Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

DELLA MEMORIA

Posted by on Nov 11, 2016

DELLA MEMORIA

Forse è la mia capacità sempre più fievole di ricordare che mi ha fat­to occupare in modo sempre più intenso della Memoria, della sua na­tura e significato, della sua struttura interna, che mi fa usare i ricordi in modo sempre più frequente. L’invecchiare lo comporta: tendono ad emergere ricordi lontani e a scomparire i recenti, la “memoria corta”. Ci vedo un mio vantaggio nel perdere la corta e guadagnare la lunga, dal momento che la mia storia passata è molto più vasta della recente (e il futuro temo non l’aumenterà di molto) e che imparo più dalla lezione del passato che dal quotidiano.

Forse non s’impara niente da nessuna delle due, ma il passato, pieno com’è di dignità e autorevolezza (così lo rende la memoria appunto), mi sembra più “eroico” per quel manto di fascino che gli deriva dal tempo che depura, assolutizza le vicende pas­sandoci sopra una invisibile “vernice a finire ”che gli conferisce quell’aura che io, pur sapendo deformante, accetto e amo.

Del resto, se è questo ciò che si è depositato su noi, per selezione naturale della nostra indole, del nostro carattere, del nostro meccani­smo di rimozioni e difese, questa è anche la realtà così come voglia­mo ricordare che sia stata, la nostra realtà, la realtà tout court.

 

***

Asor Rosa nel suo “La luce del crepuscolo” parla di ricordare co­me attendere, cioè stare fermi, come se ci dovessimo ormai aspettare dal resto del mondo gli eventi a cui noi non vogliamo, non possiamo dare più nessun contributo, in un crepuscolo in cui “le ombre si allun­gano”, come lui dice, sulla vita. Il suo crepuscolare e molto poetico quadro non è però quello che mi ha spinto a scrivere questi racconti. Non credo neppure che l’uso del ricordo, certo più frequente nei vec­chi, sia una loro esclusiva. Tutti, ad ogni passaggio epocale, ad ogni stadio di crescita, hanno l’esigenza di fissare per evocare: il passag­gio dalle scuole elementari alle medie, il primo innamoramento e la prima delusione d’amore, la prima volta della chiave di casa in tasca, la nascita del primo figlio, sono alcune delle comuni occasioni di gran­di ricordi, la cui evocazione serve a misurare la propria crescita, a for­tificare la formazione, la conoscenza di sè, a darsi forza: e identità. E in questo senso la memoria paradossalmente è più organica ai giova­ni che ai vecchi, ma certo –specie per loro– non è un attendere seduti.

Il ricordo non ha necessariamente in sé neanche la connotazione della tristezza: credo che riguardi piuttosto la ricchezza interiore, l’af­finamento dei sensi (che i superficiali scambiano per “malinconia”), in­terviene quando non ci bastano più le sensazioni derivate dalla realtà ef­fettuale e scaviamo in noi stessi per procurarcene altre “di origine con­trollata” come per una difesa immunitaria; lo stimolo che ci viene dall’interno, dal nostro patrimonio di memoria, è appunto controllato, già digerito ed elaborato, omogeneo a noi e ci preserva da dolori e delusio­ni. Gesualdo Bufalino, nel suo “Argo in cielo” ne parla addirittura in termini “immunitari”:

«Forse coi minuti la memoria procede come corpo alle invasioni dei microbi. Appena l’infezione avvenga, saltano subito al contrattacco milioni, miliardi di globuli amici e vanno attorno al punto cruciale, lo isolano, lo sommergono, ispessiscono i tessuti fino a fargli attorno una crosta di calcare invincibile. Devo aver letto di polmoni dove, incapsu­lato, un focolaio resiste, muore, rinasce, praticamente eterno e pratica­mente impotente, dentro la muraglia cinese che lo costringe. Così per i ricordi, dico. Una forza di difesa isola i più micidiali e li lascia disarma­ti a dormire dentro di noi. Inattivi ma vivi. Immortali ma inerti.»

Inoltre l’alta concentrazione di materiale sensazionale contenuta nel ricordo lo rende quanto mai energetico, ne bastano piccole dosi: l’incipit o il ritornello di una canzone possono far accapponare la pel­le, rimettendoci nella situazione di un ballo, un incontro, un volto, so­no le prove che siamo vivi, che abbiamo sentimenti, che non abbiamo smesso di guardare il mondo con i nostri occhi profondi.

