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Deportazione

Posted by on Apr 16, 2024

Deportazione

Uno dei progetti criminali del risorgimento piemontese contro i Duosiciliani

“Se ci ponessimo in Italia ad applicare la pena di morte con un’implacabile frequenza, se ad ogni istante si alzasse il patibolo, l’opinione e i costumi in Italia vi ripugnerebbero, i giurati stessi finirebbero o per assolvere, o per ammettere in ogni caso le circostanze attenuanti. Bisogna dunque pensare ad aggiungere alla pena di morte un’altra pena, quella della deportazione, tantopiú che presso le impressionabili popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce piú le fantasie e atterrisce piú della stessa pena di morte. I briganti, per esempio, che sono atterriti dall’idea di andar a finire i loro giorni in paesi lontani, ed ignoti, vanno col piú grande stoicismo incontro al patibolo”. Le parole di cui sopra sono del Ministro degli Esteri del Regno d’Italia, il milanese Emilio Visconti Venosta, indirizzate al Ministro a Londra, il piemontese Carlo Cadorna, in data 19 dicembre 1872 da Roma neonata capitale (Documenti Diplomatici Italiani [d’ora in poi, con la sigla D.D.I.], 2a Serie, Vol. IV, n. 235). Esse danno un’idea abbastanza luminosa del clima di terrore ancora imperante nelle Due Sicilie: nonostante fossero trascorsi ben dodici anni dal cataclisma del 1860, le prigioni erano zeppe di prigionieri politici, 11.635 nella sola città di Napoli, mentre gli ultimi fuochi di resistenza andavano spegnendosi.

UN MANUTENGOLO MORALE

Il Visconti Venosta, come gli altri personaggi che incontreremo nel corso del presente studio, la cui ossatura sarà costituita principalmente da estesi documenti diplomatici monotematici, era un esponente di spicco della Destra storica “italiana”, di quella Destra della quale il Croce ebbe a tessere, forse in un momento di depressione intellettuale, nel 1927, il seguente elogio: “…di rado un popolo ebbe a capo della cosa pubblica un’eletta di uomini come quelli della vecchia Destra italiana, da considerare a buon diritto esemplare per la purezza del loro amore di patria che era amore della virtú, per la serietà e dignità del loro abito di vita, per l’interezza del loro disinteresse, per il vigore dell’animo e della mente, per la disciplina religiosa che s’erano data sin da giovani e serbarono costante: il Ricasoli, il Lamarmora, il Lanza, il Sella, il Minghetti, lo Spaventa e gli altri di loro minori ma da loro non discordi, componenti un’aristocrazia spirituale, galantuomini e gentiluomini di piena lealtà. Gli atti loro, le parole che ci hanno lasciate scritte, sono fonti perenni di educazione morale e civile, e ci ammoniscono e ci confortano e ci fanno a volte arrossire; sicché deve dirsi che, se cadde dalle loro mani il fuggevole potere del governo, hanno pur conservato il duraturo potere di governarci interiormente, che è di ogni vita bene spesa ed entrata nel pantheon delle grandezze nazionali” (Benedetto Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Adelphi, 1991, pag. 16), cioè il panegirico di spietati fucilatori come, nel Reame, non se ne erano visti prima se non in epoca giacobina francese.

AFFANNOSA RICERCA DI UN ANGOLO DI TERRA

La lettera del Venosta aggiunge particolari a particolari: “…Ora, in quest’ordine di idee, e intorno ai nostri progetti di colonia penitenziaria, io La prego di avere sollecitamente una nuova conversazione con Lord Granville [Ministro degli Esteri di Sua Maestà Britannica, ndr]. Ella fu incaricata, or sono molti mesi, di chiedere al Governo inglese se per parte sua non vi fossero state obbiezioni alla cessione all’Italia, per parte di un capo indipendente, d’un territorio posto sulla costa Nord Est di Borneo. Questo capo indipendente aveva degli impegni col governo dell’India; noi non volevamo quindi procedere nelle pratiche senza prima prevenire il Governo inglese ed avere la sua morale adesione. Finora non abbiamo ottenuto una risposta. Lord Granville avrà dovuto certamente consultare i dipartimenti competenti ed anche il Governo dell’India. Lo spazio di tempo trascorso però è tale che abbiamo dovuto supporre che questo scambio di comunicazioni abbia già avuto luogo, e che il loro risultato essendo sfavorevole, si abbia preferito il silenzio ad una risposta negativa…In questo stato di cose, io La prego di avere, colla maggiore sollecitudine possibile, una aperta e leale spiegazione con Lord Granville e anche parmi opportuno che Ella interessi in questo argomento il Signor Gladstone, il quale ha tante volte portato con predilezione il suo pensiero sulle condizioni politiche e sociali dell’Italia e ci ha, da tanti anni, abituati a contare sulla sua simpatia. Lo scopo che perseguiamo non può che essere approvato, il sentimento che ci muove è quello di un Governo che vuole adempiere ai suoi doveri. I nostri rapporti coll’Inghilterra e la convinzione della solidarietà di interessi che esiste fra i due Paesi ci consigliano di non agire se non d’accordo con essa e colla sua morale adesione in quelle contrade dove la politica inglese ha tanti e tanto potenti interessi. D’altronde non si può supporre che noi abbiamo l’interesse di fare amministrativamente una razzia di malviventi e di gettarli a caso su una spiaggia remota. Ella sa che si tratta per noi di introdurre la deportazione nella scala penale dei nostri codici e di regolare, col concorso del Parlamento, il piano di uno stabilimento penitenziario di deportazione, ma regolare e dietro tutti i suggerimenti della esperienza e della scienza. Ma prima di tutto questo, bisogna che il Governo possa offrire la possibilità di trovare un luogo non troppo lontano dalle grandi linee della navigazione, in condizioni di clima compatibili coll’umanità e colle altre condizioni richieste. L’Inghilterra ci potrebbe rendere senza alcun suo sacrificio, un vero servizio, dandoci prova di buona volontà e prestandoci un certo concorso morale nel raggiungere il nostro scopo. La prego dunque innanzi tutto di chiedere una risposta relativamente al territorio nord-est di Borneo, risposta che, a quest’ora, non può a meno d’essere pronta. In seguito La prego di accertarsi se noi possiamo contare su qualche buona disposizione da parte del Governo inglese. è abbastanza nella natura degli ufficj e delle autorità coloniali d’essere diffidenti alquanto ed esclusive. Se quest’affare, dunque in ogni circostanza, sèguita le vie burocratiche, si potrà attendersi sempre a difficoltà e ad ostacoli. Le ragioni, per esempio, che consigliarono il rifiuto per l’isola di Socotra la quale non pare che appartenga ora all’Inghilterra, non furono indicate nella lettera particolare di Lord Granville, e forse se fossero state esaminate non sarebbero parse sufficienti per motivare un definitivo rifiuto. La prego, anche a nome del Presidente del Consiglio, di occuparsi colla maggiore sollecitudine, e col maggiore interesse, di questo affare. è da molti anni ormai che cerchiamo un angolo di terra, ma col desiderio e coll’intento di non metterci attraverso delle vedute e degli interessi inglesi, anzi col desiderio che lo scopo ci fosse agevolato dai consigli e dall’accordo morale del Governo britannico. Oramai ci preme di uscire dai dubbii a questo riguardo e di accertarci delle disposizioni reali che possiamo trovare”.

