Cronache dal brigantaggio e dintorni di Valentino Romano (XIX)

Il fiume della Storia trascina e sommerge le piccole storie individuali, l’onda dell’oblìo le cancella dalla memoria del mondo; scrivere significa anche camminare lungo il fiume, risalire la corrente, ripescare esistenze naufragate, ritrovare relitti impigliati sulle rive e imbarcarli su una precaria Arca di Noè di carta.
Claudio Magris
Il ramoscello d’olivo.
Oria, marzo del 1863
La domenica delle Palme dovrebbe essere una giornata che prepara e introduce i riti della Settimana Santa: lo scambio dei ramoscelli d’ulivo è un segno di pace e di reciproca tolleranza per tutti. O meglio, quasi per tutti. Certamente non per i preti di Oria che scelgono proprio questa ricorrenza per dare sfogo ai loro risentimenti.
É il mattino del 29 marzo del 1863 e i fedeli della cittadina brindisina affollano la cattedrale prima che cominci la Santa Messa.
Per partecipare al rito della benedizione delle Palme e alla processione sono convenute anche le comunità religiose e le confraternite del paese. Ma tutti devono attendere per almeno due ore.
Dietro le quinte, in sacrestia, si consuma una velenosa diatriba tra le dignità capitolari: il canonico Antonio Zecca, in qualità di parroco, ha indossato i paramenti sacri e aspetta che altrettanto facciano i sacerdoti Pietro Conte, Cosimo Candita, Carmelo Carone, Filippo Mazza, Francesco Errico e Giovanni Carone che dovranno assisterlo nella liturgia. Ma gli altri sacerdoti non hanno digerito la nomina dello Zecca a parroco, voluta dal Vicario Capitolare, don Ciro Pignatelli, nomina riconosciuta dalle autorità civili ma avversata dal Vescovo Margarita.
Il clero oritano – un po’ come ovunque nel Sud occupato – si è diviso infatti in due opposte fazioni: una, legata al Vicario, è su posizioni progressiste e liberali e schierata con il nuovo stato unitario, l’altra, guidata dal vescovo, difende strenuamente la caduta dinastia borbonica.
La diaspora, però, non affonda le sue radici esclusivamente nelle diverse impostazioni ideologiche ma riguarda anche problemi ben più prosaici come la gestione degli ingenti beni capitolari. I sacerdoti summenzionati, perciò, benché obbligati dai regolamenti capitolari, si rifiutano di assistere il parroco, tolgono i paramenti ed escono dalla chiesa, sostenendo di non “volere servire un Parroco illegittimo”.
E così “guastarono le sacre funzioni”, commenterà poi il can. Pignatelli (proprio quello dell’indirizzo ai membri della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio …).
Due altri canonici, il tesoriere Pasquale Maggio e il penitenziere Cosimo Braccio apostrofano duramente il parroco e, dandogli del “protestante e ribelle”, aizzano i padri conventuali francescani e carmelitani che Zecca bolla come “avanzo gli uni e gli altri di fetido retrivismo e scandalo al paese”. I religiosi prendonoo cappello e se ne vanno.
A questo punto la situazione diventa veramente difficile. Da un lato i fedeli che premono, vogliono la celebrazioni dei riti perché nella semplicità della loro fede contadina non capiscono i motivi del dissidio e poco o nulla si curano delle ideologie politiche; dall’altro sacerdoti e religiosi che, uscendo dalla chiesa, invitano i fedeli a fare altrettanto, benchè con scarsi risultati. Che fare allora?
Il parroco Zecca rompe gli indugi e aiutato dai pochi sacerdoti a lui fedeli, dà finalmente inizio alle celebrazioni: le palme vengono benedette e la processione ha finalmente inizio “con pochi preti e molto popolo”.
Visto vano il tentativo di sabotare i riti, i preti dissidenti – facendo buon viso a cattivo gioco – decidono allora di aggregarsi e lo fanno quando la processione ha già raggiunto la “strada Piazzetta”, provocando però l’ira dei fedeli che li accolgono con grida ostili e minacciose.
Dirà poi il canonico Zecca – nel corso del processo al quale verranno sottoposti i preti ribelli per “fatti tendenti ad eccitare il disprezzo e il malcontento contro le Istituzioni e le leggi dello Stato” e per “rifiuto dei propri uffizi onde turbare la coscienza pubblica” – che “volevano lordare di sangue la nostra patria con suscitare la ribellione”.
Nella stessa deposizione il prelato però lascerà intuire tutti gli altri motivi della contestazione: “si vedono girar per le case a far da confessori, amministrare i Sacramenti, celebrare forse 30 matrimoni clandestini ed altre sozzure”. E, naturalmente, (ma questo si guarderà bene dal’ammetterlo) ….riscuotendo le relative offerte.
La vicenda ha uno strascico anche il venerdì successivo: un sacerdote, d. Francesco Errico, che cura personalmente la processione della Vergine Addolorata “sparse voce che il Governo non sentisse religione pel culto del Cristo” e non vuol fare la processione. Allora i fedeli oritani (che di queste beghe politiche e di sagrestia si sono proprio stancati) prendono la situazione in mano, organizzano una colletta, prelevano la statua dell’Addolorata e si fanno la processione da soli: per loro Vittorio Emanuele o Francesco II in quel momento si equivalgono; pretendono solamente il rispetto delle tradizioni religiose e il loro rinnovarsi, alla faccia sia del clero retrivo che di quello liberale.
Naturalmente i preti oritani si guardano bene dal metterci becco: sospettano forse che qualche contadino possa essersi portato appresso, al posto degli innocenti ramoscelli, qualche ben più nodoso e affatto pacifico… ramo d’ulivo.
E, almeno una volta, a causa di tale sospetto (che a me pare fondato), “retrivi e liberali” si trovano d’accordo!