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Democrazia, suffragio universale e criminalità organizzata

Posted by on Feb 17, 2022

Democrazia, suffragio universale e criminalità organizzata

Molti politici capitolini hanno tirato un sospiro di sollievo quando il 20 luglio 2017 una sentenza di primo grado del tribunale di Roma ha escluso che, per la cricca che controllava gli appalti del Comune, si potesse parlare di “associazione mafiosa” in senso stretto (come se altre accuse di estorsione, usura, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio di denaro e via dicendo fossero bazzecole…).

Perché tanto sollievo di fronte a tale esclusione, quando comunque le condanne non sono state del tutto irrilevanti[1]?

La “soddisfazione” dei difensori, di fronte a quella che poteva essere considerata una disfatta risiede nella speranza che la corte d’appello sia più clemente, essendo venuta a cadere l’accusa di collusione tra mondo politico e criminalità organizzata. Di fronte all’opinione pubblica, infatti, abbastanza abituata a considerare i politici – dai 1000 fortunati vincitori della “lotteria di Montecitorio e Palazzo Madama”, deputati o senatori che siano, ai “semplici” consiglieri regionali, comunali o circoscrizionali – come persone inclini non ad occuparsi del bene pubblico, bensì a farsi gli affari propri e a gestire favori e clientelismi per assicurarsi la rielezione e/o il massimo ricavo economico possibile dagli anni di gestione del potere, solo lo spauracchio della “criminalità organizzata” poteva essere uno stimolo a cercare di dare una spallata all’attuale classe dirigente (o, meglio, digerente[2]).

Eppure all’osservatore della realtà italiana non può sfuggire che il binomio politica-mafia (o, più correttamente, democrazia-mafia) sia, di fatto, inscindibile.

Democrazia = mafia?

È chiaro che tale affermazione non può non far saltare sulla sedia i “benpensanti” che, dopo un lavaggio del cervello di settanta e più anni, ritengono che la democrazia rappresenti il migliore dei mondi politici possibili e quindi debba essere esportato a tutti i costi, imponendolo a tutte le latitudini ed a tutte le civiltà (anche quelle che possono essere gravemente danneggiate da un regime democratico, come si è visto in Afghanistan, Iraq, Libia – solo per fare tre esempi – piombate nel caos istituzionale una volta imposta con la violenza la democrazia, laddove – è storicamente evidente in Afghanistan – la restaurazione del regime monarchico, rispettoso della realtà tribale, avrebbe molto meglio funzionato).

L’errore “teoretico” della democrazia è un argomento complesso, esaminato da Platone in poi da tutti i principali pensatori, e non è il caso di affrontarlo in questa sede.

Vale però la pena soffermarsi sull’errore “pratico” della democrazia, ovvero il suo principale – e ineludibile – strumento operativo: il suffragio universale.

L’errore di far valere il voto dell’ignorante come quello del colto appare palese: lasciamo da parte le critiche banali di chi accusa gli avversari della democrazia di voler far «votare solo i ricchi e i potenti». Pensiamo ad alcuni quesiti referendari degli scorsi anni: su questioni tecniche come cavilli giuridici o problemi scientifici (gli anticrittogamici, ad esempio) è evidente che anche un ricco e potente sia “ignorante” (nel senso etimologico). Il professore di diritto presumibilmente non capirà alcunché di profilassi fitologica e quello di agraria non potrà che farsi influenzare da qualche articolo letto più o meno distrattamente su questioni come le cellule staminali…

Il concetto di base rimane che è assurdo mettere sullo stesso piano quantitativo il voto di chi studia un determinato argomento e di chi vota “di pancia”, di chi ha la capacità di analizzare la situazione politica e di chi vota il candidato che gli ha promesso un “posto alle Poste” o il pagamento della bolletta della luce… Ma di fronte all’impossibilità di superare il suffragio universale – a meno di passare al correttivo della democrazia organica, ma questo è un altro discorso – non si può negare che l’elemento quantitativo sia preponderante su quello qualitativo, con tutte le conseguenze che ne derivano.

