine della temeraria impresa del futuro Dittatore delle Due Sicilie, se Landi si fosse battuto con tutti i suoi?…….Il fatto d’arme di Calatafimi segnò la caduta della Dinastia delle Due Sicilie; imperocchè il generale Landi non fu chiamato a dar conto della sua vergognosa condotta, ed inesplicabile ritirata, ma quello che fa più maraviglia si è che rimase al comando della brigata che aveva disorga-nizzata e demoralizzata. Questo esempio incoraggiò i duci vili, o traditori, a tradire impunemente”.

Il resoconto di Buttà coincide con quello di Giacinto de Sivo riportato nella “Storia di Napoli” e con quello ripreso in epoca più recente da Michele Topa nel suo “Così finirono i Borbone di Napoli”.

Ma col se e col ma non si fa la Storia; né faremo la cronaca della disfatta. Essa si compendia nella finale ed eroica resistenza delle guarnigioni di Messina, Gaeta, Siracusa, ed ultima ad arrendersi, di Civitella del Tronto.

Non parleremo del “brigantaggio” e delle persecuzioni effettuate durante l’occupazione, né dei paesi bruciati, della gente fucilata, delle popolazioni deportate.

Cercheremo invece, a questo punto, di aprire un piccolo squarcio, piccolo, dato il tempo a disposizione, sul Regno, immediatamente prima dell’occupazione e vedremo di capire cosa ci hanno tolto ed in cambio di che cosa.

Citiamo ancora Camilleri “Per il Regno delle Due Sicilie alla vigilia della spedizione dei mille si poteva parlare di “miracolo economico”. Aveva la terza flotta mercantile d’Europa, una delle monete più solide, un debito pubblico pressoché irrisorio, praticamente inesistente l’emigra-zione” – (Questa comincerà ed assumerà aspetti dram-matici dopo l’unificazione). Il suo complesso siderurgico di Pietrarsa vantava un fatturato di gran lunga superiore a quello di analoghe strutture nel resto d’Italia.

Aveva inoltre la prima ferrovia della penisola (la famosa Napoli Portici; ma non solo, perché la rete si estese ben presto per più di duecento chilometri, ed erano pronti i progetti per allargarla a tutto il regno).

Certe esportazioni, come la pasta alimentare ed i guanti, erano rinomate in tutto il mondo.

Senza parlare dello zolfo e dell’allume, di cui la Sicilia era praticamente l’unica produttrice al mondo e la cui importanza passava attraverso gli impieghi bellici, sanitari, agricoli.

Nelle casse statali infine, c’era quasi il doppio di quello che possedevano tutti gli altri stati della penisola messi assieme.

Riportiamo a questo proposito un estratto da “Scienze delle finanze” di Francesco Saverio Nitti:

Le monete degli antichi stati italiani al momento dell’annessione ammontavano a 660 milioni così ripartiti:

Riprendendo da Camilleri “Al primo censimento dell’Italia unita risultò che il Sud aveva 9.390 medici su nove milioni di abitanti, contro i 7.087 per 13 milioni di cittadini del Nord. Gli occupati dell’industria erano 1.189.582 contro i 345.563 di Piemonte e Liguria ed i 465.003 della Lombardia. Lo sforzo borbonico per il decollo industriale era denunziato anche dal singolare – e felice – esperimento di San Leucio, vicino a Caserta. Era una specie di “città degli operai” retta secondo le idee di Rousseau e Voltaire, chiamata Ferdinandopoli in onore del penultimo re delle Due Sicilie, che la promosse. Era autogestita e vi si produceva seta con tecniche avanzatissime.

Nazionalizzata dopo l’unità, decadde fino al punto che gli operai nel 1866, rivolsero al Parlamento Italiano una petizione nella quale chiedevano il ripristino dell’antico sistema di gestione.

La dittatura garibaldina in Napoli (due mesi in tutto), creò un deficit di bilancio che già alla fine del 1860 è di dieci milioni di ducati, divenuti venti l’anno successivo.”

Ci sarebbe da parlare ancora sull’economia, sulle leggi, sulla cultura, sul sociale; Giovanni Nicotra, uno dei sopravvissuti di Sapri, graziato – come quasi sempre accadeva sotto Ferdinando II – dice: “..il governo borbonico manteneva la legalità ed il rispetto nella magistratura, e nei processi politici hanno mostrato maggiore indipendenza gli antichi tribunali rispetto ai nuovi”.

I poveri, gli indigenti, erano ricoverati a Napoli (ed a Palermo) in un monumento alla solidarietà che si chiamava Reale Albergo dei Poveri, “amministrato saggiamente e dove si ricoveravano ogni notte anche fino a mille persone che potevano contare su di un letto ed un piatto di minestra; chi voleva poteva avere un minimo di istruzione o imparare un mestiere. Dopo il 1861 lo stabilimento si trasformò nell’albergo della morte per lo spirito, e per il corpo sevizie, sporcizia e mortalità. I nuovi governatori ricevevano un pingue stipendio, i vecchi lavoravano gratuitamente e con spirito di servizio”.

Chiuderemo sorvolando sulla grande mistificazione del plebiscito. Un plebiscito che collegò con l’intimidazione e con l’inganno la Nazione del Sud al resto dell’Italia.