Realtà e memoria differiscono, inoltre, per l’operazione di sintesi operata da quest’ultima: sarebbe impossibile una registrazione mne­monica obiettiva e fedele del nostro passato, un filmato costante con­tinuo e regolare di tutto da tutti i punti di vista; l’eccesso di razionale precisione renderebbe, al contrario, i per-realisticamente allucinante una simile riproduzione, occuperebbe lo stesso spazio della vita reale e la distruggerebbe. È per questo che mi preoccupa l’odierno assillo del­la ripresa a videocamera o fotocamera di ogni minuto di ogni evento: ci vedo il folle tentativo dell’esatto e completo possesso dell’accaduto ol­tre il tempo del suo farsi, senza affidare nulla al proprio vedere, tocca­re, vivere “qui ed ora” che sono i materiali su cui si costruirà poi il ri­cordo. Infatti non la reale ma la vicenda ricordata è quella che vera­mente ci contiene, quella che contiene il noi dentro quell’evento, l’evento vissuto da noi e da nessun altro, il nostro mondo reattivo e cri­tico non video-registrabile. E se siamo stati dietro l’obiettivo non pos­siamo esservi stati davanti e quindi aver registrato un evento in cui ci siamo stati. Parimenti, se sono altri a “registrarci”, trattandosi di una scena di noi vista da altri, neanch’essa è il nostro evento.

Noi non ricordiamo fatti ma quadri emozionali di essi; per questo il ricordo non è la riproduzione della realtà: da essa, nell’attimo che tra­scorre, stiamo già estraendo il noi di quel momento, e nel tempo suc­cessivo continuiamo inconsciamente ad elaborare, sistemare, selezio­nare, spesso fondere fatti consimili per costruire un catalogo di “vicen­de esemplificative”, “ricordi-modello”, fino a formare complessi af­freschi mnemonici in cui tempi e luoghi originariamente diversi sono sinteticamente congiunti in tempi e luoghi ideali. Questa magica ope­razione ha un’importanza enorme: rafforza i ricordi, ne definisce i contorni, li tipicizza e ne fa strumenti di riferimento del nostro pensie­ro critico, dà continuità e coerenza, talora significato al nostro vissuto e, ciò che è più bello, diventa la sintassi del nostro sentimento attivo. Allo stesso modo che locuzioni gergali e modi di dire pre-confeziona­ti ci aiutano ad esprimere altro dal loro significato letterale originario, così noi interpretiamo emotivamente con questi modelli anche i no­stri accadimenti successivi, prova ulteriore che la memoria non è copia del vissuto tal quale. In questa operazione la macchina del tempo pas­sa e sfarina il passato ricomponendolo in nuovi straordinari impasti, in cui la realtà appare manipolata in ragione direttamente proporzio­nale alla distanza dagli eventi reali, alla massa di ingredienti consimi­li immagazzinati, al grado e tipo di sensibilità del soggetto.

Sono convinto essere la memoria la parte non transitoria del nostro corpo; durante la vita che scorre, non facciamo che depositare e rila­sciare: mentre accresciamo il patrimonio mnemonico, perdiamo con­tinuamente scorie materiali di noi stessi; molecole si sostituiscono a molecole in un processo di varie ricostruzioni organiche del nostro cor­po durante la nostra esistenza. Se non siamo più il risultato del parto di nostra madre già un attimo dopo, cosa ci fa riconoscere come individui, cosa ci fa dire: «io sono io», in quale recesso di questa mutevole scato­la risiede la continuità della nostra identità? Se non siamo dunque il no­stro corpo, l’unica certezza d’essere noi stessi è il percorso stesso della nostra vita, irripetibile e non uguale o analogo ad un altro: è ciò che di essa ricordiamo, il deposito che siamo riusciti ad accumulare nel labi­rinto di Mnème costruitoci intorno come il ragno la tela; ciò che delimi­ta la nostra identità sono i miliardi di operazioni sinaptiche che dina­micamente compongono l’archivio della nostra storia.

Paradossalmente le uniche invarianti del nostro corpo – il DNA e le impronte digitali, rispettivamente certezza per la Scienza e per la Polizia – non costituiscono nessuna delle due l’identità dell’indivi­duo, ciò in cui egli esistenzialmente si riconosce; per trovarla egli sca­va continuamente silenziosamente, inconsapevolmente nei meandri della sua memoria i reperti dei codici di riconoscimento di se stesso,le mappe delle proprie scelte, il diagramma di flusso del proprio desti­no compiuto.