ROMAGNOLI TRA I BRIGANTI

La stessa lettera ci informa che il Visconti Venosta, alcuni giorni prima, aveva avuto un incontro col Ministro d’Inghilterra Sir Bartle Frere, “una delle persone piú competenti nelle questioni della politica inglese nelle colonie indiane”, che si recava a Brindisi all’imbarco per Zanzibar in missione antischiavitú. Con lui toccò l’argomento dei progetti del governo “italiano” per la costituzione di una colonia penitenziaria, cioè un campo di concentramento lontano dagli occhi di tutti in un territorio remoto della Terra, in particolare nel Borneo. Apprendiamo, con una certa meraviglia, che anche la Romagna dava grattacapi politici di non poco conto, se questi venivano equiparati a quelli che procurava l’ex Regno delle Due Sicilie: “Spiegai a Sir B. Frere qual’era la nostra situazione. Noi non abbiamo alcuna volontà né alcuna ragione di metterci ora a fare della politica coloniale. Anche uno stabilimento di deportazione non sarà forse per l’Italia un’istituzione permanente. Ma abbiamo in alcune parti d’Italia alcune piaghe sociali triste retaggio del passato. Queste piaghe vogliamo guarirle a qualunque costo – è per noi una questione di dovere e di onore nazionale. Noi non vogliamo transigere con questi disordini e rassegnarci a fare menage con essi. Abbiamo passato questi anni a fare grandi sforzi per metterci in misura di far fronte ai nostri impegni finanziari; un sentimento analogo di dovere ci impone di porre un termine alle condizioni anormali della Romagna, del Napoletano, della Sicilia, di ristabilire colà una sicurezza pari a quella delle altre parti di Italia e degli altri paesi civili d’Europa. Questo dovere, i giornali inglesi ce lo fanno spesso sentire in un modo certo piú sincero che obbligante”.

ATTERRITE QUESTE POPOLAZIONI

Le sottigliezze diplomatiche del Venosta, le sue false argomentazioni, la sua finta innocenza, che servono a coprire il suo ruolo odioso di invasore, che con tutto il suo governo aveva inviluppato il Sud in un immenso grumo di sofferenza e di sangue, non devono trarre in inganno. Appena due anni prima un alto ufficiale operante in Calabria in funzione antibrigantaggio dava ordini lapidari: “Atterrite queste popolazioni”, terrore in nulla diverso da quello imposto, già negli anni 1808/1810 sempre in Calabria dall’accoppiata di criminali di guerra Charles Antoine Manhès e Pietro Colletta, quest’ultimo lo storico esaltato nei libri di scuola, colà inviati dall’ambizioso e folle “re” Gioacchino Murat per reprimere le insorgenze antinapoleoniche. Importante in proposito il carteggio tra il colonnello Milon, ex ufficiale dell’esercito duosiciliano passato nelle file del governo di occupazione, e il generale Sacchi di Pavia, carteggio raccolto con gran diligenza dal professor Eugenio De Simone (Atterrite queste popolazioni, Editoriale Progetto 2000, Cosenza, 1994). Il piano di deportazione del Venosta coincideva quasi alla lettera con quello che il generale Sacchi di Pavia esplicitava al colonnello Milon in data Agosto 1868 da Catanzaro (pag. 93 del carteggio), segno di perfetta intesa tra militari e governo: “Esposi al Ministero con dettagliata relazione l’opportunità e l’urgenza di adottare provvedimenti pei numerosi arrestati per ragione di brigantaggio; prevedendo difficile l’ottenere misure eccezionali che vogliono essere autorizzate dal Parlamento insistetti nel reclamare un provvedimento di traslocazione ad altre carceri di un buon numero di detenuti; si verrà cosí a conseguire il risultato per noi importante di allontanarli dai loro luoghi natii e cosí impressionare le popolazioni”.

1862: QUI COMINCIA L’AVVENTURA…

Circa “l’angolo di terra” in cui relegare la parte del popolo duosiciliano riottosa al nuovo ordine e sopravvissuta alle fucilazioni, i documenti da noi raccolti spaziano dal 1862 al 1873. Il piú antico è un telegramma, il n. 640, in francese!, del 17 novembre 1862, inviato dal Ministro piemontese a Lisbona, Della Minerva, al Ministro degli Esteri, Durando: “La pubblicazione d’un dispaccio telegrafico da Parigi in data 6 dove a seguito lettera da Torino si parla di negoziazioni tra l’Italia e il Portogallo per cessione isola nell’Oceano, col fine di relegarvi briganti, ha talmente commosso opinione pubblica e la stampa che il ministero ha già fatto smentire tale notizia. Penso che per il momento sarebbe meglio sospendere ogni tentativo se si vuol farne piú tardi con successo” (La publication d’une dépêche télégraphique de Paris du 6 oú d’après lettre de Turin on parle de négociations entre l’Italie et le Portugal pour cession île dans l’Océan, afin d’y réléguer coquins, a tellement ému opinion publique et la presse que le ministère a déja fait démentir cette nouvelle. Je pense que pour le moment il serait mieux suspendre toute démarche si l’on veut en faire plus tard avec succès) (D.D.I., 1a Serie, Vol. III, 1862). Guido Po, uno storico di cose marinare, aggiunge, senza citarne la fonte, che il Ministero degli Esteri aveva fatto richiesta al Portogallo anche per una località nel Mozambico o nell’Angola (Il giovane Regno d’Italia alla ricerca di una colonia oceanica, in Nuova Antologia, fasc. n. 1339, anno 1928, pp. 516/528, affermazione riconfermata dallo stesso nella Rivista di Cultura Marinara, gennaio-febbraio 1942, pp. 3/13), ma di tale affermazione non s’è da noi trovato riscontro nei documenti diplomatici. Quali considerazioni avevano spinto il governo italiano a rivolgersi, nella ricerca di un angolo di terra straniera a fini di deportazione, in primo luogo al Portogallo? La risposta va individuata nel legame parentale instauratosi nel mese di luglio di quell’anno 1862 in seguito all’avvenuto matrimonio tra la figlia del Savoia II, Maria Pia, e Luigi I di Braganza, Re di quel Regno da appena un anno. Il sire savoiardo e il suo entourage governativo volevano evidentemente trarre profitto da quella alleanza dinastica per trasformarla in un’alleanza di malaffare dai contorni abietti, malaffare che suscitò però ripugnanza e indignazione nel popolo portoghese. L’accorto sovrano non volle rendere il suo popolo e se stesso complici di un crimine che la storia avrebbe giudicato severamente.