Seconda repubblica o prima-bis? L’abbandono delle ideologie

Secondo la vulgata, dal 1993 siamo entrati nella “seconda” Repubblica. A mio avviso si tratta di una trovata giornalistica che, dal punto di vista politologico, dovrebbe essere rivista. Se numeriamo le repubbliche come è stato fatto in Francia, dobbiamo individuare in un cambiamento costituzionale (o in una cesura monarchica o dittatoriale) il passaggio dall’una all’altra (quello tra IV e V repubblica francese avvenne per via di una riforma costituzionale e delle successive elezioni).

In Italia tale cambiamento della Costituzione non si è avuto: tutte e tre i tentativi (le tre Commissioni Bicamerali nel 1983, 1993 e 1997, le riforme del governo Berlusconi nel 2001 e nel 2006, la riforma del governo Renzi nel 2016) sono miseramente fallite.

La semplice modifica della legge elettorale (prima con i collegi uninominali, poi con le liste proporzionali bloccate senza preferenze esprimibili per i singoli candidati) da sola non è sufficiente per parlare di passaggio da “prima” alla “seconda” repubblica (altrimenti l’attuale dovrebbe essere considerata come “terza”).

C’è però un elemento sostanziale – del tutto estraneo al dettato costituzionale – che si è imposto con il modo di far politica di Berlusconi (e che è stato adottato immediatamente dai suoi avversari dell’ex PCI): non convincere i votanti a sostenere il proprio programma, scelto per ragioni storiche e culturali (il corporativismo ed il presidenzialismo per il MSI, la lotta di classe e l’abolizione della proprietà privata per il PCI, il liberismo economico e il liberalismo ideologico per il PLI, un moderatismo di stampo familistico e chiesastico per la DC, e via discorrendo), bensì proporre al popolo dei votanti ciò che questi volevano sentirsi dire (il “milione di posti di lavoro” di Berlusconi; le promesse a 360 gradi di Veltroni, D’Alema e Prodi; la secessione da “Roma ladrona” di Bossi, etc.).

Questa è stata l’unica vera “rivoluzione copernicana” che si è verificata negli anni ’90: l’abbandono delle ideologie e l’inseguimento della maggioranza dei voti, da raccogliere con qualsiasi metodo possibile, lecito o meno che sia. Naturalmente, se il risultato passa attraverso la candidatura di personaggi “chiacchierati” (cioè pregiudicati, maneggioni, mafiosi, camorristi, etc.) va sempre bene, purché portino i voti sufficienti a superare l’avversario.

Camorra e potere politico

Nel Sud Italia – fin dalla (o, più precisamente, a causa della) Unità – la camorra e la mafia hanno un ruolo preponderante, ruolo tornato in auge nel dopoguerra, dopo che durante il fascismo esso era stato ridimensionato se non azzerato. Chi vuole assicurarsi le elezioni, quindi, non può evitare la collusione con gli ambienti della malavita organizzata.

Del resto, a fronte della conoscenza di tale realtà (quante volte leggiamo sui giornali i precisi organigrammi delle “famiglie” camorriste, con tanto di puntuale delimitazione dei territori di operatività?), l’inesistenza di una azione coordinata tra forze dell’ordine e magistratura denuncia di per sé accordi con la classe politica che determinano una casta di “intoccabili”. Perciò – a parte qualche arresto eclatante di tanto in tanto – l’attività malavitosa procede pressoché indisturbata e dalla Sicilia essa si è estesa al resto della Penisola, capitale compresa (ecco perché la sentenza di “assoluzione” dall’accusa di “associazione mafiosa” ha reso tanto felice imputati, condannati e politici romani!).

Tale “piovra”, come veniva chiamata un tempo, non solo ha steso i suoi tentacoli dappertutto, ma soprattutto si è identificata con la classe dirigente politica: potendo controllare la volontà elettorale delle grandi masse socialmente più deboli (pensate alla tecnica della scheda “ballerina” usata nel film Sud di Gabriele Salvatores del 1993, ma sono stati dimostrati altri sicuri metodi di controllo[3]) chi desidera farsi eleggere ed è privo di scrupoli sa di poter trovare nella malavita organizzata un alleato sicuro, che ricambierà con appalti e favori vari, una volta eletto[4].

Anche chi è in – relativa – buona fede è portato a ragionare in maniera da lasciarsi invischiare nel tessuto malavitoso: «Se non accetto io i voti della camorra, sceglieranno qualcun altro. Ergo, per il bene comune è meglio che sia io a farmi eleggere…», come se accettare i voti della malavita e poi rifiutarsi di fare favori agli “amici degli amici” fosse semplice e, soprattutto, realizzabile!

