Alta Terra di Lavoro

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DELLA CIVILTÀ DELLE DUE SICILIE DAL MDCCXXXIV AL MDCCCXXX

Posted by on Feb 28, 2023

DELLA CIVILTÀ DELLE DUE SICILIE DAL MDCCXXXIV AL MDCCCXXX


Quando l’Infante D. Carlo veniva alla conquista della Monarchia di Ruggieri, queste belle Sicilie erano afflitte da due terribili flagelli: l’anarchia viceregnale e l’anarchia feudale. Sottoposte a potenti Monarchi lontani, affidate a mani inesperte venali deboli o crudeli e sempre straniere, divise fra ricchi possessori di vasti feudi i quali, perpetuamente guerreggiando far loro, facevano della sovranità partita a brani strumento di spaventevoli oppressioni, lo provincie di qua e di là del Faro erano ridotte a tale, che non poteano rammemorare senza lagrime la loro antica civiltà, e quella con la quale dopo la barbarie succeduta olla rovina dell’Impero Romano aveano potentemente aiutato il risorgimento dell’Europa moderna.

La storia viceregnale abbraccia il lungo periodo di dugento trentadue anni (1), nel quale i feroci proconsoli inviati al nostro reggimento, comeché di nome d’indole di genio diversi, tutti appaion fermi a compiere l’atroce impresa di spegnere in questa ricca colonia ogni alto sentimento che mal si affacesse al pacifico servaggio dimandato dall’orgogliosa Metropoli, di accostumare le genti a gretto e disperato vivere, di distruggere la naturale fortezza di animo che fece i padri nostri gloriosi si nelle arti della pace e si in quelle della guerra, di tener sempre vivo ed acceso il fuoco delle domestiche dissensioni e far di e so abominevole sussidio dell’impero.


Prova ne sieno le leggi di quella tristissima età, la più parte scritte col sangue, come si disse delle antiche di Dracene, per rendere con l’asprezza delle pene aspri i dolci e miti costumi di un popolo vivace gaio docile immaginoso e punto non inchinevole alle cupe e feroci passioni, che mal potrebbero allignare in questa terra felice e sotto questo cielo beato.

Se le pratiche di quella malvagia politica non giunsero a snaturare al tutto gli animi, valsero non pertanto a rendere squallida e diserta la bella patria nostra. Le scienze e le arti, che ebbero culla o onorata stanza in questa antica terra, neglette invilite sbandeggiate o mossero a dare in dono alle straniere nazioni la sapienza degli avi nostri, o timide e paurose si rifuggirono in sacri asili, dove all’ombra della Croce crebbero a nuove sorti per sola vigoria di fervidi ingegni altamente benemeriti della Religione e della civile comunanza.

E gravi e lacrimevoli furono le calamità che da quelle avverse condizioni a noi derivarono. La popolazione scemò di tanto, che nel paese di ogni altro più fecondo e granaio dell’Italia, ogni anno quasi s’ ebbe a temere di perir della fame. E cessato del tutto il traffico, i nipoti del prode Amalfitano pervennero ad obbliare che i loro navigli erano usi a trasportare per tutto il Mediterraneo ed oltre le colonne di Ercole le loro mercanzie e quelle che dall’Oriente ci venivano allora per l’istmo di Suez.

E non valeva ardire né amor di guadagno a far riprendere la navigazione e gl’interrotti commerci. Dappoiché la stolta ostinazione, che lenenti in perpetua guerra co’ Maomettani, faceva s’i che i nostri mari fossero mai sempre ricoperti di pirati, i quali disertavano le nostre coste, abbruciavano le nostre terre meglio munite, menavano in crudele schiavitù uomini, donne, fanciulli, e davanci in iscambio frequenti e terribili pestilenze.


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Né misero era meno e mal securo il trafficare delle nostre provincie fra loro: perocché andate in rovina le belle strade che da Roma menavano in tanta parto del Regno, non era sentiero che non fosse stato guasto e disastroso, e che infestato da feroci bande di malandrini non avesse costretto a combattere chiunque osasse di uscir dalle porte della sua terra.

Aggiungi la distanza grandissima che ci dipartiva dalla sede del Monarca, la difficoltà di far giungere appiè del Trono le più giuste querele, la disordinata amministrazione, l’incredibile rapacità de’ pubblici ufiziali, orgogliosi ed insolenti co’ deboli, vilissimi co’ potenti e perpetuamente agitati da’ tristi casi di vittime illustri assai spesso immolate a più illustri vendette. Ancora: ad ogni aura di vento men che favorevole, era forza placare coli’ oro lo sdegno de’ Numi a’ quali fosse affidata la somma delle nostre cose, e crescere il peso delle ordinarie gravezze con la perpetua giunta di straordinarie taglie, quasi per ingiuria denominate col generoso titolo di donativi.

Divorate le pubbliche e private fortune e, per la profonda ignoranza di tutte le parti della politica economia, inaridite le fonti d’ogni nazional ricchezza, si giunse ora a tosare le monete d’oro e d’argento, Ora ad aumentarne il valore: rovina dello Stato ed ignominia!

Carlo distruggeva l’anarchia viceregnale con le armi spagnuole in Bitonto, e ne allontanava il minacciato ritorno con le Milizie Napoletane in Velletri. Rimaneagli a distruggere l’anarchia feudale: ma l’opera grande e gloriosa, rendala dalle condizioni de’ tempi assai difficile, non potevasi compiere come l’altra sul campo di battaglia, ma si bene nel segreto del Consiglio e co’ trovati di saggia e provvida mente.

Dritto antichissimo (2) con l’ultima barbarie de tempi per l’Europa rinnovellato nella lunga agonia dell’impero de’ Cesari, il sistema feudale era tornato a conforto delle genti fra gli orrori, le bruttezze, le violenze e le stragi, le quali quasi facean temere che presto per la gran selva della terra orrida e muta non sarebbe genere umano (3). Accolti in quel lacrimevole travaglio dello nazioni come ancora d’insperata salute, avea quel reggimento sottoposto da per tutto al suo imperio le persone e le cose.


Ma le sue forme, distruttrici del principio vitale d’ogni umana comunanza, non potevano adagiarsi co’ naturali clementi della civil società: e però gli animi incessantemente tormentati da viva inquietudine, desti appena dal profondo letargo della lunga barbarie, non seppero tollerare quella nuova maniera di dominazione, la quale fermata dalla spada e dalla lancia, erasi dall’insolenza dell’agreste vincitore cangiata in aspro ed intollerabile giogo.

Tali erano le dure condizioni di questa estrema parte della nostra penisola e della vicina Sicilia, quando Ruggieri compiva l’ardita impresa di farle suddite al suo scettro. Venuto quel magnanimo in grande potenza, sottometteva i piccioli Regoli di queste regioni, ma non concepiva neanche il pensiero di svellere dalle radici la mala pianta che presto dovea tutte aduggiare le nostre terre. Con miglior senno si faceva Federico saldissimo presidio contra i soprusi feudali: ma le leggi di quell’Augusto, comeché sapientissime, andavano obbliate fra le calamità miserande ed atroci della sua dinastia, e fra le ingiurie del regno degli Angioini oltremodo cresciute per opera delle due ultime Regine, di animo assai inchinevole a favoreggiare i cortegiani, ed incapaci di serbare con ferma mano l’integrità del potere Reale. Ne meglio erano mantenuti i dritti della Corona da’ Re Aragonesi, ora troppo larghi donatori di ogni facultà di amministrar giustizia, ed ora più solleciti di reprimere le cresciute usuri azioni che di ben ordinare lo Stato e vendicare l’autorità sovrana vilipesa. Il quale mal accorto procedimento alimentava la turbolenta ambizione de’ Grandi, ed era trista cagione di funeste perturbazioni, infelicemente represse con memorando oltraggio fatto alla fede delle promesse, onde venne il Trono a mancare del conforto di una virtù la quale, essendo vincolo santissimo del viver civile e saldo sostegno del Principato, se pur fosso bandita dalla terra, mai non dovrebbe disperare di trovar facile e securo asilo nel cuore de’ Re.

Noi non seguiremo le vicende della feudalità ne’ tempi posteriori, che costanti ed uniformi appaion sempre gli sforzi delle nostre popolazioni per sottrarsi a forme si contrarie alla loro indole generosa, e quelle prendere che loro meglio si affacessero. La feudalità, nella sua origino grandemente benemerita delle genti per essa dallo stato quasi ferino restituite ad onesto e pacato vivere, non poteva contrastare all’ordine segnato nella storia eterna delle nazioni:


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e però doveva spogliarsi delle parti usurpate della sovranità, e quelle rendere al potere monarchico, dall’un canto all’altro dell’Europa altamente invocato come conservatore ed accrescitore dell’umana civiltà. La conquista di Carlo III segnava questo fortunato momento per le Sicilie.

All’arrivo del novello Monarca, i Baroni del Regno, per la più parte rinchiusi ancora in luoghi lontani fortemente muniti dalla natura e dall’arte, in mezzo a popolazioni misere ed invilite, alle quali non erano congiunti per alcuno di que’ vincoli che stringono gli uomini fra loro, in perpetua guerra co’ potenti vicini, erano nelle loro terre come piccioli sovrani, ricchi delle antiche conquiste e venuti in si gran potere, che essi stessi si teneano ed erano da tutti tenuti superiori alle leggi. Possessori di amplissimi diritti, estendevano il loro dominio sull’aria, sull’acqua, sulla terra e sulle cose tutte, senza le quali uomo o non vive o trae dura e miserevole vita. De quali turpi diritti, se smarrir si potesse mai la ricordanza, sarà certo indelebile nella memoria de’ secoli quello che col marchio solenne della barbarie sulla fronte imponeva infame taglia all’indissolubile unione santificata dal cielo per la conservazione dell’umano genere (4)!