Noi siamo il passato che ricordiamo. E continuamente auto-co­struiamo il nostro individuo-fabbricato coi mattoni dei nostri ricordi, talché il passato, quanto più lontano è, tanto più ci sembra perfetto poi­ché la più lunga elaborazione comporta un’assimilazione al noi di ciò che depositiamo, diventa nostro e lo accettiamo perché è noi.

Sarebbe affascinante – ad averne l’abilità – seguire le fasi evolu­tive della formazione della memoria a partire dall’accidente reale: le trasformazioni, i collegamenti con il resto del deposito, le riclassifica­zioni del tutto. Ogni elemento nuovo per integrarsi provoca infatti una mutazione della struttura precedente, come se ogni nuovo mattone per potersi collocare al suo posto, obblighi ogni volta il fabbricato a scomporsi e ricomporsi, includendolo in una nuova coerente unità. Questo mi ricorda tanto il «metodo di Kross» usato prima dell’in­formatica nel calcolo dei telai degli edifici in cemento armato; esso era basato essenzialmente su una ciclica redistribuzione delle tensio­ni ai nodi: ad ogni passaggio di approssimazione la struttura subiva le mutazioni corrispondenti alla temporanea assegnazione, fino al­l’equilibrata distribuzione finale.

Non solo gli accadimenti reali comportano variazioni nella strut­tura del patrimonio mnemonico, ma anche la loro stessa successiva evocazione: tirar fuori dei volumi da una biblioteca, leggerli e poi rimetterli a posto non lascia indifferente i libri, la biblioteca e noi stes­si; le parole lette non sono più le stesse, perché contengono, come in una sovra-registrazione, anche il percorso degli occhi che le hanno scanzionate, le labbra che le hanno compitate, i polpastrelli che le hanno scorse, l’averne capito o meno il significato, l’averle godute o sofferte. Sfido chiunque, scorrendo i dorsi dei libri allineati nella pro­pria libreria, a non concedere soste diversificate a seconda di ciò che nei rispettivi libri ha lasciato nel tempo, del rapporto che ha instaura­to con alcuni più che con altri. Allo stesso modo i ricordi non diven­tano tutti uguali per sempre, ma si diversificano, grazie anche all’ope­ra delle successive evocazioni, integrazioni, usi.

Forse ciò che mi ha spinto a scrivere questo libro è l’evocazione attiva, attivante; credo che, man mano che passa il tempo, la nostra “biblioteca”, a parità di numero di libri, diventa sempre più potente incapacità evocativa. Quando vi avremo trasfuso tutto il nostro vissu­to, essa diventerà noi stessi, ciò che di noi rimane alla fine. Stadio affascinante ma, mi auguro, per me prematuro.

Provo adesso a fare impietosa pulizia di abusati termini: memoria comune e memoria collettiva: nego che esista la prima e che la secon­da sia propriamente ‘memoria’. La circostanza secondo la quale mas­se anche cospicue di ricordi siano comuni a più individui non signi­fica che si formino memorie individuali identiche o anche simili tra loro e tanto meno che si formi una “memoria comune”. Che gli even­ti costitutivi di quei depositi siano gli stessi non è sufficiente a fare il miracolo di più memorie identiche, di una memoria comune; la diver­sità sta nelle persone che sono diverse e nel modus con cui il mate­riale di base viene diversamente trattato.

C’è da sorprendersi di quante siano le strade che gli accadimenti prendono nel ricordo di ciascuno: io e mio fratello Michele abbiamo vissuto nella stessa famiglia per oltre trent’anni, differiamo di soli tre anni e, dunque, attingiamo alle stesse vicende-base, abbiamo avuto le stesse abitudini, amato gli stessi genitori, ecc., ma le costruzioni dei ri­spettivi depositi mnemonici non sono uguali; se dovesse egli scrivere il suo “Interno studio” a commento di quella stessa fotografia mi sve­lerebbe meravigliosi ricordi e sensazioni a me sconosciute. La storia di un’altra foto me ne dà conferma, quella del padre di Francesco Barra(siamo negli anni ‘50, Consiglio Provinciale di Avellino, suo padre En­zo: presidente, il mio: capo dell’opposizione); non ero presente né io né mio padre, ma quell’istantanea ugualmente mi riporta alle perso­ne, ai quadri, agli arredi, agli oggetti delle stanze del potere che tante volte avevo… Quella foto la consegnai poi a Francesco Barra per sco­prire che condividevamo i medesimi ricordi, ognuno dal punto di vi­sta del proprio padre: due verità opposte e vere entrambe. Questo è il fascino della memoria: mai uguale, mai registrazione supina di even­ti: l’elemento-base dell’accadimento reagendo con mondi interiori di­versi produce ricordi diversi. Francesco Barra avrà percorso da ragaz­zo le stesse vicende, gli stessi ambienti, sentite le stesse storie dal pa­dre ma ne ha ricavato un altro film… È addirittura affascinante questa diversità, il verificare come la stessa vicenda sia diversamente registra­ta e diversamente confezionata; raccontate a un estraneo non rivele­rebbero ormai neppure gli elementi comuni di partenza.