Terra dei fuochi e terra dei roghi

Si potrà dire che, in realtà, l’infiltrazione camorristica sia meno estesa di quanto appaia dal mio scritto, che il Comune di Roma abbia vissuto un semplice episodio di malaffare, non una corruzione endemica, e che quello di Napoli e dei Comuni limitrofi sia un problema facilmente estirpabile. Facciamo allora un esempio. I roghi dolosi che quest’estate del 2017 hanno devastato gran parte dei monti campani, costringendo gli abitanti del golfo napoletano al quotidiano e continuo spettacolo di idrovolanti che raccoglievano acqua (ahimè, salata) per spegnere gli incendi, ovviando alla mancanza di acqua dolce lacustre della regione, spinge ad alcune considerazioni che vanno ben oltre le questioni relative al patrimonio boschivo locale.

Innanzitutto è facile immaginare la seguente concatenazione logica: incendi → dolosità → criminalità organizzata → interessi economico-politici. C’è chi afferma che la distruzione dei boschi del monte Faito serva non a modificare la destinazione d’uso della zona, permettendo l’erezione di nuovi fabbricati (come avveniva ai “bei” tempi dei palazzinari democristiani), anche perché una legge impedisce il mutamento della destinazione d’uso del territorio bruciato[5], bensì a promuovere altre culture assai più redditizie: infatti da anni il Faito (1.131 metri) vede l’espandersi di coltivazioni di canapa indiana, tanto da essersi “meritato” l’appellativo di «Giamaica italiana»[6].

La mentalità generalmente ristretta degli amministratori locali (con le dovute – rare – eccezioni), interessati al proprio tornaconto personale e familiare piuttosto che al bene pubblico in generale, al meschino guadagno immediato anziché alla progettazione a lungo termine, allo sfruttamento utilitaristico delle risorse e non allo sviluppo del territorio, si sposa perfettamente con la mentalità camorristica, che è pronta ad avvelenare le terre in cui vive per trasformarle in discariche, a favorire l’abusivismo che uccide il territorio e il traffico della droga che uccide l’umanità.

Alla camorra in senso stretto (cioè all’attività criminale) si associa la mentalità camorristica, cioè il comportamento di chi, pur non facendo direttamente parte di una gang criminale, fiancheggia di fatto i comportamenti delittuosi appoggiandoli, avallandoli o non denunziandoli. Insomma, dopo le tre “F” (festa, farina e forca) dell’antico Regno di Napoli e le tre “P” del Regno d’Italia (parlate, piangete e pagate[7]) si giunge alle tre “C” della Repubblica d’Italia: Camorristi, Complici o Collusi, intendendo come complici quelli che fiancheggiano, magari tirando i mobili contro le automobili della forza pubblica in occasione delle – rare – retate e come collusi quelli che si limitano a guardare dall’altra parte, che non hanno mai visto niente, che negano l’esistenza stessa della malavita organizzata nel luogo in cui vivono e che, naturalmente, non negano il voto al candidato in “odore” di camorra, speranzosi di ricevere qualche favore, una volta eletto.

Una Repubblica fondata sulla mafia?

Esagerazioni? Probabilmente no. Infatti, quando si propone per l’Italia l’elezione dei giudici, come avviene negli Stati Uniti, patria della democrazia (ove sono eletti anche gli sceriffi, cioè i capi della polizia locale), ci si ritrova di fronte ad un reciso “no” anche da parte dei più fieri democratici italiani. Motivo: «in questo modo, soprattutto al Sud, i giudici verrebbero eletti dalla camorra e dalla mafia e non ci sarebbe più giustizia». Verissimo. Ma allora, se si è consci della potenziale capacità di influenzare le elezioni dei giudici, cioè della base del potere giudiziale, perché non si ammette che anche che gli altri fondamentali poteri, quello legislativo (cioè il parlamento) e quello esecutivo (cioè il governo), traggono la loro ragion d’essere dalle elezioni a suffragio universale e, quindi sono di fatto sottoposti all’arbitrio della malavita organizzata?