Pure all’apparir di Carlo, presi di bella emulazione, tutti i Baroni accorsero volentierosi a salutare il ristauratore della Monarchia, portando nel loro animo l’onore e la fede degli antichi cavalieri, il coraggio e l’attitudine alla guerra, il nobile orgoglio che ne’ cuori de’ generosi è stimolo alle grandi imprese, l’amore per l’indipendenza della nostra patria. Chi è uso di risalire alle prime cagioni degli avvenimenti, vedrà che in quel giorno si cominciò a fare aperta guerra alla feudalità. E certamente da quel giorno l’indole feroce della sua origine fu temperata dalla presenza augusta del Sovrano, e dalla forza delle provvidentissime leggi ordinate a farla sparire affatto dal Regno col lento e progressivo movimento col quale le utili riforme, consigliate da’ cangiati bisogni de’ popoli, sono da’ sapienti moderatori dogli Stati rendute libere da’ gravi inali che vogliensi considerare compagni inseparabili delle repentine mutazioni.


Da Carlo ebbe principio il risorgimento delle Sicilie. Come ei fu gridato Signor Nostro, imprese a riordinare la Monarchia, a’ dar vital moto alle inferme provincie, ad imbellir la città nostra, a tornare in onore i buoni studi, a risvegliare la dignità nazionale invilita, a fare della risorta virtù ristoro alla felicità pubblica. Né il salutare movimento ristette sotto l’augusto successore Ferdinando. Perocché quantunque deplorabili avversità fossero sopravvenute a ritardarlo, feeesi non pertanto più spedito e profittevole al comun bene per quella nobile vigoria la quale mai non fu spenta negli animi degli uomini di queste nostre terre, e vince gli ostacoli e di essi fa sprone al beli’ operare.

Carlo era desideroso di quella gloria che i buoni Principi consegueno come legislatori e sapienti moderatori de’ popoli: e però conosciuta la disformità, l’incertezza e la confusion delle leggi, concepì il vasto e generoso disegno di dare alle Sicilie un codice novello (5), e si volse ad un tempo a rendere ferma presta ed uguale l’amministrazione della giustizia. Ne valsero a rimuoverlo dal saggio suo proponimento i finti timori di alcuni uomini del foro, teneri de’ sistemi che erano arma all’arbitrio del magistrato e scudo all’impunità de’ potenti. E tornarono vane le querele e le pratiche dogli ordini privilegiati, che do’ nuovi provvedimenti prendevano sospetto e guardia: e tutti concordemente eran dolenti di memorabile massima allora per la prima volta udita nel nostro paese, la quale altra distinzione non riconoscendo che quella di Re e sudditi (6) altamente annunziava l’impero della ragione succeduto a quello della necessità e della forza.

L’ora de’ miglioramenti era venula: la politica, non più la vilissima delle arti, era tornata ad essere la scienza del giusto e dell’utile fondala sulle eterne leggi del vero, che forza alcuna non doma né tempo alcuno consuma. Le leggi civili cominciarono ad essere la tutela della pubblica autorità e de’ diritti de’ privati, e le penali divennero eque ed umane (7). I magistrati, costretti a dar ragione delle loro sentenze, presero a lor guida la giustizia e la verità. Interpreti degli oscuri oracoli delle leggi non dubbio termine alle dubbie cagioni delle persone e delle cose, protetto il santo vincolo d’ogni amano consorzio,


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la fede de’ patti e delle obbligazioni, protetta l’inesperta onestà contra le macchine della frode, agguagliata la ragione della tremante povertà col superbo minacciar della ricchezza, e noli’ immenso spazio che disgiunge gli uomini, adeguati in tutti i civili diritti ed in lutti equabilmente diffusi (8). Procedevamo a gran passi per le vie de’ civili ordinamenti, quando sul cominciar di questo secolo e fra l’incendio delle guerre, onde ardeva il mondo, fu a noi dato un Codice già divenuto comune a gran parte dell’Europa. Quel Codice non ci recava nuove leggi, ma quelle di Roma antica bene ed ordinatamente disposte, e meglio alla forma del viver civile delle presenti generazioni accomodate. Puro noi non fidavamo alla cieca nella parola de’ donatori. E però ponderatamente esaminandone tulle le parli, volevamo far quelle sparire elio tenevan troppo degli usi, delle consuetudini, dell’indole, del clima dell’estranee genti. Ma opponevasi il volere di colui, che a que’ giorni lutto poteva, e elio guerriero e legislatore insieme dato aveva al nuovo Codice il suo nome: e però riuscivan vane lo fatiche de’ valorosi giureconsulti a’ quali quel lavoro era stato commesso. Era questa gloria serbala a Ferdinando I, cui pare che il Cielo concedesse lungo regno perché, composte le politiche perturbazioni, avesse potuto compier l’opera desiderata. Con provvida mente si fecero allora sparire gravi macchie dalle nuove leggi civili, e si fecero a’ dettali della ragiono e de’ nostri costumi meglio accomodate le leggi penali. Le quali umane, provvide, giuste vegliano a guardia de’ cittadini, proteggono l’innocenza, con maraviglioso accorgimento porrono di lume in lume verso l’occultata verità, traggono da’ loro minacciosi nascondigli le colpe ed i colpevoli, e piene di rettitudine al freddo omicida minacciano la morte, al rapitore il disagio e l’angosciosa fatica, al perturbatore l’esilio, e sempre ad una stessa egual norma senza distinzione (9) il delitto misurano e la pena (10).

Ma poco sarebbesi fatto se, avendo posto leggi più convenienti e dato nuova forma a’ giudizi, non si fosse con pari saggezza provveduto all’amministrazione civile.


Fino a che la filosofia non abbandonò il regno delle astrazioni per correre miglior acqua ed andare in cerca delle profittevoli verità, l’arte di amministrare fu misero giuoco di vecchie pratiche dalla ruggine degli anni fatte obbietto di superstiziosa venerazione. Eran le persone ed i beni in balìa dell’arbitrio, dell’orgoglio, dell’ignoranza, della scioperala indolenza di chiunque fosse in officio: incatenali per privilegi e stolti vincoli il commercio e l’industria, che dalla libertà son renduti fiorenti e senza libertà periscono: le arti legate in consolati e l’una dall’altra partita e divisa, e per barbari statuti fra loro nemiche: l’agricoltura repressa da strane regole distruggitrici de’ diritti della proprietà: e per malli provvedimenti cessato ogni salutar moto animator della fatica, impigrito l’ingegno trovatore di cose utili e fatte salde e perpetue le cagioni della povertà pubblica.

Carlo cominciava a por freno a siffatti mali allora comuni al più delle genti, e fra noi antichi quanto la Monarchia: ma gravi ostacoli opponevansi al suo generoso volere. Che raro addiviene rendere migliori le sorti degli uomini senza che i buoni Principi non sieno costrelli a conitettore ed i privati interessi, i quali prendono la divisa del zelo al insidiano, ed i soprusi inveterati i quali si afforzano della sanzione del tempo e minacciano. E della scienza detta statìstica, acquistata con lunga ed amara esperienza, non erano peranco chiariti i principi, che da’ rinnovati studi trar doveano le presenti generazioni.

Ma a que’ giorni, l’autore della Scienza Nuova aveva già dischiuso fra noi novello sentiero alle profonde meditazioni, e lo sposilore delle Tavole Eracleensi aveva già preparato nell’erudizione un non lieve sussidio alle gravi discipline. Ogni cosa a quel tempo arrideva al sapere: e mentre di là de’ monti si delirava inventando nuovi e vani sistemi di economica, questa estrema parto dell’Italia facevasi gloriosa per l’opera di scopritori e propagatori dello utili verità.

Il Broggia coli’ insigne trattato de’ Tributi, l’Intieri con nuovi pensamenti intorno alla Conservazione de Grani, il Briganti col suo Esame Economico gittavano le prime fondamenta della scienza del rodimento degli Stati, e mostravano il cammino a que’ valorosi che doveano seguitare il loro esempio.


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E vennero di poi il Genovesi, il quale con profonda sapienza e con maraviglioso accorgimento dava forma di certa scienza alla politica economia, il Palmieri che dopo quella della Guerra prendeva ad insegnare l’arte di crescere le nazionali ricchezze, il Galiani autore del grave libro della Moneta e de’ Dialoghi sul Commercio de’ Grani, dettati nel francese idioma con le grazie di Luciano e con l’eloquenza di Platone. Il Delfico, che ora solo sopravvive a tanti gloriosi, faceva aperto i danni che dalle torto leggi economiche venivano alle popolazioni delle nostre provincie, pubblicava dotte considerazioni intorno alla vendila de’ feudi, faceva voti per l’abolizione o moderazione della servitù del pascolo invernale, e dimostrava la necessità di rendere uniformi i pesi e le misure del Regno quando non ne sorgeva il pensiere in altro paese dell’Europa. Il Galanti osservator diligente e caldo promotore del pubblico bene discorreva queste nostre provincie, esaminava i mali onde erano oppresse, ne svelava lo cagioni, e ne additava i rimèdi in quella sua Descrizione Geografico-politica del Regno, dove chi oggi legge quel che noi eravamo a que’ giorni, certamente dee esser compreso di maraviglia come in sì poco volgere di tempo tanto nella civiltà siasi avanzata questa nostra terra. Né mono operose erano le menti degli uomini di là del Faro, dove il Sergio scrivea di commercio, di agricoltura, di pastorizia, del lusso delle nazioni, della necessità delle pubbliche strade, dell’economia de’ grani, delle arti da introdursi per l’educazion popolare, il Balsamo diffondeva dalla cattedra e per le stampe le vaste cognizioni, delle quali avea fatto tesoro peregrinando per le più incivilite regioni dell’Europa, il Giarrizzo dettava utili pensieri politici ed economici per promuovere la pubblica felicità, il Loggia dimostrava la necessità d’introdurre nuove manifatture e ristorare le antiche, e molti altri egregi scrittori facevano andare la Sicilia per rispetto all’economia politica di pari passo con le altre provincie dell’Italia (11). Per tanto lume di sapere, questa terra cessava di esser celebre solo per le sue memorie: e se altrove le utili riforme comandate dalla saggezza potevansi a mala pena conseguire fra le politiche perturbazioni scoppiate sul declinar del secolo, appo noi cominciavano da gran tempo innanzi senza brutte violenze e non con altre arti che con quelle della prudenza e del consiglio.