Così il chiedere ad altri:– Raccontami la mia storia! – ci svelereb­be il noi visto da altri, le cose che ci sono passate sopra senza lasciare quella traccia che hanno lasciato in altri.

Neppure si può parlare di memoria collettiva, quella che enfatica-mente si attribuisce a un popolo, quella che più tecnicamente si chiama ‘Storia’: essa non è la memoria individuale gonfiata come un pallon­cino. Ogni individuo ha due modi di ricordare: quello personale e quel­lo collettivo o culturale. Il primo è ciò di cui stiamo qui discorrendo. Il secondo è quello da cui ricaviamo il senso di appartenenza alla co­munità in vari gradi (famiglia, gruppo, paese, Paese, ecc.); esso ci vie­ne da un complesso mnemonico che solo in piccola parte è diretto, ma è prevalentemente mediato, nel senso che il materiale-base ci viene da fonti a vario grado di elaborazione cosciente e razionale: si può tratta­re di testimoni oculari (i partigiani o i fascisti per le vicende del seco­lo scorso), di storia orale (resoconti di testimoni oculari tramandati di bocca in bocca, da generazioni a generazioni), di documenti originali(il bollettino della Vittoria di Diaz, il Concordato Stato-Chiesa); puòtrattarsi, ancora, di cronache, di storie, o della Storia degli storici, cioè della versione o versioni ufficiali che interpretano le fonti, le cronache, le storie e le compendiano trafilandole talora attraverso lo schiacciapa­tate della cultura dominante o peggio del vincitore.

Questo deposito culturale rimane fuori dalla complessa elaborazio­ne che presiede alla memoria individuale, poiché si sostanzia di ma­teria memorizzata con la ragione, la quale viene collocata in altriscomparti della nostra mente. Ciò non significa che la memoria col­lettiva non si modifichi, ma ciò dipende dall’evoluzione della nostra educazione, dal nostro bagaglio culturale e dalle nostre convinzioni ideologiche, tutti fattori strutturalmente evolutivi, ma non organici ed esistenziali. Tra l’altro, il modus evolutivo va, a differenza di ciò che abbiamo visto per la memoria personale, per aggiunzioni ed integra­zioni temporali semplici: ogni implementazione si incastra al posto giusto dell’”archivio” e non mette in discussione l’intera struttura. Le revisioni, se ci sono, vengono indotte dall’esterno (da noi o da altri)con una decisione consapevole e ragionata.

Chi crede che nella memoria collettiva ci siano valori della stessa substantia di quella personale confonde uno stimolo emozionale con un processo storico: Sandro Pertini, Che Guevara, Papa Giovanni, John Kennedy, quando entrano nella nostra memoria emotiva non lo fanno in quanto elementi di memoria collettiva, cioè quali personaggi storici – e dunque patrimonio disponibile per tutti – ma in quanto idea­lizzazioni spontaneamente acquisite al nostro “archivio personale”, in­nesco esterno dei sogni che dormono dentro di noi; entrando per que­sta porta essi vengono assimilati ai nostri modelli morali: il padre o quello che avremmo voluto avere o essere, il fratello maggiore, il ca­po che avremmo voluto avere o essere: idola interni formatisi in prece­denza, in anni di sedimentazioni che trovano spesso un volto, una figu­ra reale di cui sostanziarsi. Il fatto che questi personaggi siano spesso idoli per masse enormi di persone non autorizza a parlare, ancora una volta, di memoria collettiva; ciò che unisce queste masse non è la me­moria ma il modello derivato dalla condivisione di una ideologia o in­dotto dal sistema mediatico. Quei personaggi storici fanno un’altra strada dentro di noi che non quella della memoria, talora nessuna se è vero che molti giovani con le magliette o addirittura tatuaggi raffigu­ranti il “Che” ignorano chi egli sia storicamente stato.