UNO SCIENZIATO PAZZO AL GOVERNO

Il progetto di una colonia di deportazione di Duosiciliani fu ripreso nel 1867 dall’allora Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri, Luigi Federico Menabrea, savoiardo di Chambery. Questi in data 30 novembre rivolgeva al Ministro a Londra, Emanuele D’Azeglio, la seguente nota il cui contenuto doveva rimanere segreto: “Vengo a farvi carico di una comunicazione particolarmente delicata e segreta. Da molto tempo il Governo cerca un luogo di deportazione per i condannati. Informazioni recenti ci indicano come molto adatta a tale scopo una regione situata sulla costa del Mar Rosso presso il paese dei Galla [Eritrea, ndr] in contiguità dell’Abissinia e che attualmente, per la verità, non appartiene ad alcun sovrano. Noi vorremmo occuparla; ma prima di intraprendere alcunché, sarebbe essenziale essere certi che da parte dell’Inghilterra non ci sarebbe opposizione. Vi prego dunque di sondare l’opinione di Lord Stanley [Ministro degli Esteri britannico, ndr] su questo argomento. Fate valere questa ragione: che il paese in questione da noi non viene occupato, lo sarà probabilmente da parte della Francia che certamente si affretterebbe a piantarvi la sua bandiera dopo l’apertura dell’istmo di Suez e potrebbe cosí creare difficoltà all’Inghilterra. Del resto questo desiderio, da parte nostra, non è affatto il risultato di una politica di conquista che non è nelle nostre mire, ma un bisogno di sicurezza interna di cui l’Italia non potrà gioire finché non ci sarà un luogo remoto per trasportarvi i numerosi criminali che affollano le sue prigioni. Noi contiamo sulla buona volontà che, a tutt’oggi, l’Inghilterra ha dimostrato verso l’Italia perché essa, l’Inghilterra, non sia un ostacolo ai nostri progetti” (D.D.I., 1a Serie, Vol. IX, n. 631) (Je vais vous charger d’une communication particulièrement délicate et secrète. Depuis longtemps le Gouvernement cherche un lieu de déportation pour les condamnés. Des renseignements récents indiquent comme très adaptée à ce but une région située sur le bord de la Mer Rouge près du pays des Gallas en contiguité de l’Abyssinie et qui, actuellement n’appartient réellement à aucun souverain. Nous voudrions l’occuper: mais avant de rien entreprendre, il serait essentiel d’être assuré que de la part de l’Angleterre il n’y aurait pas d’opposition. Je vous prie donc de sonder l’opinion de lord Stanley à ce sujet. Faites valoir cette raison que le pays en question n’est pas occupé par nous, et il le sera probablement par la France, qui certainement s’empresserait d’y planter son drapeau après l’ouverture de l’isthme de Suez et pourrait ainsi créer des embarras à l’Angleterre. Du reste ce désir de notre part n’est point le rèsultat d’une politique de conquête qui n’est nullement dans nos vues, mais un besoin de sécurité intérieure dont l’Italie ne pourra jouir tant qu’elle n’aura pas un lieu éloigné pour y transporter les nombreux criminels qui encombrent ses prisons. Nous comptons sur le bon vouloir que l’Angleterre a toujours démonstré envers l’Italie pour qu’elle ne soit pas un obstacle à nos projets).

LA PRUDENZA INGLESE

Il Ministro a Londra D’Azeglio, contrariamente alla storica burocratica lentezza tutta italica, rispose con inusitata rapidità, due giorni dopo, 2 dicembre 1867 ore 16,50, con telegramma n. 875 (D.D.I., 1a Serie, Vol. IX, n. 643): “Circa la deportazione, Stanley non ha detto né sí né no, e non è sembrato affatto troppo contrario. S’è riservato di dare una risposta; ma egli desidera che il progetto sia differito, in ogni caso, a dopo la guerra dell’Abissinia, altrimenti questo farebbe nascere delle complicazioni sollevando i nativi contro gli europei. Gli ho detto di ricordarsi della Francia” (Stanley n’a dit ni oui ni non quant à la déportation et il n’a point paru trop contraire. Il s’est réservé de donner réponse; mais il désire que le projet en tout cas soit differé après la guerre de l’Abyssinie, sinon cela ferait naître des complications en soulevant les naturels contre les européens. Je lui ai dit de se souvenir de la France).

LA PATAGONIA ARGENTINA

Il Menabrea, uno dei carnefici di Gaeta, prototipo degli scienziati criminali – esperto di balistica, aveva diretto, nel 1860, i cannoni contro la fortezza e soprattutto contro l’ospedale – non demorde dal progetto, decide di battere strade al di fuori dell’influenza o presenza inglese. Dall’Africa orientale all’America meridionale, obiettivo la Patagonia, estremo limite meridionale dell’aspro cono argentino, un territorio all’apparenza terra di nessuno. Circa un anno dopo infatti, in data 16 settembre 1868, sempre da Firenze, affida un dispaccio riservato (D.D.I., 1a Serie, Vol. X, n. 523) al Ministro Della Croce in partenza per Buenos Aires, documento stilato stavolta in italiano, ché dopo 4 anni di soggiorno in Toscana aveva cominciato a masticare un po’ di dantesco idioma: “Fra gli interessi gravissimi ai quali il Governo del Re deve porgere ogni sua cura, tiene un luogo distinto quello che si riferisce all’efficacia dei sistemi punitivi onde migliorare la condizione morale del nostro paese. La S.V. non ignora certamente in quali tristi condizioni queste versano in alcune parti d’Italia, ed Ella ben conosce come piú volte già il Governo del Re abbia dato opera a ricercare se, col mezzo di stabilimenti penali in lontane contrade e colla deportazione dei rei, non raggiungerebbesi quel miglioramento che, nelle condizioni presenti, è pressoché impossibile ottenere col sistema in vigore della reclusione e dei bagni. In tempi addietro furono fatti studi per fondare uno stabilimento di simil natura nelle regioni dell’America del Sud e piú particolarmente in quelle bagnate dal Rio Negro che i geografi indicano come limite fra i territori dell’Argentina e le regioni deserte della Patagonia. Quel progetto benché sia rimasto allo stadio di semplice studio preparatorio, potrebbe forse utilmente essere coltivato quando difficoltà d’indole politica non venissero ad attraversarlo. Epperò il Governo del Re vorrebbe che la S.V., assunte quelle informazioni che Le sarà agevole procurarsi al suo giungere in Buenos Aires, subito si adoperasse a scandagliare le disposizioni del Governo della Repubblica Argentina per ciò che potrebbe riguardare l’effettuazione da parte nostra del progetto sovra indicato. Le terre che da noi si potrebbero occupare a quest’effetto sarebbero scelte tra quelle interamente disabitate e sulle quali non si estende la sovranità effettiva di alcun Stato. Limitata allo scopo poc’anzi accennato, l’occupazione territoriale non avrebbe in vista lo stabilimento di una vasta colonia destinata ad acquistare una importanza politica: quindi è che come assolutamente prive di fondamento si dovrebbero ritenere le apprensioni che da quel nostro progetto potrebbero sorgere nelle repubbliche meridionali dell’America. Noi facciamo assegnamento particolare sulla sagacità della S.V. per tutto ciò che può agevolare il compimento di un disegno che, ove potesse attuarsi, riuscirebbe di molto vantaggioso al nostro paese. Ella vorrà pertanto, appena avrà raccolto le necessarie indicazioni, riferire al R..Governo il risultamento delle di Lei investigazioni”.