Dappoiché provvedevasi alla buona ripartizione de’ tributi con ordinato censo, con che si sottoponevano indistintamente toltele proprietà alle pubbliche gravezze, distruggevansi gl’ingiuriosi privilegi da principi deboli o pazienti conceduti alla neghittosa opulenza de’ grandi, si soccorrevano i men ricchi e più operosi posseditori, si rinfrancavano i nervi dell’industria, e si rendeva men disperata l’agricoltura. Le nostre terre, decantate per prodigiosa fecondità e per rara varietà di climi ospitali sì alle piante delle fredde e sì a quelle delle calde regioni sentivano nuovamente l’aratro in vaste ed apriche contrade già o cangiate in pestifere paludi o rimaste inselvatichite e deserte. Si riaprivano pe’ mari le vie delle permutazioni, sorgente di ricchezze e di tutti i comodi della vita. Le foreste de’ nostri Appennini somministravano alberi per le costruzioni di ogni maniera di navi da mercanzie e da guerra (12), delle quali l’une facevano secure le nostre spiagge da’ pirati africani, l’altre ravvivavano il morto commercio. Si penetrava nel seno de’ monti tenuti più ricchi di preziose miniere: e provati assai scarsi i guadagni che si potevano avere da quelle dell’oro e dell’argento, si dava opera a procacciarsi solo il ferro, che natura diede all’uomo perché gli fosse strumento di difesa e d’industria. Gol quale sussidio, condotte le acque del Sarno dal famoso castello di tal nome alle falde meridionali del Vesuvio, si formava appiè di quel vulcano ampia fucina di armi bianche e da fuoco (13), e si stabiliva in Napoli una fonderia di cannoni d’ogni calibro (14) per fornirne le fortezze, le navi da guerra, l’esercito. E perché la forza delle buone armi non fesse scema di consiglio, s’ instituivano le Reali Accademie di Marineria e di Artiglieria, scuole di dotti, esperti e valorosi soldati di terra e di mare.

Carlo ordinava con nuove discipline l’Università degli Studi dalla sapienza di Federico eretta per l’istruzione di coloro i quali si propongono di discorrere l’ampio stadio del sapere, e sovveniva l’istruzione elementare de’ buoni ingegni co’ collegi. Per domare la selvatichezza, distruggere gli errori tenaci nel popolo, rendere dolci i costumi, e scemare co’ semi della civiltà l’inclinazione al delitto, cresciuta oltremodo nell’anarchia viceregnale, provvedeva alla prima istruzione con numerose scuole poste in tutto il Regno.


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Col qual divisamento, cui la Religione e l’Umanità l’altro aggiungevano di non lasciare derelitta l’indigenza, edificava il vasto e maestosa Albergo, (15) dove ben cinque mila poveri d’amendue i sessi sono nella fanciullezza e nell’adolescenza ammaestrati in ogni maniera di arti, e provveduti nella senile età di generosi soccorsi che fanno alla sventura men aspra e disagiata l’estrema parte del cammin della vita.

Né meno si avvantaggiavano le arti utili e del bello. Del che sono pruova i lavori degli arazzi, in pochi anni fatti emuli a quelli che nel secolo di Leone X ritraevano ne’ loro tessuti i dipinti di Raffaello e di Michelangelo: e le opere di cristallo e di maiolica, e le altre di porcellana, stimate per la qualità dell’argilla inferiori a quelle della Cina e della Sassonia ed a tutte superiori per l’eleganza delle forme imitate dall’antico.

Le Arti del disegno avevano un Accademia per l’ammaestramento de giovani studiosi di pittura, di scoltura, di architettura, ed una scuola per il lavorio de musaici e delle pietre dure.

Si costruivano T ampie strade che da Napoli conducono a Portici, a Caserta, a Capua, a Aenafro, a Persano, nelle Puglie, e che ancor oggi sono ammirate dagli stranieri. Si ristanravano i porti di Trapani, di Taranto, di Salerno, di Moffetta, di Brindisi. Si edificavano i quartieri militari di Aversa, di Nola, di Nocera, e quelli di Napoli a Pizzofalcone ed al Ponte della Maddalena, presso al quale costruitasi vasto anfiteatro, dove per l’incremento della zoologia si nudrivano i più rari animali c’è due emisferi. Si ampliava il porto fatto da re Alfonso, e rendevasi securo alle grosse navi di fila, essendo stato fino allora malfido ricovero ed acconcio solo a’ piccioli legni. Si edificava lo spazioso e magnifico ponte, che il grande al piccolo Molo congiunge e sostiene le caso per la Deputazione della Pubblica Sanità. Si aprivano belle ed amene strade lungo il mare, delle quali l’una dal ponte testé ricordato mena a quello della Maddalena sul Sebeto, l’altro dalle falde occidentali del monte Echia rade la riviera incantala di Ghiaia, e termina appiè degli orti del Sannazaro a Mergellina.


E come se poco fatto si fosse, si edificavano le Reali Case di Persano e le reggie di Portici, di Capodimonte e quella immensa e maestosa di Caserta, cui aggiungevasi il maraviglioso acquidotto Carolino. Il quale prende dal Taburno copiose acque per darle alle Reali Delizie di Caserta, alla Campania ed a Napoli, e nel suo tortuoso viaggio di oltre a ventun miglio, ora passa per traforate montagne, ora discorre al di sopra di due fiumi, ed ora sopra ponti a-tre ordini di archi cavalca la gran vallata che divide il Lungano da’ monti Tifatini (16), opera veramente romana che i più fiorenti imperi non avrebbero osato di fare in lungo spazio di tempo.

Carlo non amava il teatro, ma conosceva quanto poteva essere accomodato a correggere i guasti costumi e tornare in fiore le arti maestre di urbanità e di modi gentili. E nella patria del Pergolesi e del lommelli vedeva egli la necessità di una scena, come le arene di Elide e Pisa, degna de’ divini ingegni, per i quali s’innalzavano all’ultimo grado di perfezione la scienza dell’armonia e la dolce espressione del cauto. Sorse allora quel teatro, che in altra nostra scrittura da noi fa chiamato Massimo, e che a ragione è riguardato come il più nobile tempio da’ moderni dedicato al culto delle Muse.

Cosi Carlo, preso di bello amore per le arti, le si faceva sedere a lato sul Trono, e la buona fortuna arrideva al desiderio in lui intensissimo di promuovere la civiltà e la gloria di questa sua patria adottiva. Perocché Stabia, Pompei, Ercolano, sepolte dalle ceneri del Vesuvio sotto l’impero di Tito, rivedevano a que’ giorni la faccia del Sole. Fu allora formata l’Accademia Ercolanense, dal primo suo nascere benemerita di tutta la dotta Europa per le illustrazioni degl’immensi tesori scampati all’ira del vulcano distruttore. L’archeologia si strinse in tenaci nodi con le scienze, e le opere degli antichi cominciarono a guardarsi non solo come eletti modelli del gusto e del bello, ma come fonti ancora di quel sapere, onde saranno per sempre memorandi i secoli di Pericle e di Augusto.

Grata a’ ricevuti benefizi, Napoli innalzava una statua in nome di tutto il Regno a Carlo Ristauratore della Monarchia. Ed a ragione: imperocché presso le antiche genti i primi simulacri erano dalla gratitudine eretti a’ fondatori della pubblica prosperità.


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Sembra incredibile che si grandi cose avesse quel Magnanimo in si breve tempo operale essendo sempre inteso a cessare le pubbliche miserie, ed a condurre il Regno a quello stato di virtù e di floridezza, del quale i mal tentati sforzi di mani inesperte ci aveano tolto per ultimo anche la speranza. Ma chi oserebbe dissentire dalla storia e dalle parole de’ nostri padri rifermate dalla testimonianza delle opere che di continuo e ad ogni passo sono sottoposte a’ nostri sguardi? Quando per nuova barbarie potessero andar perduti i dotti lavori dell’ingegno venuti in luce sotto il regno di Carlo, a far fede della cresciuta civiltà rimarrebbero i grandiosi edilizi di sopra rammemorati, i quali anche nelle loro rovine direbbero i rinnovati prodigi delle arti del bello: utili arti, alle quali sono gli uomini debitori della loro sicurezza, de’ comodi, degli agi e degli ornamenti più cari della vita.

E queste avevano a sperare più liete condizioni nell’età che succedeva a quella di Carlo, comeché lacrimevoli calamità venissero assai presto a sturbare la quiete, l’agiatezza ed i beati ozi di pace che l’Augusto Successore iva procacciandoci. Imperocché le Calabrie e la bella e popolosa Messina erano inabissate da memorabili tremuoti, che cangiavano la superficie di quelle terre, e distruggevano da’ fondamenti quante città e villaggi sorgevano lungo l’estrema parte della penisola ed all’oriente della vicina Sicilia. Con animo paterno accorreva il provvido Monarca in aiuto delle desolate popolazioni, ne sollevava con generosa mano le miserie e, cessati i guasti del terribile flagello, faceva sorgere più belle le ville, le castella e le città atterrate, degno perciò di essere con le parole di Orazio appellato Padre delle Città (17). Fresche ancora le memorie di tanti mali, succedevano le ostinale guerre che travagliarono l’Europa intera, e delle quali la Storia conserverà lungamente la funesta ricordanza.