Esiste dunque un qualcosa in cui risiede l’identità collettiva? Esi­ste sì un deposito culturale attivo e razionale, storico non mnemonico: l’antropologia culturale può spiegare, a questo proposito, la funzio­ne dei rituali al fine di conservare l’identità culturale. Rituali, cioè mediatori esterni, mentre nei processi mnemonici individuali le ritua­lizzazioni sono operazioni spontanee tutte interne a ciascuno di noi,sono la memorizzazione stessa.

Nel fallace sforzo di comparare la memoria collettiva e quella per­sonale, qualcuno ancora ha cercato altre analogie tra l’uomo e la co­munità. Da una parte si afferma: “Più un uomo invecchia, più fa ri­corso al patrimonio mnemonico, decidendo di chiudere con la vita”, dall’altra: “ Più un popolo fa testimonianza delle proprie radici e de lproprio passato, più si avvicina alla decadenza ed alla estinzione”.

Premesso che non è possibile un parallelo tra cose che ho dimostra­to avere natura diversa, analizziamo comunque i due casi. La prima af­fermazione può essere vera in sé, nei casi estremi in cui la memoria è usata dal vecchio come strumento di eutanasìa nel senso etimologico di ‘bel morire’. Invece in Borghes, ad esempio, si accelera e si definisce il ruolo della memoria personale come parte cospicua dell’essere, e in Norberto Bobbio diventa importante il carattere di reciprocità della me­moria (l’allievo che lo ricorda, egli che ricorda persone care, come ha detto nell’ultima sua intervista); in tutti e due questi ultimi casi citatisi tratta di un modo diverso di voler vivere, non di morire.

Quanto alla seconda affermazione, non mi pare che siano i popoli in estinzione ad accentuare la difesa della loro storia e della loro iden­tità: al contrario, lo hanno fatto ad esempio i negri, gli ebrei, i palesti­nesi, i curdi, proprio nei momenti del loro riscatto, proprio come stru­mento di reazione all’estinzione e si è rivelata sempre un’arma vincen­te. Al contrario, se guardiamo all’abbandono del nostro patrimonio storico-architettonico, cioè al momento di maggiore oblìo per il nostro passato, esso coincide con la perdita d’identità delle nostre città, con le pratiche e le mode mutuate da altri popoli: siamo nel caso più classi­co di decadenza. L’oblìo culturale e di identità nazionale degli emi­granti non a caso è coevo al caos edilizio nelle loro città d’origine, spesso alimentato dalle loro stesse rimesse di capitali: e di mode.

Mi soffermo su quanto non condivido del saggio sulla memoria che Asor Rosa premette al suo libro: “La luce del crepuscolo”, per esempio a proposito di memorizzare e memoria. Non credo che una poesia mandata a memoria entri nel nostro patrimonio mnemonico. Occorrerebbe distinguere con locuzioni diverse i due diversi proces­si: il primo del ricordare nel senso del tenere a mente, il secondo dell’ aver memoria di. Entrambe sono una registrazione, ma la prima è ra­zionale volontaria indotta ed esterna, la seconda raccoglie l’ humus di un accadimento ed è processo non volontario, interno all’essere ,entra a far parte del sistema-essere. Inoltre, il tenere a mente, manda­re a memoria non opera sintesi: non fondiamo in un’unica poesia d’amore tutte le poesie d’amore che abbiamo imparato (non avrebbe neanche senso) come invece facciamo con le vicende che diventano ricordi personali: ricordiamo il sorriso di nostro padre, il bacio di no­stra madre, come concrezioni mnemoniche di tutti i sorrisi di nostro padre e tutti i baci di nostra madre.

C’è comunque da considerare una terza accezione della memoria, che chiamerei mass-mediale, oggetto di una scienza relativamente gio­vane, la Memetica, il cui massimo rappresentante italiano è Franco Ianneo. Nel suo libro “Meme”(ampiamente citato e utilizzato in que­sto libro) egli analizza il modo, analogo a quello dei virus biologici e informatici, secondo il quale bit di memoria si diffondono nel sistema mnemonico individuale, insediandovisi inconsciamente, sicché alcu­ne informazioni passano senza controllo critico da uno all’atro dei sog­getti fino a formare tendenze, convincimenti e desideri indotti che noi fallacemente riconosciamo come nostri. È ciò che fa la pubblicità, spe­cie quella ad alto contenuto subliminale. Non è la sede per analizzare questo inquietante aspetto della memoria, ma esso rappresenta un rea­le pericolo di infezione del nostro patrimonio mnemonico e quindi del­la nostra identità. Ma neppure questa è la nostra memoria.