RIFIUTO DELL’ARGENTINA

Giunto in Argentina, il Ministro Della Croce, espletate le indagini di rito, in data 10 dicembre 1868 risponde con un lettera riservata, il cui contenuto non lascia dubbi in proposito: il progetto era destinato a naufragare perché il Ministro degli Esteri di quel paese aveva lasciato “chiaramente intendere” che il suo Governo vantava “diritti chiari e incontestabili” sul territorio patagonico e pertanto non avrebbe mai acconsentito allo stabilimento di una colonia straniera di deportazione su una terra che esso considerava sua a tutti gli effetti anche se sussisteva contesa col governo del Cile che a sua volta accampava diritti di sovranità territoriale: “Appena giunto a Buenos Aires mi sono immediatamente occupato della quistione che formava l’oggetto del dispaccio riservato dell’E.V. … Non ebbi difficoltà a conoscere che la Repubblica Argentina ha preteso in ogni tempo e pretende tuttora ad un assoluto diritto di neutralità sulle terre tutte di Patagonia al di là e al di qua dello stretto di Magellano. Ho pure saputo che alla foce del Rio Negro indicata da V.E. la sovranità di fatto della Repubblica è incontestabile esistendo colà al luogo appunto ove sorgeva l’antica missione del Carmen, un forte occupato da soldati argentini. Dopo questi ragguagli poca speranza mi rimaneva che ai disegni del governo Italiano potessero essere favorevoli gli animi di questi Governanti tanto suscettivi per ciò che si riferisce ai veri o pretesi loro diritti di sovranità. Non di meno ne parlai jeri al Ministro degli Affari Esteri. Questi mi confermò quanto ebbi l’onore di esporre piú sopra aggiungendomi che i diritti della Confederazione sulla Patagonia e sullo stretto di Magellano erano chiari e incontestabili, che il Governo Argentino aveva è vero una quistione pendente a questo riguardo colla Repubblica del Chili la quale aveva da varii anni fondato una colonia nello stretto summentovato, ma che egli non dubitava menomamente che sottoposto il litigio a qualsiasi arbitro la Repubblica Argentina ne uscirebbe vincitrice; che quanto al possesso o dominio di fatto la Repubblica intendeva di estenderlo ogni giorno maggiormente per respingere sempre piú le tribú indiane e mettere un termine alle loro incursioni, che a tale oggetto in questi giorni stessi si dovevano occupare nuovi punti verso il Sud. Sulla proposta poi del Governo Italiano che io gli feci in via di semplice e privata conversazione egli riservossi di conferirne col Presidente ma mi lasciò chiaramente intendere che il Governo Argentino non vi avrebbe aderito”.

TERRORE NELLE CALABRIE

Intanto negli stessi mesi il colonnello di Stato Maggiore Bernardino Milon ex alto ufficiale delle Due Sicilie divenuto camerata del generale Presidente Menabrea, in perfetta consonanza di intenti col governo “italiano” composto, come visto, da uomini “virtuosi” secondo le oblique vedute del Croce, spargeva terrore nelle Calabrie e ne riferiva al suo superiore generale Sacchi nei termini seguenti: “il mio arrivo qui ha prodotto terrore, e difatti ieri a notte in Sorbo quasi tutti gli abitanti dormirono in campagna per tema di essere da me arrestati” (Eugenio De Simone, ibidem, pag. 111), arresti a cui seguiva inesorabilmente, per tentata fuga, la fucilazione. Merita di essere qui riprodotto un manifesto terroristico di codesto colonnello, traditore del suo popolo:

COMANDO DELLA ZONA MILITARE DELLE CALABRIE CITRA ED ULTRA 2a

L’attuale stagione permettendo di attuare altre misure per la totale distruzione del brigantaggio, questo Comando determina quanto appresso:

1° – Tutte le mandrie, di qualunque specie esse siano, dovranno essere al piú presto concentrate;

2° – Tale concentramento dovrà essere per contrade;

3° – I posti armati delle varie mandrie, della medesima contrada, saranno tutti riuniti in punto centrale, intorno al quale sarà solo permesso di tenere i pagliai;

4° – Nelle ore del giorno le mandrie potranno liberamente pascolare entro il terreno della rispettiva contrada, ed è severamente proibito ai Mandriani, foresi o qualsiasi persona, che le custodiscono, di asportare seco, nelle ore del pascolo, pane od altri generi di vittitazione, dovendo tali generi essere custoditi presso il posto armato centrale, ove è solo permesso di consumarli. I posti armati saranno direttamente responsabili di ogni contravvenzione a tali disposizioni.

I Signori comandanti degli scompartimenti, Distaccamenti, RR. Carabinieri e Guardie Nazionali sorveglieranno per lo esatto adempimento delle suaccennate determinazioni, e questo comando punirà con inflessibile rigore tutti coloro che non vi si conformeranno strettamente.

Rossano, 30 Dicembre 1868.

Il Luogotenente Colonnello Comandante B. MILON

Erano gli stessi metodi terroristici che, esattamente sessanta anni prima, aveva inaugurato il Gauleiter di Napoleone, “re” Gioacchino Murat, nelle varie regioni del Reame, in particolare in Calabria, per mezzo del Manhès, per domare i tenaci insorgenti antifrancesi, già allora bollati come briganti (P. Colletta, Storia del Reame di Napoli, 7, XXVII) sí da far esclamare al Colletta, che gli teneva degnamente la mano: “Non vorrei essere stato il generale Manhès, e non vorrei che il generale Manhès non fosse stato nel regno negli anni 9 e 10”. Sicché fu, allora, sacrosanta vendetta della Calabria la fucilazione del tiranno giacobino a Pizzo, non volgare tradimento, come, con scarsa anima storica, vuole il magistrato Pietro D’Amico nel suo recente libro apologetico “Il re Gioacchino Murat” edito dalla casa editrice Monteleone di Vibo Valentia. Il D’Amico, nel poscritto al libro, ha perfino l’audacia di invitare la cittadinanza di Pizzo ad un atto di pubblica “resipiscenza”, elevare cioè un monumento al Murat, nella stessa piazza che lo vide, secondo codesto autore, “martire ed eroe”! (La Gazzetta del Sud, 3 maggio 2002, pag. 10)

TUNISIA: DEPORTIAMONE DIECIMILA

Lo stesso mese di dicembre 1868, da Firenze, il generale Presidente e Ministro degli Esteri Menabrea, sempre per il fine della costituzione di una colonia di deportazione in una terra remota, invia un dispaccio circostanziato all’Agente e Console Generale a Tunisi, Pinna. Viene concretizzato per la prima volta il numero di prigionieri duosiciliani, altissimo, da deportare: almeno diecimila. Nessun “tirannico” governo preunitario si era mai infangato in tal maniera: “Il governo del Re desidererebbe che la S.V. studiasse se vi sia modo di stabilire sul territorio della Tunisia una colonia penitenziaria italiana. Le condizioni che sarebbero richieste per fondare uno stabilimento di tal fatta sarebbero le seguenti:

1° trovare un territorio nelle condizioni volute di salubrità, fertilità ecc., il quale sia separato dalla costa abitata almeno di tanta estensione di deserto, quanta è necessaria perché uno o piú viandanti non possano traversarla, se non organizzati in carovana. Il territorio dovrebbe essere capace di almeno diecimila coloni.

2° ottenere dal Governo tunisino la Concessione per poter colonizzare quel territorio. La proprietà del medesimo dovrebbe essere ceduta al Governo Italiano mentre invece la sovranità rimarrebbe al Bey sufficiente alla tutela delle autorità che il Governo del Re invierebbe per esercitarvi la giurisdizione penale e civile sovra i suoi sudditi, ed ottenere inoltre che il Bardo consenta al governo del Re la facoltà di applicare le leggi penali del regno nella località sovrindicata.

3° entrare col Governo Tunisino in accordi per tutto quanto riguarda le particolari questioni riflettenti il transito dei coloni, la loro forzata dimora, i rapporti dei coloni stessi cogl’abitanti della reggenza, lo stabilimento di un’autorità tunisina nel territorio che si vorrebbe colonizzare ecc. Sembra che la presenza di un’autorità tunisina, almeno da principio, allontanerebbe il sospetto che in questo negoziato, che d’altronde vuol essere tenuto segretissimo, si asconda una cessione formale di territorio all’Italia.