Dall’un canto all’altro del Regno erano appianale a comode strade le montagne sul giogo de più scoscesi Appennini, costrutti su’ fiumi ponti maravigliosi, guidate le acque a beneficio de’ campi, asciugate insalubri paludi rie’ dintorni di Fondi, di Pescara, di Brindisi,


delle Valli del Tangro e di Diano, di Baia già per l’amenità del sito lodata a cielo dal cantore di Mecenate e per il puro aere frequentata da’ dominatori del Mondo.

E sollecito imprenditore d’ogni grand’opera, la quale meglio che a superba magnificenza potesse tornare a pubblico bene, comandava Ferdinando lo sgombro del famoso emissario dalla romana potenza aperto alle acque del Fucino per condurle attraverso di traforate montagne nel Liri, e far salve le misere popolazioni de’ Marsi dalle funeste inondazioni del lago. La quale, opera abbandonata dal successore di Claudio, invano da Federico e da re Alfonso cercavasi di ristaurare, come molti secoli prima pare avesse tentato ancora Traiano. Dopo lunghi e dispendiosi lavori, la storia de’ quali è assai onorevole a’ nostri ingegneri di ponti e strade, tra pochi mesi le acque del Fucino correranno per l’aperto canale*. E serrate dopo lo sperimento le chiuse, cominceranno le ristaurazioni dall’arte oggi meglio consigliate per rendere l’opera perenne. E così condotti a termine i provvedimenti di Ferdinando I e di Francesco, il Giovine Monarca Signor Nostro godrà di vedere compiuto nel suo regno ciò che il virtuoso Traiano aveva nel suo impero desiderato.

Si andavano intanto proseguendo i grandi edilìzi non terminati da Carlo, ed ornavansi di pittare e di sculture di egregi artefici, i quali tornavano all’antico onore questa terra in ogni tempo cara alle arti. Facevasi sparire il brutto spettacolo, che presentavasi allo sguardo sulla bella riviera di Chiaia, e cangiavasi, il sito abbandonato ed incolto in giardini amenissimi dove tutti gli ordini de cittadini potessero andare a diporto.


* Mentre siamo per mettere sotto il torchio questa nostra scrittura, leggiamo essersi scoperta la soglia della bocca dell’emissario, sottoposta per palmi settantuno al livello delle acque. La massima profondità del lago è ora palmi quarantanove. Però essendo la soglia inferiore alle conche più profonde per palmi ventidue, pare certo che possa il lago essere interamente prosciugalo. Leggi la seconda edizione delle Considerazioni su’ mezzi da restituire il valore proprio a’ doni che ha la natura largamente conceduto al Regno delle Due Sicilie del commendatore Carlo Afan De Rivera. Napoli dalla Stamperia del Fibreno 1833.


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Demolite per il rapido ingrandimento di questa metropoli due antiche porte, che ingombravano con vecchie ed informi fabbriche le più popolose strade, abbellivasi di regolari edilizi la piazza del Castel Nuovo, e costruivansi dall’altro lato di quella fortezza le case per gli offici delle Poste, e quel teatro che altrove per la sua grandezza sarebbe il maggiore e fra noi è solo il secondo.

Sorgeva allora quell’ampia sala, che certo è una delle più grandi e belle dell’Italia., nella quale erano ordinatamente disposti dugento e più mila volumi di libri stampati e seimila di codici scritti a mano, perenne tesoro dell’antica e della moderna sapienza. Aperta con sovrana munificenza la nuova biblioteca al pubblico uso, univansi ad essa le sale per l’accademia delle Belle Arti e per la scuola del disegno, le camere per la custodia, lo svolgimento e l’interpretazione de’ papiri, le vaste gallerie di dipinti, di marmi, di medaglie, di pietre incise, eredità preziosa a Carlo III pervenuta da’ Farnesi, quelle di bronzi, di vasi fittili e di antichissime pitture e di svariati oggetti di ogni maniera rinvenuti o sotto le ceneri di Ercolano, di Pompei e di Stabia, o sotto le zolle che in questa terra cuoprono trenta secoli della civiltà italica.

Ne eran questi i primi sussidi, che dall’Augusto Figliuolo di Carlo ricevessero le scienze, le lettere e le buone arti. Perocché per aiutare tutte le utili discipline, dall’alto del Trono aveva voluto prender consiglio dal Genovesi, cui un severo critico dava il vanto di aver pubblicato dopo il Galilei il libro più ricco di alti pensamenti che si avesse avuto l’Italia (18), ei a cui già si apparteneva la gloria di avere operalo la ristaurazione della filosofia razionale di qua dalle Alpi. Co’ suggerimenti dell’autore delle Lezioni sul Commercio instituiva il Re nella nostra Università la prima cattedra di economia pubblica che si avesse l’Europa e meglio ordinava gli studi. La scienza, che può dirsi il limite intellettuale della verità fisica, e che ci ammaestra ad intendere lo cifre arcane ond’è scritto il gran libro dell’Universo, aveva unito alla geometria elementare ed a quella delle curve, già ricca fra noi del sussidio dell’algebra, il calcolo allora impropriamente detto dell’infinito, e l’usava già a rendere in singolar maniera facile la soluzione de problemi.


Congiunta l’algebra alla geometria e l’una e l’altra alla meccanica, facevansi servire quelle tre scienze a tutte le altre delle quali sono il fondamento. E comeché qualche illustre nostro matematico fosse caldo partigiano della geometria degli antichi, come il Newton che lodavala a cielo e di essa servivasi per nascondere le scoperte fatte coll’aiuto dell’analisi: pure la venerazione per i padri della scienza non era così cieca e superstiziosa che ci facesse men solleciti delle nuove invenzioni, mercè le quali l’umano ingegno sembra esser oggi giunto a squarciare il velo che nascondeva il sistema del mondo. Però il Fergola, nome caro e venerato ed il più illustre allievo del Marzucco, pubblicava quelle sue prelezioni su’ principi matematici della filosofia naturale a Isacco Newton, nelle quali chiariva la genesi delle formole analitiche, che in pochi simboli contengono ampie verità naturali, districava le più astruse teoriche della meccanica, della statica e della scienza de’ fluidi, ed apriva il sentiero ad utili scoperte. E mai non ristando da que’ severi studi, veniva in onore di sommo matematico presso le genti straniere per l’elegante risoluzione di astrusissimi problemi ottici, per il suo corso di analisi sublime, per il problema inversi delle forzo centrali per le orbite algebriche, per il trattato analitico de’ Luoghi geometrici, per il Teorema Tolemaico. Seguivano i vestigi di quel chiaro ingegno il Caravelli, il Porta benemerito del calcolo integrale e differenziale, il Bifulco autore della teorica de’ limiti, il Fiorentino reputato per il saggio sulle quantità infinitesime, e quegli altri valorosi de’ quali ora leggonsi registrate le dotte scritture negli atti delle più rinomate accademie di Europa, ora commendati i pensamenti dal Cramer, dal Castiglione, dall’Eulero, dal Lesel, dal Fontana*.

Ma all’età nostra l’impero delle matematiche crebbe presso tutte le genti incivilite da che esse vennero adoperate alla spiegazione de’ fenomeni della natura, i quali sono risultamenti matematici di picciol numero di leggi invariabili.


* Si delle condizioni delle matematiche e di tutte le altre scienze dopo il 1800, e si degl’instituti ove si professano, terremo parola nel seguente fascicolo de’ nostri Annali.


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 E come altrove noi vedemmo di qua e di là del Faro progredire le scienze naturali, quando ingegni sovrani fecero tesoro dei nuovi trovati dell’analisi. Cresciuto il gusto e l’amore delle matematiche, era condotta a perfezione la geodesia la quale di quelle si conforta per formar carte geografiche, e pubblicavansi nobilissimi Atlanti di tutto il Regno e delle coste del Tirreno, dell’Adriatico, del Ionio fatti da’ nostri geometri sotto la direzione del Rizzi Zannoni, a cui affidavasi un novello Officio Geografico. La medicina e la chirurgia si facevano gloriose per le opere del Serao (19), del Sarcone (2o), del Cotogno (21), del Trova (22) e di Antonio Sementini (23), degno di essere annoveralo fra i primi fisiologi dell’età nostra. Il Bambacaro, ricordalo con molto onore dal Beccheria, era fra i primi ad indagare le leggi che fermaron di poi le teoriche dell’elettricità. Il Fatano ci dava la geografia fisica delle Calabrie, e dottamente esaminava le cagioni de’ tremuoti ond’erano travagliale quelle belle province, il de Bottis ed il Della Torre illustravano la Storia del Vesuvio, ed il Vairo scopriva l’importante fenomeno dell’alterazione delle lave mercé l’azione de’ vapori acidi che si sviluppano dal seno della Solfatara. Vincenzo Petagna chiariva più di un segreto della natura nel suo saggio degl’insetti della Calabria Ulteriore, del quale si facevano replicate edizioni di là de’ monti. Il Cirillo era altamente benemerito della botanica e dell’entomologia. Il Macrì pubblicava quelle sue osservazioni commendate dal Cuvier sulla storia del Polmone Marino degli antichi. Il Cavo]ini rischiarava la storia de’ Polipi marini, ne accresceva la famiglia, ne esaminava con insigne diligenza l’interna struttura. Era ancora oscura la riproduzione de’ pesci oviperi, ed egli riusciva a confermare le osservazioni di Aristotele intorno al modo con che la natura procede nella riproduzione de’ pesci si oviperi che vivipari, e dimostrava la riproduzione de’ granchi simile a quella dello rane. Ancora in una dotta scrittura sulla caprificazione illustrava i piccoli insetti, i quali annidano nel caprifico, e consporsi di polline vanno a fecondare i pistilli de fiori femminili. E novello vanto raccoglieva quando dopo quattro anni di assidue contemplazioni sulla Zostera oceanica e sullo Fucagrostidi, determinava la classe della prima e faceva conoscere come le seconde riceveano il pieno loro incremento:


e quando continuando le ricerche del Fasano sull’iloeistide, pubblicava esattissima tavola incisa in rame di quella pianta e delle parti destinate alla sua riproduzione. II Cotugno, ampliando le scoperte dell’Anatomia, osservava per la prima volta il fenomeno dell’elettricità animale, e lo pubblicava in quelle sue lettere (24.) le quali servivano di fondamento alla novella scienza che tanto ha renduto chiari il Galvani ed il celebre fisico di Pavia. Il Poli era lo storico delle conchiglie abitatrici de’ mari dell’una e l’altra Sicilia, e non istavasi contento alla semplice descrizione de’ loro gusci, ma meglio volgevasi ad esaminare le formo, le qualità e l’interna struttura degli animali che tengonsi rinchiusi in que’ nicchi, modelli di vaghe forme por mano della natura bellamente coloriti. Dopo di aver descritto gU esseri ed indicato i caratteri che posson servire a riconoscerli ed a distinguerli fra loro, officio del naturalista, prese egli ad esaminare i fenomeni della natura e le leggi che quelli seguitano, e per le quali l’uomo pervenne a stabilire le teoriche che rendettero la fisica grave e certa scienza. Die allora egli in luce quegli Elementi di fisica sperimentale, che erano insegnati dal Volta in Pavia ed in tutte le altre scuole dell’Italia, e che meritavano copiose giunte del Fabris e del Dandolo, i quali si avvisavano di entrare ne’ domini della chimica e dello scienze fisico-matematiche dove, coli’ esempio de’ più grandi scienziati, aveva creduto non dovere inoltrarsi in un’opera ordinata all’elementare ammaestramento della gioventù.

E più ancora si avvantaggiavano le scienze morali per opera di que’ sommi che 0 sponevano le teoriche generali per render le leggi accomodate alla felicità degl’imperi, o indicavano più equi e miti principi alla ragion criminale, 0 mantenevano saldi i dritti sacri ed inviolabili del principato, 0 muovevano i reggitori de’ popoli ad essere i promotori di ogni bella virtù ed i rimuneratori del merito (25), come altro filosofo italiano dettava le norme che seguir debbonsi perché la giustizia, fatta più umana, meglio provveda a cessare i delitti che a punirli.

Ma le scienze sono piante che non prosperano in terre dove non spiri aura di onore che le confurti, e non sia mano generosa che le alimenti e coltivi.


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Ed a farle liete e fiorenti, non vale genio o virtù d’ingegno, a cui fortuna non sia larga de doni suoi: il che vuolsi in particolar modo notare per le scienze naturali e per quelle che degli esperimenti si giovano. Però grave e sentito era fra noi il difetto di grandi instituzioni pubbliche addette alle une ed alle altre. Per far cessare que’ giusti lamenti, fondava Ferdinando la Reale Accademia delle Scienze, e ne rendeva gloriosa la prima adunanza con la sua augusta presenza. E le scienze fisiche ampiamente provvedeva di quante cose fosse di mestieri per i loro progressi, e le naturali soccorreva di svariali gabinetti e di acconcio 01 to botanico che, presto ingrandito ed ordinato in sito più aprico, fu adorno delle piante di tutto le regioni del globo quanto i giardini più rinomati di Europa. E già anco prima aveva Ferdinando con saggio consiglio provveduto all’avanzamento di quella parte della storia della natura che sembra meglio alla umana industria profittevole. Dappoiché inviava sei eletti giovani prima nelle rinomate scuole di Schemnitz in Ungheria e poi in quelle di Freybergh, dove da tutta Europa accorrevano ad udire il Werner, e facevali viaggiare per la Germania, per l Olanda, per l’Inghilterra acciocché tornassero in patria ricchi delle utili cognizioni delle genti più industriose. Frutto di quelle dotte peregrinazioni erano la formazione del nostro magnifico gabinetto di mineralogia, i progressi di questa scienza e della geologia fra noi, l’avanzamento delle arti, l’ordinato sistema con che si procede noli’ escavazioni delle nostre miniere di ferro, la propagazione delle dottrine necessarie alla tutela ed all’accrescimento delle foreste, che gli antichi affidavano alla custodia delle loro divinità per farle salve dalla mano dell’uomo, la quale spesso recide ne’ boschi i sudori di più generazioni che furono, e le speranze di quelle che verranno. Cessate le lunghe guerre della rivoluzione, dopo dicci anni tornava Ferdinando fra noi. Tutto era cangiato, ed egli facevasi a riordinare l’amministrazione di qua e di là del Faro con maturo e semplice disegno, dettato dal pubblico bene, dalle costumanze delle sue genti, da’ progressi della civiltà. E commendevole era il pensiere di compiere le utili riforme da lungo tempo meditate, e di far sparire insieme ogni sogno di straniera dominazione.


Imperocché non basta che l’autorità pubblica promulghi le leggi, è uopo altresì che parlino al cuore dell’uomo per ottenere piena obbedienza, e che sieno al tutto proprie perché abbiano ad essere dall’universale tenute come cosa cara, ed ispirino venerazione, fiducia e quella convinzione di ponderato e stabile ordinamento, la quale cresce e meglio rafferma l’autorità loro. Però l’amministrazione pubblica, fermata su’ principi che sono i fondamenti dell’armonia civile, saggia, uniforme, poggiata sulle basi dell’utile comune, ebbe da Ferdinando la sapientissima legge che ne abbraccia tutte le parti. Divise egli in maggior numero le province e i distretti perché fosse men difficile alle popolazioni l’andare a’ loro reggitori e a’ loro giudici. Molli ordinamenti dettò spettanti alla economia pubblica, da’ quali sommi vantaggi vennero all’agricoltura, alla pastorizia, ad ogni maniera d’industria. Regolò la moneta con le teoriche de’ più grandi scrittori intorno a quel grave ed astruso suggetto, e mostrò come l’uomo di Stato possa giovarsi delle meditazioni del pacifico filosofo. Fondò per la prima volta una Cassa di Sconto, instituzione salutare ed al commercio utilissima. Diede nuovo ordine alla Reale Società Borbonica e nuove discipline all’Università degli Studi e all’Accademia delle Arti del disegno. Stabilì una scuola di scenografia della quale eravamo ancora privi. Menò a compimento l’instituzione delle Reali Scuole Veterinarie ch’erano solamente state disposte nella sua assenza. Fondò quattro grandi licei in quattro città principati delle province di qua del Faro e nuovi collegi per l’educazione della gioventù in Campobasso, in Monteleone, in Chieti. Assegnò una dote al Real Istituto d’Incoraggiamento per le scienze naturali ed alla dotta ed operosa Accademia Pontaniana. Accorse a’ bisogni della medicina e della chirurgia crescendo il numero degli allievi nel collegio medico-chirurgico, elio trasferì in più ampio edilizio. Volse le sue cure al Conservato; k) di Musica, e prescrisse nuove regole che lo facesse o tornare all’antico splendore. Pro-lungo la bella strada che rade la ridente collina di Posillipo, e fattela volgere verso quella del Vomero, unì l’utile pubblico al dilettevole. Disteso quella di Capodimonte ali oriente fino agli avanzi degli antichi acquidotti denominali i Ponti Rossi.


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Terminò l’ampia strada del Campo, che schiudo magnifico ingresso a Napoli, e le aggiunse decoro per le opere erette dove incontrasi con le strade consolari di Capua e di Caserta. Menò a compimento ed abbellì la facciata del Real Albergo de Poveri. Arricchì l’Orto Botanico di piante, di comodi, di ornamenti, di ogni maniera e delle sale per le pubbliche lezioni. L’Osservatorio Astronomico appena in sul nascere prima del suo felice ritorno in questi Reali Domini, e mercé la sua munificenza fu in poco tempo splendidamente compiuto e meglio provveduto di strumenti sotto la direzione dello scopritore della Cerere Ferdinandea. Aggiunse al Museo Borbonico nuove gallerie di oggetti di arti antiche e moderne e con particolarità quelle de’ bronzi. Carlo, avvertitosi nel suo partire di aver portato seco un anello rinvenuto in Pompei, tenero come egli era della gloria delle arti, dalle alture di Capri, ov’era già la sua nave, facevalo rendere al Real Museo: e Ferdinando, tornato appena dallo provincie di là del Faro, rendeva a quella galleria quanti quadri nella sua lontananza erano stati trasportati nelle Regg:e di Napoli, di Portici, di Caserta.

Per crescere il decoro di questa metropoli, fatte sparire le cadenti mura di vecchio spedale che deturpavano la bella strada di Toledo, faceva sorgere il Real edificio de Ministeri di Stato, dove riuniva gran parte de’ pubblici uffizi, e dove V Augusto Successore Francesco voleva, che nella sala destinata per la Borsa de’ Cambi sorgesse la statua di Flavio Gioia per ricordare alle Sicilie ciò che esse furono quando l’animosa Amalfi tenca l’impero de’ mari, e ciò che possono divenire co’ remoti commerci. II Teatro Massimo, in poche ore incenerito da fiamme distruttrici, fu in pochi mesi riedificato. Costrutto il foro ed il tempio sacro a S. Francesco da Paola, voleva Ferdinando venissero decorati delle opere de’ più chiari ingegni che vanta l’Italia. Oggi quella piazza è già bella di due nobilissime statue equestri modellate dal Canova e dal nostro Cali e fuse in bronzo dal Righetti. Delle quali l’una era dalla pietà dell’eccelso Fondatore del tempio consecrata alla memoria di Carlo, l’altra dalla pietà di Francesco a quella del suo Augusto Genitore poco innanzi mancato a’ vivi. E presto per la munificenza di Ferdinando II, aperto il sacro tempio al pubblico culto, le arti Napolitano potranno non senza gloria additare


i dipinti del De Vivo, del Cuerra, del Carta, e le sculture dell’Angelini, del Cali e del Solari fra le opere del Canova, del Camuccini e di altri illustri Italiani.