Un’ultima divagazione, rispondendo ad un mio stesso vecchio que­sito circa l’esistenza o meno della memoria negli oggetti o nei luoghi. Mi sono sempre risposto di sì, e molte di queste pagine sono intrise ditale non provata ipotesi. La tradizione o la leggenda individuano alcu­ni luoghi – luoghi sacri, centri storici o città intere – come scenario di eventi straordinari o ancestrali; è in essi che risiede quello che si chia­ma il “genius loci”. Essi sono il fondamento dell’identità della gente che vi si riconosce, essendovi accaduta la storia tramandata: e questa circostanza li trasforma in fonti di emozioni. Non si spiegherebbe al­trimenti la differenza evocativa tra un ambiente in cui siano vissute del­le persone per secoli e una sua perfetta copia, nel set di un film ad esem­pio. Molti registi cercano i luoghi della realtà vera perché gli attori en­trino empaticamente nella parte. È quel che fa diverso, ad esempio, “Il nuovo cinema Paradiso” da altri film anche eccellenti costruiti negli studios. Mario Martone, per le riprese del suo episodio “La salita” nel film collettivo “I vesuviani” mi chiese di scegliergli luoghi veri del Ve­suvio: e girò tutto lì dalla prima all’ultima scena, costringendo gli at­tori (e se stesso) ad una vera e propria full immersion nell’habitat vesu­viano. Ne uscirono diversi, compreso lui stesso e Toni Servillo.

Parimenti, le leggende metropolitane sui luoghi misteriosi hanno spesso qualche fondamento. Gli oggetti o i luoghi ritengono in certo modo qualcosa del “vissuto”, accumulando un proprio patrimonio di ri­cordi. Cosa spinge i vecchi a resistere nei luoghi della loro vita vissuta a fronte di vantaggi materiali e salutari altrove? L’abitudine? Mi sem­bra troppo poco. Perché la nipote indossa la collana della nonna, il ni­pote l’orologio del nonno e, più in generale, perché si cercano e s’indos­sano abiti altrui? Certo per un piacere di assorbire qualcosa che vi è con­tenuto, per innescare un processo di identificazione o di possesso. I bambini lo fanno normalmente, calzando le scarpe dei genitori o indos­sandone gli indumenti: sono gli adulti che traducono in termini comici questa pratica, ma i bambini sono serissimi e ci ridono solo dopo, per emulazione. Rena Mireka, l’attrice di Grotowski, durante i suoi labo­ratori, vietava assolutamente che i giovani indossassero indumenti dei più anziani, perché carichi di vissuto troppo pesante, vietava di scam­biarceli comunque, perché si era in un lavoro in cui occorreva tutta l’energia. Anche il rubare oggetti, talora di scarso valore, può contene­re aspetti che riportano ad un tentativo di possedere, entrare in contat­to con: è quella che in fase parossistica si chiama cleptomania.

L’attrazione per gli oggetti o luoghi, consapevole o meno, funzio­na dunque da eccezionale deterrente mnemonico. Come delle vicen­de, anche di luoghi e cose si ciba la nostra memoria: in una magica transustanziazione inversa, da materiale l’oggetto-luogo si smateria­lizza, diviene della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, per dirla con Pessoa, si assimila a noi, diventa nostra materia mentale.

Questo tentiamo di fare per tutto il corso della nostra vita: ne ri­costruiamo di continuo le parti dentro noi stessi per poi obiettivarle(cioè accettarle) in un gioco ciclico di fagìa ed eiezione, di ingoiare e vomitare. In questo incessante processo ciclico, come in un setaccio a maglie strette, rimangono depositi sempre più sottili di realtà a forma­re il nostro patrimonio mnemonico; altrimenti sarebbe l’alienazione, la perdita dell’identità, la follìa, l’annullamento. E noi siamo quel se­taccio; guai se le sue maglie si allargano: rischiamo di non raccoglie­re più la fine e preziosa polvere mnemonica che ci fa vivi.

Scompariremo quando non sapremo più ricordare.

 

Aldo Vella

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.