4° ottenere dal Governo di Tunisi la facoltà di creare nella località prescelta un corpo di guardie

Fatte che Ella avrà le indagini necessarie, e prese le preliminari informazioni sulle disposizioni che si incontrerebbero, la prego Signor Commendatore, di volermi riferire l’esito delle pratiche ch’Ella avrà fatte” (D.D.I., 1a Serie, Vol. X).

IL BEY NON CI STA

Evidentemente la risposta del Bey era stata negativa, dato che il tema della deportazione “con ineluttabile necessità” veniva ereditato da un altro Ministero, quello del Lanza, in cui figurava come Ministro degli Esteri il Visconti Venosta, le cui parole hanno formato l’inizio della presente esposizione. Ma, ancora nel 1868, 10 agosto, in piena estate, prima che le mire del generale Presidente Menabrea si volgessero verso la Tunisia, altra idea – inviare una nave in esplorazione per il mondo – aveva preso corpo nella mente del diabolico savoiardo, ossessionato da furore antibrigantesco. Si era ormai convinto che i governi stranieri non avrebbero mai ceduto una fetta di territorio per quel fine abietto.

LO ZAMPINO DELLA MARINA

A tal fine si rivolge al Ministro della Marina, August Antoine Riboty, originario di Puget-Théniers, nel dipartimento di Nizza (Ufficio Storico Marina Militare, lettera riservata, n. 457): “Oggetto: colonia penitenziaria. è gran tempo che il Governo del Re riflette ai vantaggi che molti fra i rami della Pubblica Amministrazione, e segnatamente quello della punitiva giustizia, risentirebbero dalla possessione di un territorio oltremare, situato a ragguardevole distanza dalla madre patria, ove possa aver sede sicura e salubre una colonia penitenziaria. Né andrà molto che siffatto possesso diverrà pur anche un bisogno assoluto, quando cioè fosse introdotto il nuovo codice penale italiano, di cui già conoscesi il progetto, essendo in esso stabilita qual pena principale la deportazione. Gli sforzi fatti insino ad ora per scegliere una località conveniente all’oggetto indicato non riuscirono ad utile effetto. Il Ministero degli Affari Esteri che si occupò principalmente di questa bisogna, pose, in piú d’una circostanza, lo sguardo sopra diversi punti dell’uno o dell’altro emisfero, ma senza alcun frutto fin qui perché considerazioni politiche od altre di varia natura posero ostacolo all’attuazione dei concetti ideati prima d’ora a questo riguardo. E’ però necessario che si ponga mano, quanto piú presto sarà possibile, al compimento di un tale disegno. A questo scopo il provvedimento piú vantaggioso ad essere prescelto, sarebbe quello di un viaggio di speciale esplorazione, intrapreso da una nave della R. Marina, al cui comandante fossero impartite particolari istruzioni riflettenti l’oggetto, compilate di comune accordo fra i vari dicasteri piú particolarmente interessati in quell’argomento. Il sottoscritto crede suo debito di chiamare su questo punto tutta l’attenzione del Ministero della Marina. Egli è persuaso di non aver d’uopo di ricorre a piú estese argomentazioni in proposito, per trasfondere in esso il convincimento della necessità dell’indicata spedizione, e quindi dei concerti per ottenere che in tempo prossimo possa tradursi efficacemente in realtà. Starà quindi aspettando le comunicazioni che il Ministero della Marina vorrà essere compiacente di fargli a tale riguardo, assicurandogli dal canto suo tutto il concorso che possa essere in grado di prestargli”.

LA REGIA MARINA NON HA LA FLOTTA

Sennonché la Regia “Italiana” Marina, dopo la sonora batosta portata a casa da Lissa nel 1866, 20 di luglio, per merito del Persano, esisteva quasi solamente sulla carta. Là infatti il fior fiore del naviglio da guerra era stato affondato dall’Ammiraglio dell’Impero danubiano Wilhelm Tegetthoff che già due anni prima aveva dimostrato la sua grande perizia strategica distruggendo la flotta danese nel Kattegat. Sfortuna per il Menabrea volle che egli inviasse la sua nota al Riboty in ritardo rispetto alla partenza di una nave, la pirocorvetta Principessa Clotilde, di 2182 tonnellate, a vela e a vapore, lunga 66 m, dotata di 20 cannoni calibro 16, impostata da appena due anni (1866) in un cantiere di Genova dopo un lavoro di ben 5 anni, essendo stata impostata nel 1861, con quali soldi pagata non sappiamo o forse li sospettiamo. Due giorni dopo l’invio della richiesta, al Menabrea perviene fulminea, deludente, la risposta del Riboty (U.S.M.M., lett. n. 32300/2792). Egli è: “oltremodo dispiacente che le condizioni del bilancio della Marina gli vietino in modo assoluto di destinare una nave appositamente per la spedizione di cui è caso. Come è noto a codesto Ministero se gli avvenimenti ultimi del Giappone non avessero influito a dar ordine alla Principessa Clotilde di recarsi direttamente in quella contrada, al Comandante di tale R. Legno dovean darsi istruzioni nel senso che ponesse ogni cura alla ricerca di un sito per stabilirvi una colonia penitenziaria. Se pertanto codesto Ministero crede che fra qualche tempo la presenza della Principessa Clotilde nelle acque del Giappone non sarà piú necessaria alla protezione degli interessi nazionali, lo scrivente nel far proseguire al detto R. Legno il viaggio ch’era in progetto, sarà ben lieto di dargli istruzioni nel senso che in seguito ad accordo fra i vari dicasteri sarà stabilito per lo scopo che fanno oggetto della nota a cui si risponde”. Il dialogo tra i due Ministeri continua. Il generale Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri Menabrea, tenace fucilatore di Meridionali, con successiva lettera avente sempre per oggetto una colonia penitenziaria (U.S.M.M., 21 settembre 1868, prot. 490), preso atto delle condizioni del risicato bilancio della Marina, non è in grado di fornire una previsione circa il termine del viaggio di quella pirocorvetta nelle acque del Giappone perché: “la presenza di una forza navale italiana nell’Estremo Oriente, desiderata vivamente anche in addietro, ed oggidí resasi indispensabile ed urgente, può considerarsi siccome stabilmente necessaria anche per l’avvenire, affinché il prestigio del vessillo nazionale ed il sicuro sviluppo del nostro commercio con quelle regioni, possano rimanere inviolati. In vista di ciò ed in presenza dell’altro bisogno, pur rispettabile ed urgente, di cui è parola, la R. Amministrazione non potrebbe certamente esimersi dal fare in modo che si provegga ad entrambi quei fini senza reciproco danno, e possibilmente senza troppo ritardo per quanto riflette il nuovo proposto viaggio di esplorazione. Al sottoscritto parrebbe che la soluzione piú semplice di questo oggetto, possa trovarsi nel disporre in anticipazione una nave che vada a surrogare a suo tempo al Giappone la Principessa Clotilde, alla quale sarà pur necessario dare presto o tardi lo scambio, e nell’affidare in parte alla nave medesima nel recarsi a quella volta, ed in parte alla Principessa Clotilde nel ritornarsene, l’incarico di eseguire le ricerche che ora interessa di condurre ad effetto. Lo scrivente saprà grado [sic] al Ministero della Marina di fargli conoscere il proprio avviso a questo riguardo, indicandogli l’epoca in cui possa, nel caso, effettuarsi il divisato progetto, affinché vengano presi in tempo i necessari accordi circa l’importante missione di cui si tratta”.