Fra le straordinarie spese, delle quali crediamo forse le più picciolo quelle per se stesse gravissime sostenute noi contagio di Noia, e per accorrere a’ bisogni de’ popoli in due anni di estrema penuria, non erano obbliate le arti utili e le manifatture. Imperocché ricevevan tutte incoraggiamento ed onori, ed acquistavano singolare perfezione le telerie di cotone, i panni lani, gli acciai, i coralli, i bronzi, i cristalli per le chiusure delle finestre, le pelli, le faenze, i cappelli, e facevansi semprepiù ammirare le stoffe di seta antiche in S. Leucio ed emule delle più belle di Lione, e l’altre di Catanzaro, di Reggio, di Catania, di Messina, e le numerose cartiere, fra le quali ricordiamo le ultime stabilite sul Fibreno, sulla Melfa, sul Narro.

Con sagace intendimento affidava Re Ferdinando l’amministrazione delle rendite per Io opere pubbliche a’ Consigli provinciali, ed in poco tempo erano condotte a fine tanto strade, quante non se ne costrussero prima in lungo corso di anni. Ne quegl’immensi lavori impedivano la costruzione di molti ponti e la fabbrica di spaziose prigioni nelle provincie di Capitanata, ove lodansi assai quelle di Foggia e di Sansevero, di Terra di Lavoro, di Basilicata e di Principato Ulteriore, la quale ha in Avellino ampio carcere secondo il sistema che fu il primo ad immaginare il nostro de Fazio, e che fu poi perfezionato da un illustre filosofo inglese. Ancora costruivansi nobilissimi palazzi per le Intendenze di Terra di Bari, de’ due Principati e di Terra d’Otranto, i collegi di Principato Citeriore e di Abruzzo Citeriore, i teatri di Reggio, di Aquila, di Chieti, di Avellino, di Vasto, di Foggia, ammirato per bella architettura e per nobili opere di arti. La qual città era adorna di deliziosa villa ricca di piante che già danno grata ombra ospitale. Nell’Abruzzi, lungo il Piano di Cinquemiglia, funesto nell’inverno a’ viandanti per le copiose nevi che cuoprono ogni sentiero sì che, d’ogni guida mancanti, andavano incontro a certa morte, costruivasi ampia strada la quale, cinta di doppio ordine di colonnette, serve di segnale nel maggior pericolo ed addita il cammino che mena a salvezza.


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Nelle pianure di Campotenese, dove il freddo suole essere acerbissimo, edificavasi securo ricovero per chi fosse là sorpreso dalla bufera.

Tenero della salute del suo popolo, a ventisette anni facevasi Ferdinando inoculare il vaiuolo naturale per muovere tutti i suoi sudditi ad imitarlo: ed annunziala appena la benefica scoperta del Jenner chiamava dall’Inghilterra valenti medici per introdurre ne’ suoi Stati l’innesto vaccino, e tutto il potere della religione e delle leggi adoperava per renderlo senza eccezione universale. Sollecito che l’istruzione si estendesse anche fra le più povere persone, egli era stato il primo a stabilire in Italia le scuole normali sul declinare del secolo scorso, od egli il primo promoveva dopo il suo ritorno il benefico metodo di Bell e Lancaster, e cresceva le scuole elementari in tutti i punti del Regno. Fondatore provvidentissimo di nuovi orfanatrofi e di nuove case di lavoro, migliorava l’antico instituto de’ sordimuti, ed apriva quello de’ ciechi, sacro asilo di beneficenza, che i cuori sensitivi non possono visitare senza essere vivamente commossi dalla vista di dugento e più di quegl’infelici istrutti ne’ doveri della religione e della società, nella musica, nelle arti e fin nella scienza di Euclide e di Archimede.

Né erano men prospere le condizioni dello provincie di là del Faro, dove Re Ferdinando fondava nuove accademie e nuovi seminari, dava utili istituzioni alle scienze ed alle lettere e premi agli studiosi. L’ Università di Palermo, col modesto nome di Accademia venuta in gran fama per i valentuomini che conta fra i suoi illustri professori, aperta con regia munificenza nel novembre del 1779, era provveduta di teatro e di gabinetto anatomico; di un orto botanico, deeprato di superbo edilizio di ordine dorico, cui accresceva magnificenza grandiosa stufa; di un Museo di archeologia; di ampia biblioteca ricca di scelta e copiosa collezione di libri, e di quanto fa di mestieri perché vengano in fiore le scienze. La fisica sperimentale era ampiamente provveduta di macchine: l’astronomia aveva un osservatorio nella stessa Reggia, e ricca di nuove scoperte per le immortali fatiche del Piazzi, rimeritava la sovrana munificenza quando da quell’antica torre scuopriva nella prima notte di questo secolo la Cerere Ferdinandea, la quale farà chiaro por sempre ne’ cieli il nome dell’Augusto Monarca.


L’università di Catania, meglio ordinata, cresciuta di nuove cattedre, dotala di maggiori rendite e provveduta di dotti professori, rinnovava le antiche sue glorie, soprattutto quando instituivasi l’accademia che prende il suo nome dal benemerito Cioeni, e che applicandosi alla contemplazione della natura va facendo conoscere all’Europa i tesori di quell’isola, dove ad ogni passo l’incontri in nuove meraviglie. Messina, Siracusa, Caltagirone, Trapani avevano splendidi licei: Noto, Modica, Caltanissetta ed altri paesi dell’isola numerose ed utili scuole.

I rinnovati studi eran semi che fruttavano alla Sicilia vaste cognizioni, per le quali venivano in gran fama, ed il Ferro ed il Mirone od il La Pira e l’Astulo della fisica e della storia naturale altamente benemeriti. Il Gioeni contemplava l’Etna, ne studiava i fenomeni più singolari, e ne raccoglieva in bell’ordine le produzioni si che facevasi degno dell’ammirazione e dell’amicizia del Dolomieu. Volgeva di poi lo sguardo n} Vesuvio e pubblicava quel Saggio di litologia vesuviana. che fu la prima opera nella quale fusse illustrata la litologia del nostro vulcano in modo di applaudirsene chiunque sentisse assai addentro in mineralogia. Il Ferrara, fattosi da prima conoscere per le sue belle note alla Contemplazione della natura del Bonnet, ci dava in seguito la storia generale dell’Etna, nella quale andava descrivendo quel monte, le sue eruzioni, i suoi fenomeni, i suoi prodotti e quanto può servire alla storia generale de’ vulcani. Lo Scuderi ed il Mallo scrivevano dottamente, il primo per indicare i rimedi più opportuni a guarire il vaiuolo, il secondo col nobile intendimento di estirparlo, e rendere i suoi trovati acconci a fare sparire tutti gli altri morbi contagiosi. Scuderi il giovine pubblicava quella sua Introduzione alla star ria della medicina tradotta e commendata dall’Alibert in Francia. Il Guarini chiariva ne’ suoi ragionamenti filosofici le proprietà de corpi, le meccaniche, l’anatomia, e si faceva via a profonde meditazioni sulla fisica dell’uomo e della natura. Il De Gregorio traeva dalla polvere delle biblioteche novelle carte por illustrare i tempi più oscuri del medio evo, e si rendeva degno de primi onori della storia. La diplomatica e l’archeologia erano in si alto onore che non si potranno mai lodare abbastanza i valorosi che le coltivarono,


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fra i quali sono degni della più gloriosa ricordanza Io Schiavo, il Gaelani, il De Diasi, il Discari ed il Torremuzza degnamente stimato il primo numismatico dell’età sua (25).

Amatore delle scienze e delle lettere, asceso al Trono, faceva Francesco manifesto non aver la Corona mutato in lui l’antica affezione per i buoni studi, e dava solenne testimonianza di onorarne i cultori, quando andava a visitare il Poli infermo, e con esso lui s’ intratteneva in affettuosi ragionamenti, grato a quel valoroso che dalla prima età eragli stato guida e maestro. Bello e lodevole esempio che ci torna a memoria quello dell’altro Francesco accanto al letto di Leonardo da Vinci.

Desideroso di rendere sempre più onorate te utili fondazioni, affidava l’ottimo Monarca alla sua Augusta Consorte la suprema direzione degli instituti per le donzelle, non men sollecito dell’educazione della gran famiglia dello Stato che della sua propria. Però quelle Case sono oggi lieto e splendido ornamento dilla patria nostra. Che certo sommo decoro ad essa accresce il sapere e la cortesia congiunta nelle gentili donne agli schietti e puri costumi, alla modestia, al candido animo, specchio d’ogni Leila virtù.

E non meno e’ soccorreva ogni altra parte dell’istruzione pubblica. Imperocché instituiva cattedre di clinica medica e chirurgica, di anatomia ed ostetricia nella Reale Accademia di Messina: e perché meglio progredissero quelle scienze, le provvedeva di acconcio teatro anatomico, del quale era assai sentito il difetto. Dotava di nuove rendite il Real Collegio di Chieti, promoveva una scuola di agricoltura pratica in quella fertile provincia di Abruzzo Citeriore, ed altra di geometria elementare in questa Reale Accademia delle Belle Arti.

Perché la soverchia ricchezza non ci facesse negligono custodi delle opere degli antichi pervenute fino a noi, comperava nuove terre intorno alla basilica di Pesto ed all’Anfiteatro Campano e, cinti que’ venerandi avanzi di larghe fosse, facevali securi da nuove ingiurie devastatrici. Per rendere men tardo lo svolgimento e la divulgazione de’ papiri rinvenuti in Ercolano, cresceva il numero de dotti eletti a quel grave, penoso e difficile uffizio.


