Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

CUMA di Alfredo Saccoccio

Posted by on Mar 5, 2018

CUMA di Alfredo Saccoccio

 

Uno dei posti più suggestivi nella provincia di Napoli, per la bellezza del paesaggio e per la ricchezza di materiale archeologico, è Cuma, una delle più antiche e floride colonie greche in Italia, nel cuore dei Campi Flegrei, risalente all’VIII secolo a. C., anteriore alla fondazione di “ Pithecusae”, che sorge su una collina di lava trachitica, da cui lo sguardo abbraccia l’intero arco litorale, da Torregaveta fino a Gaeta, che reca il nome della nutrice di Enea, luoghi che evocano certi suggestivi ricordi virgiliani. Le plaghe di Cuma, disseminate di vario incanto, esercitarono un grande fascino sul popolo romano. Di Cuma sappiamo che i suoi cittadini fondarono Napoli (470 a. C.) , ai quali bisogna riconoscere la presenza di traffici precoloniali e la supremazia commerciale su tutta la costiera.

Nelle più gravi crisi si mandava una delegazione a Cuma ad interrogare la mitica Sibilla, la rispettata sacerdotessa di Apollo, che occupava un antico edificio a volta, ove pronunciava i suoi oracoli, sempre oscuri, ambigui, che si prestavano ad interpretazioni diverse, perché lei affidava le parole alle foglie di palma, che il minimo soffio di vento avrebbe potuto disperdere o confondere facendo perdere il responso della stessa o rendendo più difficile la decifrazione della profezia. Il fosco antro, che sorge alla base dell’acropoli, nel fianco delle rupi, presso un bosco, descritto potentemente da Virgilio nel sesto canto dell’ “Eneide” e citato da Pausania, nel II secolo d. C., e dallo scrittore cristiano, lo Pseudo-Giustino, fu scavato dai Greci nel VI-V secolo avanti Cristo, quando, secondo alcuni, si chiamava Ipèria, cioè “terra alta”. Infatti la forma di questa caverna, dalle cento bocche e dai cento misteri, uno dei siti più carichi di mistero dell’Antichità, che incute il religioso timore divino, ricorda quella dei monumenti funerarii cretesi-micenei. Alla pitonessa Deifobe si rivolsero il fuggiasco Enea e Tarquinio il Superbo. Il suo culto ebbe credito pure presso i Romani e soprattutto tra i Cesari. Secondo quanto narra Varrone, Tarquinio Prisco avrebbe acquistato dalla Sibilla Cumana i famosi “Libri Sibillini”, detti anche “Libri Fatales”.

Confrontare Ovidio, “Metamorfosi”, XIV, e Virgilio, “Eneide”, III.

Michelangelo Buonarroti disegnò quattro Sibille nel “Giudizio Universale” della Cappella Sistina. Tommaso da Celano nella cupa sequenza del “Dies irae” scrive: “Teste David cum Sibilla”!

Andersen scrive che, per entrare nella grotta oracolare della Sibilla, lunga 131,50 metri, larga m. 2,40, alta circa m. 5, tagliata nel tufo, in forma di trapezio, che prende luce da sei grandi cunicoli laterali, anch’essi trapezoidali, occorre essere portato in braccio, perché dentro c’è acqua alta, ed occorrono le torce in questo oscuro budello. Claude Jordan de Colombier in “Voyage historique de l’Europe”, vol. III (“che comprende tutto quello che c’è in Italia”), Parigi, 1701, scrive che si entra nello speco tramite un corridoio tagliato nella rupe, lungo 450 passi, che porta ad un ambiente, “la cui volta è dipinta d’oro e di azzurro, e le mura ricoperte di corallo e di madreperle”.

Lo scrittore Herman Melville si reca al Lago d’Averno, che, da buon lettore della Bibbia, gli ricorda la Gehenna e il terribile culto di Moloch. Cammina per la lunga grotta, si fa raccontare dalla guida che qui vi è l’ingresso del mondo dei morti, si lascia portare, a spalle, fino all’oracolo della Sibilla, scrivendo: “ In nome di Dio, perché fecero gli uomini questi posti? Certo l’uomo è uno strano animale. Preferisce scavar negli interiori della terra, anziché costruire in su verso il cielo. E’ una chiara indicazione che preferì la tenebra alla luce…