IL PARLAMENTO NON DEVE SAPERE

Tre giorni, dopo 24 settembre, perviene sollecita la risposta del Riboty (prot. 37410/3260): la pirocorvetta dovrà rimanere nelle acque dell’estremo Oriente fin verso la fine del 1870 e per il 1869 “non fu portata sul bilancio la spesa d’una nave che vada a surrogare la medesima… dovendo per regola le navi stazionarie all’estero rimanere assenti almeno 3 anni, come usasi da tutte le nazioni marittime…e qualora si voglia eseguire [il viaggio di esplorazione] bisognerà chiedere un fondo suppletivo per questa missione al Parlamento, ma adottando questa proposta [il Ministero della Marina] prevede le difficoltà cui si avrebbero ad affrontare se mai la delicata quistione venisse ventilata nella Camera, che stima superfluo di enunciare a codesto Ministero”. La pulce messa nell’orecchio dal Riboty circa la “delicata quistione” induce il Menabrea a rifarsi vivo (U.S.M.M., 7 ottobre 1868, lettera riservata prot. 529). Egli è: “dolente…di scorgere come le condizioni del proprio bilancio e le norme adottate riguardo alle stazioni navali all’estero, gli impongano di rimandare sin verso la fine dell’anno 1870 il provvedimento proposto per la ricerca di una località adatta alla creazione tanto necessaria di una colonia penitenziaria italiana. Lo scrivente ammette senza difficoltà che la richiesta di fondi speciali al Parlamento per l’oggetto in discorso, presenterebbe gravi inconvenienti e pertanto, nell’impossibilità, a quanto sembra, di trovare pel momento un mezzo di esecuzione di quel progetto, deve suo malgrado limitarsi a raccomandare vivamente al Ministero della Marina di tenersi presente il progetto medesimo pel caso in cui si verifichi qualche straordinaria spedizione di navi in epoca per avventura piú vicina a quella della normale surrogazione dell’uno o dell’altro dei regi legni stazionarii all’estero affinché si possa, in termine fattibilmente poco lontano, provvedere all’urgente bisogno di cui è parola”.

SI RIPROVA NEL BORNEO

Dopo aver tentato a piú riprese, collezionando smacchi diplomatici, di ottenere un’isola portoghese del Pacifico, o un lembo di Mozambico o di Angola, l’isola di Socotra nell’Oceano Indiano, un angolo di costa dell’Eritrea sul Mar Rosso, un fazzoletto di terra nella sperduta Patagonia, un po’ di sabbia del deserto tunisino, l’occhio del Ministro degli Esteri si volge ancora al Pacifico, per la precisione a un’isola dei Sette Mari: Borneo. Gliene dà il destro la notizia che la pirocorvetta Principessa Clotilde si trova da quelle parti. Il 6 di gennaio 1869 quindi nuova iniziativa: il Menabrea, sempre ossessionato da patologia antimeridionale, decide di scrivere direttamente al comandante di quella nave, il capitano di fregata Carlo Alberto Racchia, torinese, futuro Senatore del Regno d’Italia (1/11/1892) e Ministro Segretario di Stato della Regia Marina (1892/1893), ma ne dà previa comunicazione al Riboty (U.S.M.M., prot. 14, Reg. Giappone) nei termini seguenti: “…L’importanza dell’argomento segnatamente per ciò che concerne la possibilità di formare uno stabilimento sulle coste di Borneo ha deciso il sottoscritto di scrivere direttamente al Comandante della Piro-corvetta Principessa Clotilde per avere dal medesimo una relazione ragguagliata delle condizioni del paese dove si potrebbe impiantare quello stabilimento. Sin d’ora, ed anche soltanto dietro le informazioni avute sembra che il R. governo dovrebbe frapporre il minor indugio possibile ad inviare a Borneo un legno della R. Marina per esaminare minutamente ogni cosa ed anche per entrare in trattative positive e concrete per l’acquisto del territorio che ci è necessario per lo stabilimento che è in animo del R. Governo di fondare. Se l’invio di altra nave dello Stato dovesse essere molto ritardato, converrebbe forse che la Principessa Clotilde ricevesse istruzione di recarsi di nuovo a Borneo allo scopo sopra indicato”.

AUMENTA IL NUMERO DEI PRIGIONIERI

E, senza frapporre indugio, lo stesso giorno il Menabrea scrive al Comandante Racchia rivelando, in quelle che sono per noi, pronipoti di eroici Briganti, le sante reliquie dei documenti, il numero dei prigionieri da deportare, numero che stavolta sale incredibilmente a quindicimila: “Dal Ministero della Marina mi vennero comunicate le osservazioni interessantissime che Ella ha fatto al suo passaggio a Borneo. Bramerei che quelle osservazioni fossero da Lei completate ed esposte in una relazione a questo Ministero circa la facilità che presenterebbe lo stabilimento di una colonia penitenziaria sulle coste di quell’isola. Il rapporto che io Le domando dovrebbe contenere una descrizione della località che si vorrebbe scegliere e ciò avuto riguardo tanto alle condizioni geografiche ed idrografiche, alla situazione politica attuale del territorio, alle sue condizioni economiche ed alle difficoltà che si dovrebbero vincere per istabilirsi e mantenersi. Lo stabilimento che l’Italia vorrebbe fondare dovrebbe essere capace di almeno dieci o quindicimila deportati e dovrebbe per la fertilità o per altre produzioni naturali del paese fornire alla numerosa colonia i necessari mezzi di sussistenza. Anche la quistione della salubrità del paese da scegliersi vuol essere tenuta in conto acciocché la deportazione non divenga pena piú grande ed inumana pel condannato a causa di mortalità deplorevole nei funzionari e nelle truppe destinate alla custodia dello stabilimento. Gradisca, Signor Comandante, i sensi della mia distinta considerazione”.

È IL TURNO DELLE ISOLE DELLA DANIMARCA

Un mese dopo, esattamente il 23 febbraio 1869, con lettera “urgente e riservata” (U.S.M.M., n. 2 del Reg. Danimarca), il Presidente Menabrea ricontatta il Ministro Riboty comunicandogli che fin dal 1848 la Danimarca aveva abbandonato le isole Nicobare situate nell’Oceano Indiano a nord dell’Indonesia di fronte alla penisola di Malacca. Come al solito anche qui si fece sentire la longa manus della superpotenza mondiale, la Gran Bretagna, che, come il Menabrea comunica al collega della Marina, “malgrado la dichiarazione di abbandono esitò di prendere possesso di quelle isole e stimò prudente di farsene cedere regolarmente il possesso dal Gabinetto di Copenaghen… [il quale] aderí a siffatto desiderio, mediante una dichiarazione del 2 dicembre 1868, non senza osservare, però, che codesta dichiarazione, fatta dopo una precedente dichiarazione d’abbandono, non avrebbe potuto pregiudicare il diritto di terzi che nel frattempo si fossero impossessati delle isole Nicobare come di res derelicta. Nel caso, dunque, che le esitazioni della Gran Bretagna si protraggano ancora, e nel caso soprattutto, che quelle isole fossero giudicate di conveniente e vantaggioso possesso, nulla osterebbe a che dal R. Governo di procedere [sic!] alla occupazione. Epperò il sottoscritto prega l’Onorevole Collega della Marina di voler considerare se alla Principessa Clotilde attualmente di Stazione al Giappone, si possa commettere l’incarico di visitare, nel piú breve termine possibile, le isole Nicobare, e di riferire al R. Governo intorno alla convenienza o meno di acquistarne col possesso il dominio”.