Si, Nazione, perché dell’Italia di allora, la sola Patria comune dalla Sicilia al Tronto, l’unica nazione esistente da sette secoli, da quando cioè il nord era ancora nelle mani dei barbari, era il nostro Regno. Esso per ben sette secoli, visse e prosperò, dal 1130 quando il gran-conte Ruggiero fondò la monarchia, e via – via, attraverso le dinastie Normanna, Sveva, Angioina, Aragonese ed Asburgica, ognuna legata all’altra da vincoli di sangue, politici, matrimoniali, e fino a Carlo III che rese lo stato autonomo affrancandolo da ogni collegamento straniero.

Si legge sui resoconti di alcuni storici che i garibaldini vennero a liberare la nostra terra dall’usurpatore e dal tiranno.

Chi era l’usurpatore, colui forse che discendeva da una dinastia che governò il nostro meridione fin dal 1735.?

Da questa data alla caduta del regno – nel 1860 – i Re Borbone governarono la nostra terra per ben 125 anni, e furono detti usurpatori.

Quando per due volte persero il Regno, migliaia di contadini, borghesi, nobili, ufficiali, combatterono e morirono per loro, e furono detti tiranni.

Certo i Borbone non furono scevri di colpe e manchevolezze, dobbiamo dirlo per amore di obiettività, e fra tante cose reprensibili che caratterizzarono anche il loro regno, male fecero a cedere alle richieste degli inglesi di giustiziare i protagonisti dell’insurrezione detta della repubblica napoletana, male fecero a non rispettare le autonomie promesse durante il decennio francese che vide Palermo capitale ed il resto del Regno occupato dallo straniero, straniero che dominò e la cui “occupazione fu contrabbandata dai soliti mercanti di cultura risorgimentale per liberale e democratica”, in virtù di una nostra sorta di autolesionismo che porta a parlare bene di un parvenu straniero, piuttosto che di una dinastia completamente autoctona.

D’altronde ancora oggi mi accade di notare in interlocutori occasionali una veemenza antiborbonica degna di miglior causa, una resistenza dialettica a qualunque tentativo di riesame, quasi si avesse paura di andar contro un convincimento che molte volte, del resto, nasce da una sommaria assunzione scolastica di notizie storiche.

Durante una conversazione, il mio occasionale interlocutore ribatté ad alcune mie precisazioni dicendo: “Cosa vuole, io sull’argomento so solo quello che mi hanno insegnato a scuola”.

Ed infatti, ancora oggi a scuola non si insegna. Negli anni in cui il programma prevede lo studio della storia moderna, ed in particolare del Risorgimento, fra i nomi delle varie battaglie, Curtatone, Montanara, Solferino, San Martino, Bezzecca, Novara, e dei vari personaggi, Cavour, Napoleone III, Silvio Pellico, Ciro Menotti, Garibaldi, sbuca all’improvviso l’episodio della spedizione dei mille, contro un re usurpatore, tiranno e liberticida di un regno la cui connotazione è vaga e misteriosa quasi fosse ai confini della terra, spedizione guidata da un eroe fulgido, biondo che mette in fuga un esercito di diavoli neri e sporchi, vili, al servizio di un belzebù viscido, tentennante e poi la liberazione e l’annessione in un tripudio di tricolori e peana di trionfo, con la gente del sud che osanna finalmente libera e italiana.

Luigi Settembrini, “patriota e perseguitato politico” più volte condannato a morte e sempre graziato, nelle sue “ricordanze” diceva, dopo l’unificazione, verso il 1870, deluso del governo che si era instaurato, in una lezione agli studenti: “Figli miei, bestemmiate la memoria di Ferdinando II, perché è sua la colpa di questo”, ed al loro stupore aggiungeva: “Se egli avesse impiccato noi altri, oggi non si sarebbe a questo: fu clemente e noi facemmo peggio” ed ancora ricorda riferendosi al 1836: “Tre cose furono belle in quell’anno, le ferrovie, l’illuminazione a gas e …te voglio bene assaje”.

Chiudiamo con un’ultima considerazione sul grande odio dei Savoia verso i Borbone, odio che continuò a manifestarsi con imponenti azioni di cancellazione di ogni memoria, perpetrata con la distruzione dei monumenti, delle lapidi e della toponomastica che li ricordava. In Italia esiste ancora per esempio, la Galleria Estense a Modena, mentre il Real Museo Borbonico è stato immediatamente ribattezzato Museo Nazionale. Ed il Corso Maria Teresa ribattezzato Corso Vittorio Emanuele e cito solo questo a mo’ di esempio. Non esistono quasi più monumenti, statue e ogni nome borbonico è sparito da tutte le città del Regno. Anche nel nostro intorno, il nome dei Borbone è stato completamente eliminato, non si trova a Siracusa, non a Noto, non a Catania, non a Lentini, non a Palermo.

L’aggettivo borbonico è rimasto solo collegato al carcere di Caltagirone, a quello di Catania, a quello di Siracusa, mentre in queste stesse città per il resto, sembra che la dinastia borbonica non sia mai esistita.
Ma alle nuove generazioni, ai nostri figli, ai figli dei nostri figli, occorrerà raccontarla questa storia, occorrerà che sia raccontata e ricordata, affinché sia recuperato il nostro passato che è un passato di grandezza, di cui andare orgogliosi e non vergognarsi.

di Antonio Nicoletta

25 gennaio 1997 presso il Kiwanis Club di Lentini
12 aprile 1997 presso il Kiwanis Club di Siracusa

fonte https://www.eleaml.org/sud/borbone/nicoletta2.html

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