Sulla terrazza inferiore dell’acropoli vi sono i resti del tempio di Apollo (m. 34,60 x 18,30), classificato tetrastilo periptero, orientato all’ordine tuscanico, d’epoca greca. Secondo Virgilio, sarebbe stato costruito da Dedalo “fuggito da Creta librandosi nell’aria grazie ad un primitivo apparecchio di volo che gli consentì di sottrarsi alla prigionìa di Minosse e di posarsi sulle coste napoletane”), di cui resta solo la grande platea a blocchi squadrati di tufo. Enea approda a Cuma ascendendo, assieme ad Acàte, verso la rocca, dove è il magnifico tempio di Apollo, ornato di marmo e d’oro. L’eroe troiano ammira la porta istoriata da Dedalo, in cui sono rappresentate, in un primo gruppo, scene di vita ateniese e, in un secondo gruppo, scene di vita cretese.Tutte scene di dolore, l’uccisione di Androgeo, il tributo di sangue che gli Ateniesi dovevano pagare, ogni anno, a Minosse, il sorteggio delle vittime destinate al Minotauro. In Creta altre scene di dolore: l’infelice amore di Pasifae, l’amore disperato di Arianna, l’uccisione del Minotauro.

Dopo il 31, Ottaviano fa restaurare i templi cadenti richiamando vecchi culti, con particolare riguardo ad Apollo, il dio delle arti, della pace, della protezione. Di qui la necessità di rimettere il culto di Apollo a Cuma, ove furono custoditi, in una idria di pietra, i miseri resti della Sibilla. L’imperatore, che utilizzò l’acropoli come roccaforte durante la guerra civile del secondo triumvirato, trovò l’uomo adatto in Virgilio, che, fin dal 38, abitava nella zona flegrea e che conosceva antiche leggende e riti. Il poeta mantovano se ne assunse il compito facendo rivivere l’antico culto. Sulla terrazza superiore, stando di fronte al mare, si trovano i resti dell’imponente tempio di Giove (m.39,60 x 24,60), anch’esso d’epoca ellenica, ricostruito al tempo dell’imperatore Augusto, poi trasformato, nel V-VI secolo dopo Cristo, in basilica cristiana, a 5 navate, consacrato a S. Massimo.

Vicino all’acropoli, di insigne civiltà, vi sono numerosi e pregevoli resti archeologici. Poco distante da essa, l’antico “Arco Felice”, sotto il quale passa un tratto (forse l’unico rimasto) della vetusta, monumentale via Domitiana, aperta alla fine del I secolo d. C.. Gli antichi romani giungevano a Cuma tramite la suddetta strada, di cui fu rinvenuto il “miliarum” XXX. Dopo essersi lasciati alle spalle il lago d’Averno, attraversavano il monte Grillo, sotto l’Arco Felice ( alto 20 metri, largo 6, definito così in onore di tutta la regione campana, “felix” per antonomasia) e si trovavano di fronte alla valle ricca di ville suburbane e di campagne coltivate.

In fondo, sulla rocca, c’era Cuma, la città millenaria e cosmopolita. I soldati imperiali, nel frattempo, la raggiungevano attraverso la galleria di Cocceio, detta anche “grotta della Pace”, un’opera militare che collegava Cuma con il lago d’Averno.

Sul lido di Cuma fu eretto il rogo del trombettiere di Enea, che, perso il fido amico Miseno, fatto precipitare in mare dal dio Tritone, invidioso della sua abilità nel suonare la bùccina, interrogò, nell’antro di Cuma, la Sibilla ottenendone un favorevole responso per discendere all’Averno, dove regnava qualcosa di arcano. Non lontano dalla grotta, c’era una   sterminata foresta, dove Enea spicca a mano, senza usare alcun strumento, secondo il rito che proibiva l’uso del ferro, il ramoscello d’oro nascosto tra le fronde di un’elce, portandolo alla Sibilla cumana, che lo accompagnerà nell’anti-inferno, il “limine primo” dove vagiscono le anime dei bambini e si aggirano, inconsolabili, quelle dei suicidi par amore, dei morti anzitempo, degli insepolti. Il pio Enea, senza un aiuto sovrannaturale, non avrebbe mai trovato nella selva il prezioso ramoscello, se non fosse stato aiutato dalla madre Venere, che invia due colombe che lo guidano, in un mare di piante, all’albero del ramoscello d’oro, senza il quale non potrà scendere nell’Ade per incontrare il padre. L’incontro avviene ed Anchise gli addita i Campi Flegrei e rivela al figlio il suo immediato futuro parlandogli del Lazio e delle guerre che vi dovrà sostenere. Il Lazio è la terra a lui destinata dal prodigio di una candida scrofa con trenta porcellini. Anchise mostra ad Enea “i futuri grandi uomini che foggeranno i destini di Roma e governeranno il più grande impero del mondo”.