Va anche aggiunto, per concludere, che se la malavita organizzata al Sud ha un nome storicamente consolidato (si chiami Mafia, Camorra, ’ndrangheta o Sacra Corona Unita) essa non solo ha un esteso radicamento al Nord, ma nelle altre Regioni è presente comunque un sistema politico-clientelare che, se non minaccia direttamente di morte (elemento che ha spinto il tribunale di Roma, e qui torniamo dove abbiamo cominciato, a far cadere l’accusa di associazione mafiosa), rende comunque impossibile la vita. È chiaro che è angosciante avere a che fare con un assessore notoriamente vicino ad assassini; ma è altrettanto angosciante doversi rivolgere ad un assessore che pretende il 15% dei guadagni di un imprenditore, altrimenti non gli concederà la licenza e magari manderà sul lastrico lui, la sua famiglia, la sua azienda ed i suoi dipendenti. Perché, in fondo, estorsione, usura, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio di denaro e via dicendo sono solo bazzecole in questa radiosa repubblica democratica…

Gianandrea de Antonellis


[1] Dai 20 ai 4 anni, solo tre condanne sotto i 4 anni e soltanto 5 assoluzioni su 46 imputati.

[2] Il “regime della forchetta” democristiano, contro cui si scagliavano i “duri e puri” del PCI negli anni ’50-’60 è stato sostituito da un regime di forchettoni del PSI negli anni ’90 e da uno di forchettoni del PD nei tempi attuali (con la breve parentesi dell’ex socialista Berlusconi, che non ha brillato per la scelta dei propri collaboratori). Peraltro, a livello locale, con la nascita delle Regioni, volute per avere a livello locale il potere che non riusciva a raggiungere avere a livello nazionale, il PCI aveva gestito le Regioni “rosse” con lo stesso metodo clientelare che caratterizzava i “forchettoni” democristiani.

[3] Tramite la combinazione rotatoria delle preferenze; tramite la fotografia della scheda; più semplicemente, tramite l’intimidazione fisica nei seggi o la creazione di commissioni di scrutatori tutti appartenenti alla stessa area politica e disposti a manomettere le schede (in alcuni seggi dell’Avellinese era stata riscontrata la mancanza totale di schede bianche o senza preferenze). Cfr. Laura Melissari, Il voto di scambio e il voto di preferenza: il caso della Calabria, testi di laurea, relatore Roberto D’Alimonte, LUISS, Roma anno accademico 2012/2013.

[4] Cfr., tra gli altri, il conciso saggio di Luca Ferrari, Bassolino e la nuova camorra. Indagine sulla svendita di una città,: Controcorrente, Napoli 1997. Curiosamente, lo strombazzato pseudo-saggio (in realtà è più un esperimento narrativo) Gomorra riesce a raccogliere quasi 400 pagine sugli intrecci tra camorra e potere politico in Campania senza citare una sola volta Bassolino…

[5] La norma ha la propria fonte nella fascista “Legge Serpieri” (Regio decreto legislativo 30 dicembre 1923, n. 3267, «Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani») e nella legge 1° marzo 1975, n. 47, il cui articolo 9, modificato e integrato dall’art. 1 bis del decreto legislativo 30 agosto 1993, n. 332, convertito nella legge 29 ottobre 1993, n. 428, che sul postulato della presunta dolosità dell’attività incendiaria finalizzata alla speculazione edilizia – piaga costante del regime democratico post-bellico –, introdusse il divieto di effettuare costruzioni di qualunque tipo in quelle zone boschive danneggiate dal fuoco, la cui destinazione doveva rimanere, per almeno dieci anni, quella antecedente l’incendio.

[6] Valeria Chianese, Camorra, un monte per coltivare la droga, in Avvenire, 12 agosto 2010. Dopo sette anni la situazione è in costante peggioramento…

[7] Cfr. http://www.historiaregni.it/il-1874-sulla-stampa-napoletana-dalle-tre-effe-alle-tre-pi/ [14.09.2017].

1 Comment

  1. Ho capito….quando si dice “i popoli” sembra nel linguaggio corrente che si parli dell’umanita’ intera… e si generano facili equivoci… Per me “popoli” sono quelli che hanno storia millenaria comune e terra circoscritta benche’ a confini aperti…caterina ossi

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