LA CONFERMA CHE I PRIGIONIERI SONO MIGLIAIA

Trascorso un altro mese, con scambi epistolari di poco o nessun valore ai fini del presente scritto, il Menabrea riscrive altra lettera al Ministro della Marina Riboty (U.S.M.M., 19 marzo 1869, lett. n. 7 del Reg. Danimarca), lettera da cui apprendiamo essere molte migliaia i detenuti politici rinchiusi nelle carceri della penisola: “… L’epoca fissata per il viaggio della Piro-corvetta Principessa Clotilde nei mari della Cina sembra a chi scrive molto lontana per un’esplorazione come sarebbe quella delle isole Nicobar e delle coste di Borneo ad uno scopo utile ed urgente quale sarebbe quello di trovare una località dove stabilire una colonia penitenziaria per le molte migliaia di condannati che popolano gli stabilimenti carcerari del regno. L’invio di una altra nave forse sarebbe stato il partito migliore da adottarsi se i fondi stanziati in bilancio per l’anno corrente lo avessero permesso… Se però il Ministero della Marina possedesse qualche suo uffiziale il quale avesse già visitato i paraggi dove sono situate le isole Nicobar, converrebbe forse lo interpellasse segretamente sulle vere condizioni di quelle terre e sulla maggiore o minore probabilità di riuscita che potrebbe avere uno stabilimento italiano che si volesse fondare in quella regione…”

INTERVENTO DELL’INGHILTERRA

Ma, quasi beffa a quel lungo lavorio sotterraneo, di cui il sedicente parlamento costituzionale italiano era tenuto pervicacemente all’oscuro, le informazioni, che quel Presidente bramava, erano a portata di mano in un libro pubblicato dalla Imperiale Marina Austriaca. Risponde infatti il Ministro della Marina con lettera riservata (U.S.M.M., prot. n. 684 del 23 marzo 1869): “Non v’ha alcun uffiziale nel caso di poter fornire al R. Governo dati precisi sulle isole Nicobar e meno ancora sull’opportunità di stabilirvi o non una colonia penitenziaria. Cotesto Ministero potrà però rilevarne notizie dettagliate dal 2° volume del viaggio intorno al Globo eseguito dalla Fregata austriaca NOVARA negli anni 1857-58-59 a pag. 100 ove la descrizione politica geografica in delle dette isole è degna di tutta fiducia, per l’esattezza e l’imparzialità con cui è redatta”. L’obiettivo delle Nicobare di lí a poco venne però a sfumare, perché nello stesso anno 1869 l’Inghilterra, per l’importanza strategica di quelle isole sullo stretto di Malacca, procedette alla loro occupazione, mettendosi cosí in grado di controllare tutto il traffico marittimo per la Cina, il Giappone, l’Indonesia e l’Australia.

ANCHE IN AUSTRALIA

Intanto il comandante della Principessa Clotilde si moveva con la sua fregata lungo le coste asiatiche dal Giappone a Bangkok, per sottoscrivere trattati diplomatici, tra cui uno con la Cina per “meglio regolare l’emigrazione dei coolies”, sulla quale emigrazione, in realtà tratta di schiavi, tempo prima ci aveva fatto il suo bel gruzzoletto anche colui che la retorica patriottarda ha trasformato in “eroe dei due mondi”. Ma con lettera riservata (U.S.M.M., 28 settembre 1869, prot. 44912/2476) il Ministro Riboty fa sapere al collega degli Esteri che, adempiute il comandante Racchia le missioni assegnategli, avrebbe potuto procedere all’esplorazione a Borneo e fino ad Est dell’Australia: “…Qualora l’esplorazione a Borneo e isole adiacenti al NE non dasse [sic] il risultato che si ripromette, l’unica altra zona interessante da esplorarsi con speranza di successo sarebbe quella all’Est dell’Australia…Urge avere una risposta poiché si correrebbe il rischio, aspettando, di far trascorrere nelle acque del Giappone alla Principessa Clotilde una parte del prossimo inverno, stagione preziosissima per recarsi nelle regioni tropicali ed eseguire la esplorazione di cui è stato incaricato il comandante di quel R. Legno”. L’affacciarsi sul Pacifico, dove già altri vantavano diritti di primogenitura, causava però sospetti e scontri diplomatici. L’Oceano sconfinato era appannaggio dell’Inghilterra, degli Stati Uniti, dell’Olanda, della Spagna, della Francia: trovare qualche terra non ancora colonizzata idonea alla deportazione risultava impresa alquanto difficile, se non impossibile. Quelle potenze ravvisavano, nell’intrusione del nuovo venuto, un fastidioso potenziale concorrente nella spartizione del bottino coloniale, anche se si presentava, almeno in linea di principio, in veste di agnello alieno da mire colonialiste. Conferma infatti Sergio Angelini (Il tentativo italiano per una colonia nel Borneo, 1870-1873, Rivista di Studi Politici Internazionali, n. 4, ott./dic. 1966, p. 527): “In realtà questo motivo della deportazione… non poteva essere considerato… fine a se stesso ma invece, sull’esempio di altrui esperienze, avrebbe dovuto significare il primo nucleo di una successiva piú vasta espansione coloniale”. Cosa che si verificherà puntualmente nel 1884 con l’acquisto della baia di Assab in Eritrea da parte della società di navigazione Rubattino, la stessa già in precedenza fornitrice della nave Cagliari al Pisacane e di due navi al Garibaldi per lo sbarco a Marsala.

RIPUGNANZA INGLESE

Il padrone primario del Pacifico restava in ogni caso l’Inghilterra, verso cui il governo italiano si mostrava molto ossequente se non addirittura servile. Sull’affare di Borneo, il Ministro Cadorna da Londra riferiva, dopo un incontro con Lord Granville, al Ministro degli Esteri Visconti Venosta in data 3 gennaio 1872 (D.D.I., 2a Serie, Vol. III, n. 282): “…il Governo Inglese, qualunque ne sia il motivo, non vede molto volontieri il nostro progetto di occupare una terra nei grandi lontani mari per farvi uno stabilimento di deportazione. Ma l’opposizione non fu finora per sua parte aperta, sibbene indiretta, fatta caso per caso, senza ragionamenti e motivi; soprattutto non fu mai ostensivamente basata sopra considerazioni politiche…[da] questa lunga conversazione traspare una non celata riluttanza al nostro progetto, appoggiata a ragioni insussistenti, e non applicabili al caso, le quali (dette da Lord Granville uomo molto fino, e di molta intelligenza) danno il diritto di credere, che i veri motivi di questa riluttanza non si vogliono dire, e che non si vuole perché ragionevolmente non si può. Ora tutto ciò mi conferma nella presunzione che le difficoltà non sono nel caso particolare di Borneo, e che nol furono negli altri casi consimili che l’hanno preceduto; ma che hanno base in una ragione politica di carattere generale…”. Dal rapporto emerge infine la parola (ripugnanza) che dà finalmente la misura della sporca, abietta, operazione che quel Ministro “virtuoso” era intenzionato a portare a compimento: “Se questo contegno di Lord Granville non fosse stato già preceduto da molti fatti che indicano la ripugnanza dell’intero Governo ai nostri progetti si potrebbe dubitare se il contegno di Lord Granville in questa circostanza possa considerarsi proveniente da un partito preso…”.

