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Cronache dal brigantaggio e dintorni di Valentino Romano (XXII)

Posted by on Giu 26, 2025

Cronache dal brigantaggio e dintorni di Valentino Romano (XXII)

Il fiume della Storia trascina e sommerge le piccole storie individuali, l’onda dell’oblìo le cancella dalla memoria del mondo; scrivere significa anche camminare lungo il fiume, risalire la corrente, ripescare esistenze naufragate, ritrovare relitti impigliati sulle rive e imbarcarli su una precaria Arca di Noè di carta.

Claudio Magris

Un monaco e un Delegato di P.S. in società.

Lucera, agosto del 1863

Il frate cappuccino padre Urbano da San Marco in Lamis, al secolo Antonio Mimmo, per il tramite del suo difensore, l’avvocato Ettore Viglione, si rivolge alla Corte d’Appello delle Puglie sedente in Lucera: la sua richiesta di libertà provvisoria “senza cauzione”.

Ed è proprio grazie a questo atto processuale che la sua singolare vicenda emerge dalle carte d’archivio.

Nell’autunno del 1862 la Capitanata è stretta nella morsa della repressione del brigantaggio che dilaga in quelle contrade. Il generale Mazè de la Roche ha sguinzagliato ingenti forze per braccare le numerose bande della zona e gli effetti non tardano a farsi sentire: a novembre si presentano “trenta briganti appartenenti al Comune di San Marco in Lamis che avevano desolato la contrada e fra questi delli capi banda Polignone Nicandro, Galardi Gabriele e Gaggiani Carlo, e dei briganti Sabatino Bonifacio e Gravina Giovanni”.

I briganti vengono rinchiusi nelle carceri centrali di Foggia (“del che essi mostravansi dolentissimi, avendo sperato per la presentazione completa impunità ai tanti loro misfatti”).

Il caso vuole che nello stesso carcere si trovi p. Urbano il quale “per antecedenti servizi resi al Governo aveva ottenuto il posto di Cappellano delle dette carceri, nelle quali aveva alloggio”.

Le carte processuali – ahinoi – non specificano quali e quanti servizi  abbia reso il frate al Governo: certo però non devono essere stati di poco conto, se gli hanno consentito di abbandonare il convento, di alloggiare in due stanze del carcere e di ricevere la prebenda connessa al suo incarico.

E il cappuccino, da autentico religioso e patriota, non si limita risollevare il morale dei briganti in catene: si adopera in ogni modo per ricondurli sulla retta via del ravvedimento; anzi fa di più, cerca di convincerli a collaborare con le forze dell’ordine al fine di estirpare la piaga del brigantaggio che desola la provincia di Capitanata. Sul principio di dicembre, d’accordo con Antonio Iassetti di Loreto – operoso regio funzionario e Delegato di Pubblica Sicurezza, destinato dal Governo della nuova Italia ad assicurare l’ordine costituito in luogo dei corrotti funzionari della passata dinastia – avvicina uno dei suoi compaesani detenuti, Angelo Gravina, “promettendogli libertà se avesse voluto farsi guida alla forza pubblica per arrestare gli altri briganti che scorrevano il paese, e specialmente il Gargano”. 

Gli inquirenti precisano subito che i due agiscono a quanto pare di loro spontanea iniziativa. E ci mancherebbe! Non si dica mai che la nuova Italia riesce a sconfiggere il brigantaggio con le delazioni e la corruzione: sono strumenti della passata dinastia, mica della nuova Italia!  

Il brigante Gravina, che tali sottigliezze non conosce, ci starebbe pure: però capisce pure che le autorità sono in difficoltà e alza il prezzo: per aiutarle chiede anche che “con lui dovessero uscire altri dieci briganti fra cui quattro suoi figli”. I due infervorati liberali si precipitano dal Prefetto al quale “partecipano la cosa”. Questi però respinge decisamente la proposta, assennatamente trovandola pericolosa ed esorbitante. Che cavolo! Non si può sputtanare il Governo fino a questo punto.