Dolente degli ostacoli che la propagazione dell’innesto vaccino incontrava di là del Faro, statuiva che V ignavo, il quale avesse non curato di preservare con quel benefico antidoto i figliuoli e le persone della famiglia da lui governata, non avesse a godere di alcuna sovrana munificenza. Quelli i quali morissero di vaiuolo naturale, chiusi in un feretro che potesse impedire la diffusion del contagio, erano sepolti in chiese lontane dall’abitato e senza ninna frinenti pompa.

Volgeva lo sguardo agi’ infelici che perderono il lume dell’intelletto, e regolava con più amorevoli cure le Case de’ Matti stabilite in Aversa. Stendeva la mano pietosa agli sciagurati servi della pena, e ne rendeva meno infelici lo condizioni con migliori Bagni e nuovi Spedali in Pozzuoli e nelle isole d’Ischia e di Nisita.

Dettava saggia legge per promuovere le ricerche e l’escavazioni delle miniere, dava di là del Faro benefici provvedimenti per la custodia delle foreste, ed affidava a mani esperte le piantagioni necessarie alla riproduzione de’ boschi.

AH’ uscire del mille ottocento ventitré, i Censuari del Tavoliere di Puglia doveano al pubblico erario ben un milione e quaranta mila ducati per canoni non pagati. Tali ingenti somme se prestamente tutti si avessero voluto riscuotere, 1 agricoltura e la pastorizia in quella provincia sarebbero andate in rovina, e pi tempo avvenire l’esazione delle pubbliche rendite sarebbe riuscita difficile oltremodo. Dove avesse potuto il Monarca secondare i movimenti del suo cuor generoso condonando quel gravissimo debito, pare la prudenza consigliava che, per soccorrere a chi mal potea, non si aiutasse la colpevole ritrosia de’ molti, i quali si erano volontariamente renduti morosi. Ne ciò far poteasi senza recare ingiuria a quegli altri che si trovavano aver già soddisfallo al debito loro. Però con «aggio e magnanimo consiglio il Re scemava di ducati cento mila l’annuo canone, di modo che veniva a rilasciare a’ Censuari un capitale doppio de’ canoni arretrati: e comandava al suo Commissario pel Tavoliere che, ponderate le ragioni di ciascun debitore a tutti accordasse discreti e convenevoli indugi.


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Promoveva i più lontani commerci, cresceva i legni da guerra, ampliava con nuove fabbriche i cantieri di Castellammare e di Napoli, formava altro braccio di Molo per dare comodo, profondo e più securo porto allo maggiori navi, stabiliva una gran manifattura di tele per provvedere a tutti i bisogni della Real Marineria senza ricorrere all’opera degli stranieri. Univa alla Real Zecca un gabinetto d’incisione, e dava novello incremento a quello Instituto oggi a pochi secondo in Europa.

Per opporre un argine all’avidità di chi esercitando il nobile ministero di avvocato dee porre una parte della sua gloria nella più rigida virtù, e per rendere ad un tempo men ritrosi i clienti, spesso usi a pagare di mostruosa ingratitudine le più gravi e penose fatiche sostenute a loro prò, emanava solenne decreto col quale conciliava gli opposti interessi, e faceva cessare le prime cagioni di quegli scandalosi litìgi.

Intendeva alla quiete ed al decoro delle famiglie, alla tutela de’ costumi ed alla santità del matrimonio, con alta sapienza vietando a’ ministri dell’altare di benedire le clandestine nozze da incanti giovani desiderate in una età per l’impeto delle passioni quasi sempre sospinta a certo e pronto pentimento.

Magnifico e generoso ne’ premi ed ottimo estimatore dello virtù, tulle onoravate, che tutte vedeala fra loro di stretti legami congiunte. Però instituiva quell’Ordine che va glorioso del suo Augusto Nome, e destinavalo a guiderdone di chi amministra sapientemente, di chi comparte con equa lance giustizia, dello scopritore di utili veri, di chi crebbe i comodi della vita con nuovi trovati o aprì novelle sorgenti di pubbliche ricchezze, di chi per tele, per marmi o per pregevoli opere d’ingegno surse a celebrata rinomanza.

Per tanti provvidi ordinamenti, dal Tronto al Capo di Leucade, dal Faro al Monte un tempo sacro a Venere Ericina si diffusero in tal maniera le buone arti, che l’istruzione divenne forte bisogno di tutti gli animi, sì che non ci ha chi non si studi di prendere dal tesoro d’ogni dottrina la parte che meglio gli si convenga: e fin la moltitudine, la quale godeva di marcire nella più crassa e supina ignoranza,


è vivamente avida di appropriarsi quello che di pratico e di giovevole alla condizione di ciascuno può meglio fruttare la prima e più necessaria istituzione.

Qui noi ci arrestiamo, che de’ progressi di tutte le umane cognizioni dal cominciar del secolo XIX fino al momento in cui scriviamo, diremo nel prossimo numero di questi Annali. Nel quale ci godrà l’animo mirando alle sorti migliori, che sotto un ciclo senza nubi a’ buoni studi oggi promettono la calma e la pace, le quali fanno già caro e memorabile il Regno di Ferdinando II.

Ma prima di dar fine alle nostre parole, vogliamo aggiungere una considerazione, che ci occorre in questo istante alla mento, e che ci dorrebbe tacere. Se l’amore delle scienze sospinge tutti gli animi a bella meta, qual prosperità futura possiamo noi sperare? L’incremento del sapere ci rende certi di un felice avvenire?… La storia va ricordandoci, che la prosperità rifugge di abitare e dove l’umana ragione si sta torpida e neghittosa e dove troppo orgogliosa superbisce. Divenuta la Grecia maestra di ogni dottrina a tutte le genti, i Locresi meglio che i costumi cominciarono a vagheggiare il sapere, che facevali quanto i Cotroniati gloriosi. La filosofia cessò allora dal prestantissimo officio di ammaestrare gli uomini a dirittamente vivere, i giovani inorgoglirono, scemò l’autorità de’ padri, mancarono al tutto le virtù pubbliche. Il vecchio Aristeo a cui dolea della secura rovina della patria: Locresi, disse un giorno, obbliaste voi che Zeleuco raccomandava la fortuna di questa terra a costumi, senza de quali la dottrina è un dono funesto, che gli Dei fanno a’ mortali quando vogliono punirli del loro orgoglio? Le parole di Aristeo non andaron perdute: i costumi tornarono a guardia della prosperità pubblica, e la vera sapienza, compagna di ogni bella virtù, fece Locri prospera potente e gloriosa!

E.*** T.***


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NOTE

(1) Dal 1052 al 1734

(2) Vico: Principi di una scienza nuora §. XXXI.

E giova riferire quanto quel profondo pensatore scrivea intorno alla Scoverta de’ feudi ne tempi eroici.

Quindi si ritrova, egli dice, nel Dritto Universale delle Genti Eroiche una certa spezie di Feudi, de’ quali vi sono due luoghi pur troppo sopra ogni altro evidenti in Omero: uno nell’Iliade dove Agamennone per gli ambasciatori offre ad Achille una delle sue figliuole, qual più gli aggrada, in moglie con in dote sette terre popolale di bifolchi e di pastori: l’altro dell’Odissea, dove Menelao dice a Telemaco che, se egli fosse capitato nel suo reame, gli avrebbe fabbricato una città, e da altre sue terre vi avrebbe fatto passare i vassalli che l’avessero onorato e servito. Talché dovette essere una spezie di feudi quali le genti del settentrione sparsero per l Europa da principio con quelle stesse proprietà che tali Feudi ritenevano tuttavia nella Polonia, nella Lituania, nella Svezia, nella Norvegia quando l’autore scrivea. Aggiungeremo i due luoghi di Omero come leggonsi volgarizzati l’uno dal Monti, l’altro dal Pindemonte.

Ho di tre figlie nella Grecia il fiore

Crisotemi Laodice Ifianassa,

Qual più di esse il talenta a sposa e’ prenda

Senza dotarla, ed a Peleo la meni.

Doterolla io medesmo e di tal dote

Qual non s1 ebbe giammai altra donzella:

Sette città Cardamile ed Enope,

Le liete di bei prati Ira ed Antea,

L’inclita Fere, Epea la bella e Pedaso

d’alme viti feconde: elle son poste

Tutte quante sul mar verso il confine

Dell’arenosa Pilo, e dense tutte

Di cittadini, che di greggi e mandre

Ricchissimi, co’ doni al par di un Dio

L’ onoreranno, e di tributi opimi

Faran bello lo scettro.

Om. Iliad. lib. IX.

Una io cedere a lui delle vicine

Volea città di Argive, ov’io comando,


E lui chiamar, che da’ nativi sassi

D’Itaca in quella mia, ch’io prima avrei

d’uomini vota, e di novelli ornata

Muri e palagi, ad abitar venisse

Col figlio le sostanze e il popol tutto.

Così, vivendo sotto un cielo e spesso

L’un l’altro visitando, avremmo i dolci

Frutti raccolti di amistà sì fida.

Om. Odis. lib. I.


(3) Vico, Princ. di una Scienza Nuova.

(4) Dritto del Cunnatico.

(5) Il Codice compilato d ordine di Carlo III e pubblicato per le stampe dal Cirillo col titolo di Codice Carolino.

(6) Il Ministro di Carlo III diceva: io non conosco che Re e sudditi.

(7) Spesso noi non distingueremo i provvedimenti dì Carlo da quelli di Ferdinando I e di Francesco; perché non è nostro intendimento dare ordinala storia de’ tre Monarchi, ma sì bene seguire i progressi della civiltà nostra dalla conquista del primo fino alla morte dell’ultimo.

(8) La storia delle nostre leggi può dividersi in quattro epoche.