Cuma, dal greco “kyma”, maroso, flutto, fu il paese dei Cimmerii, su cui si stende eterna la notte. Il poeta drammatico greco Licofrone, del III secolo a. C., al verso 695 del poema “Alessandra” (Cassandra) chiama gli abitanti dei dintorni di Cuma, abitatori di grotte, che non vedevano mai il sole, Cimmerii. Si tratta dell’Ade, i cui abitanti si chiamano “kimaioi”, Cumani. Il poeta calcidese li chiama “kimmeroi”. Omero al 14° verso dell’XI canto accenna al “kimmerìon andron”, ovvero ai Cumani, collocando queste talpe umane mitologicamente alle soglie dell’oltretomba.

Anche Festo, Plinio il Vecchio, Cicerone,Valerio Flacco e Tibullo (“Cimmeriii lacus…”) hanno la stessa localizzazione dei Cimmerii.

Nel 524 a. C. Cumani ed Etruschi, forti di 500.000 uomini, si scontrarono in una grande battaglia, che vide vincitori i primi, il che modificò il quadro politico nel Tirreno. Risale allo stesso secolo una “Storia di Cuma”, rifatta tre secoli dopo e attribuita al cumano Iperoco: tutta perduta, ebbe notevole rilevanza sulla tradizione storiografica di Roma, città le cui vicende cominciavano, giusto allora, ad intrecciarsi con quelle del mondo campano.

Cinquant’anni dopo, gli Etruschi cercarono la rivalsa, sempre nelle acque di Cuma, ma i Cumani, aiutati dalla potente flotta siracusana di Gerone I, sconfissero ancora gli Etruschi. La grande vittoria, esaltata da Pindaro, limitò l’egemonìa marittima degli Etruschi sull’Italia meridionale, che turbava anche l’attività commerciale di Siracusa.

La città fondata dai Calcidesi cadde (circa 438 o 421 a. C.) sotto il dominio sannita, poi sotto quello romano (334 a. C.) ricevendo la cittadinanza senza diritto di voto. Solo nel I secolo a. C. Cuma ottenne, per la sua fedeltà a Roma nella seconda guerra punica, la piena cittadinanza.

Sembra che nel territorio cumano si sia svolta la Gigantomachia, la mitica lotta tra Giove e i Giganti. Al Museo Nazionale di Napoli, al centro dell’ampio scalone che conduce dall’immenso vestibolo alla “Sala degli Arazzi”, campeggia il gigantesco busto di Giove, databile alla fine del I secolo d. C., statua in marmo greco proveniente da un edificio antico di Cuma, detto “Tempio del Gigante”, portata alla luce grazie agli scavi promossi da Don Ramiro Guzman, viceré di Napoli. Anche la “Testa di Peplophoros “, di epoca adrianea, ritrovata a Cuma nel 1952, è entrata a far parte del dovizioso patrimonio del museo campano.

Nel 133 a. C. un filosofo greco di Cuma, Blossio, era precettore di Tiberio Gracco, divenuto tribuno.

Silla distribuì terre a più di centomila veterani, specie a Cuma, dove aveva una fattoria e dove, fra i suoi veterani, passò il tempo, fino al termine della sua esistenza, a dirimere le loro controversie. Vi visse e morì (66 d. C.) Petronio Arbitro, che scrisse il “Satyricon”, un monumento letterario dell’antica Roma, l’opera più originale della letteratura latina e di tutta la letteratura classica, tagliandosi le vene, quando capì di essere perduto, accusato da Tigellino, che lo odiava, poiché vedeva in lui un rivale, di complicità con Flavio Scevino, uno dei principali responsabili della congiura pisoniana contro Nerone.

A Cuma, sul litorale campano, incoronato di lussuose ville, tanto da calamitare inesorabilmente, e per la vita, Virgilio e Lucrezio, Cicerone (vi aveva una villa, il “Cumanum”, fornita di una vasta pinacoteca e dove pare che abbia scritto gli “Accademica” e la “Repubblica”) ed Orazio, Petronio Arbitro si tagliò le vene ed aspettò la morte conversando scherzosamente con i suoi ospiti, fra versi leggeri e canzoni d’amore. In obbedienza politica, tutti quelli che il tiranno spediva all’altro mondo lasciavano un testamento adulatorio verso Nerone, per salvare i parenti. Petronio Arbitro, l’“arbitro dell’eleganza”, invece, lasciò un durissimo testamento, nei “ codicilli”, in cui, dopo aver nominato le canaglie e le prostitute che erano al servizio mondano di Nerone, rivelò, senza peli sulla lingua, tutte le porcherie e le vergogne che sconciamente animavano la vita imperiale. Petronio Arbitro sigillò il testamento e lo mandò a Nerone. Egli si era vendicato di un principe illiberale e scostumato, da uomo libero, come fecero il filosofo Lucio Anneo Seneca, maestro e ministro di Nerone, dell’antica famiglia Calpurnia, e suo nipote, il poeta Marco Anneo Lucano, costretto al suicidio, il 30 aprile del 65, non ancora ventiseienne, anch’essi morti svenati, il primo accelerando la propria fine bevendo la cicuta.