P. Urbano e Iassetti, però, non sono tipi da fermarsi al primo ostacolo. Lo zelo patriottico che li pervade non glielo consente: non ristettero il Frate e il Delegato dal loro proposito intavolando diuturne pratiche con altri briganti…. Si distingue particolarmente il frate che fa da interprete al Delegato e più ancora da intermediario (non fermandosi questi che brev’ora coi briganti e recandosi a fumare nel largo del carcere, mentre il P. Urbano compiva le trattative).

Ne viene fuori una nuova proposta dal Delegato al Prefetto e poscia al Comandante Generale, i quali sotto raccomandazioni di precauzioni e con scorta di una compagnia di Bersaglieri sotto gli ordini del Capitano Tinelli, accondiscesero a che i detti briganti fossero estratti dal carcere e affidati al detto Capitano per servire alla truppa da indicatori.

Ma i briganti hannov escogitato un diverso piano: non appena ne avranno il destro fuggiranno e ritorneranno alla macchia. Alcuni loro congiunti ne hanno sentore e, per paura che accada qualcosa di peggio, avvertono il Delegato, ricevendone in cambio rimbrotti e minacce. Iassetti arriva a minacciare la madre di uno dei briganti, Gravina e dà disposizione perché per l’avvenire persona alcuna potesse più avvicinare, parlare, o servire agli altri briganti di San Marco, evidentemente nel fine d’impedire che si divulgasse la corruzione avvenuta. La comitiva parte regolarmente per la spedizione e mal gliene incorre al capitano Tinelli, che dopo due giorni si rende conto di essere stato gabbato: quattro briganti sono ormai uccel di bosco.

A San Marco, tra lo sconcerto e lo scherno, circola ormai voce che l’uscita del carcere concessa ai briganti era stata opera di corruzione del Delegato Centrale, cooperandovi il p. Urbano. Il Prefetto ordina indagini e perquisizioni a tutto campo: presso il Iassetti, si rinvenne nel cassetto del suo scrittojo e sulla sua persona la somma rilevante di lire 2.208,70 fra cui 51 pezzi di venti franchi, che egli aveva cercata sottrarre durante la perquisizione; la qual somma unita ad altra di D. 1489,30 in tanti vaglia postali da lui spediti dal Giugno al Gennaio, tempo nel quale fu in carica, né poteva ritenere, poiché ammesso anche che egli avesse anche recati in Foggia lire 1.000, e risparmiate lire 1050 sul suo stipendio di annue lire 3.000, la somma trovata eccedeva di 1.300 lire quella che avrebbe potuto avere.

Il Delegato viene quindi arrestato e le indagini successive accertano che egli e P. Urbano avevano frequenti colloqui fra loro coi briganti e loro parenti.

Non basta: si scopre che la druda di Polignone (uno dei briganti fuggiti), depositaria di lire 1.000 in oro le aveva portate al carcere la mattina della partenza di briganti, e che 500 lire furono tosto consegnate a. P.Urbano, e le altre 500 alla madre del detto brigante che rimase in foggia quasi in ostaggio di P. Urbano fino a che Polignano non desse ordine della consegna pure di essa: che di fatti tre giorni dopo certo Capotosto portò tal ordine con lettera e la pattuita mercede della corruzione … fu quasi per intero consegnata al P.Urbano, meno qualche moneta, un revolver e un orologio di oro con catena che pure il monaco pretendeva.

Si viene infine a sapere che ciascuno degli altri briganti fuggiti ha contribuito con una quota di D. 200.

Hai capito il frattacchione! Altro che patriota! Un corrotto che, facendosi scudo dei suoi sentimenti nazionali, per i suoi servizi prima resi al Governo chiese ed ottenne un impiego, oltre alla libertà di vita fuori del chiostro in cui a malincuore probabilmente viveva.   

Anche per P. Urbano e Iassetti si spalancano le porte della prigione. Ma stavolta, purtroppo per loro, all’incontrario! Ad essere sinceri a me un po’ spiace per la sfortunata vita del cappuccino: ha cercato di uscire da una cella… per andare a finire in un’altra.

Per inciso, e comunque la si giudichi, la vicenda fa nascere un ulteriore sospetto sulla misteriosa fine di molti favoleggiati tesori dei briganti.

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