Epoca I. Dal 1736 al 1774


 Baroni sono chiamati alla Corte. La loro presenza non ha più potere su’ giudici delle loro terre. La loro giurisdizione è ridotta a cause di lieve momento, e limitata da’ gravami alle Regie Udienze ed alla Gran Corte della Vicaria. Il potere giudiziavio si restringe ne’ tribunali del Ile. Prammatica del 1738. La tortura è maladetta. Il Sacro Regio Consiglio diviene il centro di tutte le giurisdizioni.


Epoca II. Dal 1774. al 1809.


Si frena l’arbitrio de’ magistrati. Il Re comanda che le sentenze sieno confortate delle ragioni di dritto, che servirono di norma alla decisione. Il Sacro Consiglio rappresenta contra la nuova legge. Tanto era radicato negli animi E amore dell’arbitrio! Organo del volere del Re, il Ministro Segretario di Stato di Grazia e Giustizia risponde (a):


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Vuole Sua Maestà che il Consiglio abbia per massima che la legislazione è tutta nella Sovranità: che il Consiglio non è che giudice, e che i giudici sono esecutori delle leggi e non autori: che il dritto ha da esser certo, deffinito e non arbitrario: che la verità e la giustizia, che i popoli conoscono e vedono nelle decisioni de giudici, è il vero decoro de magistrati, non quello stile di oracoli che non dubita di attribuirsi nella sua rappresentanza il Consiglio, essendo il genero umano pur troppo portato a sospettare, e maledire quello che non intende facilmente. Quindi decorosissimo riesce pel Consiglio il sapersi dal pubblico la dottrina, la saviezza, la ponderazione con cui procede in qualunque sua decisione. Sua Maestà perdona per ora gli escogitati sofismi alla fragilità umana ed all’assuefazione: e spera che l’esatta osservanza preverrà e disarmerà la giustizia, indivisibile dalla sovranità.

Nella prima epoca tulle le cause si riferiscono e si aringano in pubblico, ma sul processo scritto. La pubblicità della discussione è assai inculcata nella prammatica del 1734, in altre seguenti ed in più sovrani rescritti. La pubblicità è renduta solenne nella seconda epoca. Nel 1789, il Re ne fa un saggio nelle cause militari. Si pubblica un’ordinanza pe’ giudizi militari, ed un Codice pe’ delitti e per le pene de’ militari.

Questo Codice e quello da Leopoldo dato alla Toscana nel 1786 sono i primi Codici penali comparsi in Europa. Il Nicolini lo notò con molta forza nella sua prolusione per la Cattedra di Dritto Penai. Nell’ordinanza del rito militare è abolita la tortura, andata in disuso dopo la prammatica del 1738. Si prescrivono le deposizioni de’ testimoni in forma di dialogo: si determinano minutamente tutti i particolari del processo: si dispone che i testimoni non possano far fede, se non quando abbiano ripetuto le loro deposizioni innanzi a’ giudici, al reo ed a’ suoi difensori.


(a) Nel di 26 Novembre 1774.


Tali considerazioni fanno aperto perché fosse si facile nel regno abolire al tutto la feudalità ed introdurre la discussione pubblica e le altre utili novità ne’ giudizi. Avvenne lo stesso nell’amministrazione civile, l’unità della quale era già con maturo consiglio preparata. L’abolizione della feudalità fu compiuta senza gravi cure, e le prime discussioni delle cause criminali fecero credere, che giudici ed avvocati fossero già vecchi in quella palestra.


Epoca III. Dal 1809 al 1819.

Leggi francesi.


Epoca IV. Pubblicazione delle Nuove Leggi nel 1819.

Le Leggi Civili diversificano poco da quelle del Codice Francese, quasi tutte tratte dal dritto Romano. Venerata la Santità del Gran Sacramento del Matrimonio ed abolito il divorzio, la legge dello Stato Civile è messa di accordo con le leggi canoniche: solenne omaggio da Ferdinando I renduto alla Verità della Religioni Cattolica professata dal Monarca e da’ sudditi. Gravissimi sono i cambiamenti fatti nelle leggi penali, sul nostro esempio in gran parte adottati dalla Francia. Del che in una delle note seguenti.

(g) AGLI OCCHI DELLA LEGGE TUTTI I NOSTRI SUDDITI SONO UGUALI, DICEVA LA MAESTÀ’ DI FERDINANDO II, nell’editto pubblicato nel giorno in cui ascendeva al Trono.

(10) Ecco i principali cambiamenti presso noi fatti nel Codice penale di Francia.

I. Abolizione dell’ingiuria che si affìgge al reato e non alla pena.

II. Abolizione del marchio e della gogna.

III. Abolizione assoluta della confisca.

IV. Saggia graduazione nella scala delle pene per far conoscere il passaggio dall’una all’altra.

V. Graduazioni delle imputazioni per età e per malattia di mente e di corpo.

VI. Graduazione de’ reati tentati, mancati e consumati, gradi non distinti nel Codice Francese.

VII. Graduazione della complicità, non distinta nel Codice Francese.


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VIII. Graduazione nella recidiva e nella reiterazione ne reati.

Ancora l’istituzione di una cassa di ammenda destinata a l’accogliere quanto provviene dalle multe non per impinguare il Tesoro Reale, ma per servire d’ìndennizzazione a coloro che, giudicali innocenti, non avessero un ricco calunniatore che potesse compensarli.

Il primo libro delle nostre leggi di procedura penale è nobilissimo lavoro di logica giudiziaria. In esso il giudice è condotto per mano da’ generali a’ particolari fino all’autor del misfatto.

Quel primo libro delle leggi di procedura ed il primo delle leggi penali possono dirsi esemplari dello stile con che vogliono esser dettate le leggi. Sono il fante cui con sicurezza si può ricorrere per chiarire i dubbi, che sorgessero nell’interpretazione delle altre leggi penali.

(11) Scinà. Prospetto della Storia Letteraria della Sicilia.

(12) Ile Carlo mise di sua mano il primo chiodo nella chiglia della prima galea che costruitasi nel[ arsenale di Napoli.

(13) La Real fabbrica delle Armi alla Torre dell’Annunziata.

(14) La fonderia de’ cannoni nella Darsena di Napoli.

(15) Il Reale Albergo de Poveri in Napoli.

(16) Leggi la bella descrizione de Ponti della Valle nel Viaggio Pittorico nel Regno delle Due Sicilie di Raffaele Liberatore Voi. 2. p. 47

(17) Pater Urbium. Horat. lib. III. od. XXIV.

(18) Meditazioni filosofiche sulla religione e sulla morale. Vedi Giuseppe Baretti.

(19) Serao è un di que’ sommi de’ quali noi obbliammo la memoria che vive gloriosa presso gli stranieri. L’illustre Vicq D’Azyr ammiratalo tanto, che ne scrisse nobilissimo elogio, nel quale lo annovera fra i più grandi medici e fisiologi del setolo scorso. Il Fasano pubblicò la vita del Serao in co«i bel latino, che diresti quelle carte dettate negli aurei giorni del secolo di Augusto. Il Vicq-D’Asyr scriveva: come medico il Serao meritò della sua patria gli egri sollevando: come filosofo prestò utili servigi al vero gli errori distruggendo.


E con le ultime parole il chiarissimo biografo ricordava le favole dal popolo e da’ dotti per lungo tempo fra noi credute come effetti maravigliasi del morso della Tarantola (Aranea Tarantula Lin.)

(20) Sarcone pubblicò parecchie opere fra le quali sarà sempre ricordala con somma lode la Storia de’ Mali osservati in tutto il corso dell’anno 1764.

(21) Il Cotugno è autore di dotte opere, fra le quali non saranno mai abbastanza lodate quelle che hanno per titolo:

De acquaeductibus auris humanae internae anatomica dissertatio.

Fragmenta anatomico-physiologica etiam ad andito organum spectantia.

De starnutamene physiologia.

Tabulae duae anatomicae mine primum cum earum explicatione in lucem editae.

Del moto reciproco del sangue per le interne vene del corpo.

Dello spirito della medicina. Ragionamento accademico.

De Ischiade nervosa Commentarins.

De sedibus variolarum SYNTAGMA.

(22) Il Troya scrisse De novorum ossium regenoratione, opera che pubblicò in latino in Parigi e che egli stesso tradusse in italiano. L’Haller ed altri sommi ingegni lodarono a cielo questa scrittura per la quale si giovò assai alla scienza, e che fu volta in tedesco in inglese, ed in danese. Scrisse anco il Troya dottissimo libro sulle malattie degli occhi. Nell’Enciclopedia stampata in Ginevra leggonsi parecchi articoli dettati dal nostro chiarissimo autore.

(23) Antonio Sementini è autore di molte opere: sono altamente celebrate le seguenti:

Dilucidazioni sulla natura della pazzia.

Orazione inaugurale per X apertura della cattedra di fisiologia e medicina pratica.

Due lettere anatomiche, delle quali la prima contiene molte coso nuovo sul cervello, la seconda accresce le scoperte del Falloppio sullo sfintero.


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Trattato di fisiologia.

L’arte di curar le malattie.

Confutazione del sistema di Brown.

Parere sul contagio della tisi polmonare.

Trattato di patologia universale.

(24) Lettera sull’elettricità del Sorcio scritta al Cavalier Vivenzio.

(25) Il Marchese Giacinto Dragonetti il primo che scrivesse Delle virtù e de’ premi. Questo libro picciolo per mole, ma grande per molta sapienza, servi negli anni appresso di tema a più vasta opera di altro chiarissimo ingegno non ha guari tempo dalla morte alla gloria italiana rapito.

(26) Leggi Scinà: Prospetto della Storia letteraria di Sicilia, opera la quale fa desiderare che altri imprenda a fare lo stesso per quest’altra parte de’ Reali Domini, che certamente non può molto applaudirsi della storia letteraria del Signorelli.

fonte

https://www.eleaml.org/sud/banchi/banchi_1833_annali_civili_Due_Sicilie_storia_1734_1830_societa_anonime_2012.html#conquista

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