SOCOTRA NON SI TOCCA

Il 3 maggio 1872 giunge intanto da Londra al Ministro Visconti Venosta la risposta negativa dell’Inghilterra circa l’isola di Socotra di cui si è già detto (D.D.I., 2a Serie, Vol. III, n. 496). Il governo inglese, in previsione dell’apertura del canale di Suez, predisponeva i picchetti per il dominio del Mar Rosso, dominio che sarà poi completo con l’acquisizione del pacchetto di azioni del Canale di Suez ad opera del Ministro Disraeli. Riferisce infatti il Ministro Cadorna: “… intorno all’eventuale occupazione per parte nostra dell’Isola di Socotra…poiché essa [la risposta] è sfavorevole è da sperarsi che non sia per essere dello stesso tenore quella che sto ancora attendendo, e che ho già piú volte sollecitata relativa alla occupazione di una parte della costa dell’Isola di Borneo. Veramente per quest’ultima non potrebbero esservi gli ostacoli che hanno potuto ravvisarvi per Socotra la quale si trova sulla nuova linea di navigazione tra l’Europa e i possedimenti inglesi nelle Indie pel canale di Suez”.

1872: LA RESISTENZA CONTINUA

Intanto dal dispaccio 1136/348 datato Londra 11 settembre 1872 inviato dall’incaricato d’affari Maffei al Venosta apprendiamo “della recrudescenza del brigantaggio nelle nostre provincie meridionali” (D.D.I., 2a serie, Vol. IV, n. 117) su cui il Times aveva pubblicato “un articolo di fondo in cui, sebbene si esprima molta simpatia per il Governo Italiano, tuttavia non gli si risparmiano biasimi per non agire con piú energia per estirpare una piaga cosí grave”. Questa notizia è da tenere nella dovuta considerazione, perché dilata ancora di qualche anno il limite temporale di opposizione dei Duosiciliani al governo unitario, normalmente fissato dai cattedratici all’anno 1870. Sullo stesso argomento tornava il 10 aprile 1873 il Segretario Generale all’Interno, Cavallini, in una nota al Venosta (D.D.I., 2a Serie, Vol. IV, n. 453): “Da qualche mese si diffondono voci con qualche insistenza nella Sicilia e nelle Calabrie di prossimi movimenti insurrezionali”. Nel 1873 il Cadorna ha un ultimo incontro con Lord Granville. La lettera che ne riferisce gli esiti (D.D.I., 2a Serie, vol. IV, n. 271) è della massima importanza storica perché demolisce l’artificiosa, interessata, suddivisione storiografica in voga che vuole un brigantaggio politico fino al 1862/63 e un brigantaggio banditesco da quegli anni al 1870. Dalle parole di quel Ministro piemontese a Lord Granville emerge in tutta la sua unicità l’aspetto politico della resistenza duosiciliana, purtroppo acefala, all’invasore nordista e ai suoi collaborazionisti, iniziata nel 1860. Ne riportiamo le parti piú significative: “… La criminalità in Italia è diversissima nelle sue varie parti. Le parti in cui essa è poco soddisfacente son la Sicilia, il Napoletano, ed alcune provincie delle Romagne. Sebbene in questi luoghi siamo immensamente lontani dallo stato in cui i precedenti Governi ci lasciarono quelle provincie, quando i Tristany, ed i Borjés capitanavano bande di 300, e piú briganti, pure è deplorabilmente vero, che lo stato della sicurezza pubblica è lungi dall’esservi soddisfacente. Noi siamo deliberati di metter fine a qualunque costo a questo stato anormale, e di fare a tale scopo tutti i possibili sforzi. Per noi è questa non solo una questione del massimo interesse, politica, e quasi sociale, ma è questione di dovere, e di onore…Quale può essere il rimedio? La pena della morte? No. I gravi reati sono ancora frequenti. Il numero dei manutengoli che sono la vera base, ed il quartiere generale dei briganti, e senza la cui distruzione è impossibile la distruzione del brigantaggio, è assai grande. Piantare il patibolo ad ogni passo, ad ogni momento è cosa altrettanto impossibile!… Si dovrebbero fare delle carneficine… solo la deportazione, come pena, può, in Italia, essere applicata largamente, ed efficacemente; essa soltanto può reprimere la numerosa classe di manutengoli. I briganti… avvezzi a mettere la vita in pericolo, resi piú feroci dalla stessa lor vita, salgono spesso il patibolo stoicamente, cinicamente (esempio tristissimo per le popolazioni!). Invece la fantasia fervida, immaginosa di quelle popolazioni rende ad essi ed alle loro famiglie terribile la pena della deportazione. In Italia, e massime nel Mezzodí, ove è grande l’attaccamento alla terra, ed al proprio sangue, il pensiero di non vedere piú mai il suolo natale, la moglie, i figli, di passare, e di finire la vita in lontano ignoto paese, lontani da tutto, e da tutti, è pensiero che atterrisce. Non v’ha piú né speranza di grazia né di fuga, né di ajuto esterno. La pena della deportazione è per noi una vera necessità… Noi non abbiamo alcun pensiero di fare delle colonie; lo scopo che ci proponiamo è abbastanza giustificato dalle circostanze, perché ci si possa supporre una volontà che non abbiamo; vogliamo applicare un sistema penale. Non vogliamo neppure fare delle colonie penali; ma sibbene degli stabilimenti penali, un penitenziario lontano…l’effetto sui malfattori italiani, e sulle loro famiglie, e massimo per la parte meridionale d’Italia, sarebbe grandissimo”. Lord Granville ascoltò il lungo monologo senza batter ciglio, poi esclamò: “Non sarebbe egli meglio portare i malfattori italiani del Sud a scontare la pena nel Nord dell’Italia…?”. E il Cadorna: “Risposi, che ciò già si faceva da molto tempo…”.

ANCHE L’OLANDA SI OPPONE

Anche per l’insediamento nell’isola di Borneo il governo italiano conseguí dunque uno smacco diplomatico. Al diniego inglese si era sommata anche la tenace opposizione olandese, dato che l’Olanda ne possedeva quasi tutto il territorio, ma ne attendeva il riconoscimento britannico proprio in quegli anni. Il governo italiano però fin dal 1869, in previsione di altri smacchi diplomatici, aveva deciso di seguire strade non ortodosse per conseguire l’obiettivo deportazione: affidare a un privato il compito di ricercare una colonia nelle isole intorno alla Nuova Guinea per deportarvi almeno ventimila prigionieri (v. Guido Po). Fu incaricato un certo Giovanni Emilio Cerruti. Costui aveva firmato una convenzione col Sultano delle isole Batchiane, a nord della grande isola di Ceram. Quel Sultano concedeva il diritto di sovranità su alcune di quelle isole in cambio di un canone annuo in gilders olandesi. Lo stesso risultato il Cerruti conseguiva col Rajah delle isole Key e coi due Rajah delle Arú. Ma le ulteriori opposizioni britannica e olandese consigliarono al governo italiano di desistere definitivamente dall’impiantarsi da quelle parti. Agli schizofrenici fucilatori di Duosiciliani non rimaneva dunque che rimandare a tempi piú favorevoli (colonia di Eritrea) il compimento dei loro piani distruttivi della nazione duosiciliana che, per sopravvivere alle fucilazioni sommarie, ai lutti, alla pesantissima pressione fiscale, alle rapine, si era già incamminata sulla strada dell’emigrazione, cioè dell’autodeportazione, risolvendo cosí, senza rumore politico, il problema dello scienziato pazzo e dei suoi “fratelli.”

da: Due Sicilie periodico indipendente Anno VIII – Numero 1 – Gennaio / Febbraio 2003

fonte

http://www.brigantaggio.net/Brigantaggio/Storia/PulEtnica01.htm

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