Sappiamo che Romualdo II, duca di Benevento, si impossessò, nel 717, del castello di Cuma, che controllava le comunicazioni tra Roma e Napoli, che la città fu saccheggiata dalle orde saracene nel secolo X e che la spiaggia fu abbandonata, dopo la definitiva distruzione di Cuma compiuta nel 1207 dal napoletano Goffredo di Montefuscolo.

A Cuma hanno soggiornato Boccaccio e Petrarca, che vi hanno immaginato l’antro della Sibilla, mentre studi recenti, in quel corridoio misterioso, vi vedono funzioni più militari che divinatorie.

Per comprendere la Cuma di Virgilio, bisogna far ricorso a Guido Piovene, che così la descrisse nel suo “Viaggio in Italia”: “la zona Flegrea, culminante in Cuma, vulcanica ai tempi remoti, coperta di lave preistoriche e di crateri spenti, era ai tempi di Roma un contrappunto di infernale e di ameno, infernale per acque e fanghi ribollenti e vapori del sottosuolo… nonostante i bollori del sottoterra, già nell’Impero erano questi luoghi più elisii che infernali, e forse la vicinanza dei demoni serviva solo a conferire un rapimento maggiore alla loro dolcezza”.

Da vedere, a Cuma, anche l’anfiteatro del I secolo a. C., il tempio della Triade Capitolina, di età greca, l’edificio termale dai vasti ambienti , una necropoli molto vasta, con tombe a camera e a cassone, della prima età ellenistica, un tempio dedicato ad Iside Pelagia, databile fra il I secolo a. C. e il I d. C., con tre statuette egizie, raffiguranti Iside, la Sfinge ed un alto sacerdote, che mostra un’immagine di Osiride. Il tempio, emerso tra le dune del litorale di Cuma, sotto la rocca trachitica, più grande di quello pompeiano, con fonte rituale e podio, era decorato di marmi policromi e con pitture parietali.

Cuma fu un centro importantissimo di produzione di ampolle di vetro e di vasi, oltre mille, molti dei quali decorati con teste femminili, spesso con un tocco di color rosa sulle guance. Pare che la produzione dei vasi, a Cuma, abbia avuto termine verso il 300 a. C..

 

Testimonianze

 

Dopo queste città viene Cuma, fondazione assai antica dei Calcidesi e dei Cumani: è la più antica di tutte le colonie di Sicilia e d’Italia (è errato, perché la fondazione di Cuma fu, in realtà, preceduta da quella di Pitecusa, fondata intorno al 770 a. C., n. d. a.).

Ippocle di Cuma (di Cuma Eolica, in Asia Minore, o di Cuma Euboica? N. d. a.) e Megastene di Calcide, che erano a capo della spedizione coloniale, si erano messi d’accordo fra loro che la città fosse colonia dei Calcidesi, ma portasse il nome di Cuma: per questo anche ora è chiamata Cuma pur avendola, come sembra, colonizzata i Calcidesi. La città dunque all’inizio era prospera e così la pianura chiamata Flegrea, dove viene localizzata la leggenda dei Giganti non per altra ragione, come verisimile, se non per il fatto che questa terra, per la sua fertilità, era atta a suscitare contese.

Più tardi (nel 421 a. C., n. d. a. ) i Campani, resisi padroni della città, esercitarono ogni sorta di violenza sugli abitanti e infatti andarono perfino a vivere con le loro donne. Tuttavia restano ancora molte tracce dell’ordinamento dato dai Greci sia per quanto riguarda le cerimonie sacre sia le norme legislative.

Alcuni dicono che Cuma prenda il nome da “kumata” (il termine ellenico significa “flutti”, n. d. a.): infatti la spiaggia vicina è scogliosa ed esposta ai venti. Ci sono nei pressi anche ottimi luoghi per la pesca di pesce grosso. Nel golfo medesimo c’è anche un bosco di piccoli alberi, che si estende per molti stadii, senza acqua e sabbioso: è conosciuto sotto il nome di “Silva Gallinaria”. Là i capi della flotta di Sesto Pompeo riunirono gli equipaggi di pirati al tempo in cui egli sollevò la Sicilia contro Roma (nel 43 a. C., n. d. a.).

Alfredo Saccoccio

 

(Strabone, ”Geografia – L’Italia”, libro V, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1988).

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