Donizetti e Napoli di Enrico Fagnano
Donizetti ebbe un unico vero amico, il padre della moglie, e proprio in una lettera indirizzata a lui nel 1837 usò un’espressione incomprensibile: le mie cose vanno di bene in peggio. Voleva dire che la sua vita pubblica andava bene, perché passava da un successo all’altro, mentre la sua vita privata andava sempre peggio. Infatti il figlio che aveva a lungo desiderato, era morto pochi giorni dopo la nascita e in quel momento, mentre scriveva la lettera, stava molto male anche la moglie, Virginia, che non si sarebbe ripresa.
Il musicista bergamascosembra il personaggio di un romanzo tragico dell’Ottocento. Nato poverissimo, dovette superare mille difficoltà per riuscire ad affermarsi e inoltre sin da giovane fu costretto a lottare con una malattia sconosciuta che gli procurava febbri altissime e convulsioni. Si trattava probabilmente di una patologia ereditaria, dal momento che altri membri della famiglia soffrivano di disturbi simili. Un fratello, infatti, era ebete e una sorella morì per un attacco epilettico.
Anche la fine di Donizetti fu molto drammatica, infatti a soli 47 anni, qualche tempo dopo che si era trasferito a Parigi, la sua salute improvvisamente peggiorò e in breve, ridotto ad una vita poco più che vegetativa, fu costretto sulla sedia a rotelle. In questo stato sopravvisse quattro anni, fino a quando nel 1848 non si spense, poco dopo essere stato portato a Bergamo, dove era nato nel 1797. Il futuro compositore era figlio del portiere del Monte di Pietà e sin da ragazzino dimostrava straordinarie doti musicali. Per questo potette frequentare gratuitamente il conservatorio della sua città, che ogni anno accoglieva un giovane senza mezzi, ma meritevole.
Ad intuirne il valore fu proprio il direttore del conservatorio, il tedesco Simone Mayr, che era un autore di una certa importanza. Al termine degli studi gli fece fare un periodo di apprendistato nei teatri locali e poi nel 1822 lo mandò da Rossini, il quale era nato a Pesaro, ma si era stabilito a Napoli, vera capitale europea del melodramma, e qui dal 1816, cioè dall’età di 24 anni, lavorava alle dipendenze del famoso impresario Barbaja.
Il grande artista, che aveva avuto successo sin dalle primissime opere, era un mito vivente, invitato in tutti i salotti più importanti della capitale e ammirato da tutte le più belle donne del Regno. La vita mondana, però, richiede tempo e lui ne aveva sempre poco. Per questo l’arrivo di quel promettente musicista, già abbastanza esperto, per lui fu provvidenziale e il giorno stesso lo assunse, affidandogli l’allestimento dell’opera che stava mettendo in scena.
Quello delle donne a lungo fu un vero e proprio incubo per Donizetti che, si può dire, ne sentiva esclusivamente il profumo. Loro avevano occhi solo per il celebre maestro, che ad un certo punto scompariva, mentre a lui toccava rimanere in teatro e portare avanti la parte più dura del lavoro. Ovviamente doveva fare buon viso a cattivo gioco, ma gli pesava, anche perché tra i due c’erano appena cinque anni di differenza, e nelle lettere ai familiari spesso se ne lamentava.
Il pesarese, comunque, sapeva riconoscere il talento, comprese le qualità del suo assistente e fece di tutto per aiutarlo. Lo segnalò anche a Barbaja, che di fiuto, però, ne aveva già per conto suo e infatti non aspettò molto a metterlo sotto contratto. Il giovane compositore, che si impegnò a fornirgli ben quattro lavori all’anno, così finalmente trovò un certo benessere e potette iniziare ad aiutare i familiari, ai quali da quel momento garantì la tranquillità economica. Allo stesso tempo, però, trovò anche una ribalta prestigiosa, quella napoletana, che in breve lo consacrò tra i grandi del melodramma.
Nel 1824 Rossini, ad appena 32 anni, venne chiamato a Parigi nel consiglio di amministrazione del Theâtre Italien, di cui presto sarebbe diventato l’esponente più influente. Da alcuni anni Barbaja lo aveva nominato direttore di tutti i suoi teatri, cioè dei quattro lirici napoletani, San Carlo, Fiorentini, Nuovo e Fondo, che oggi si chiama Mercadante. Questo posto ora rimaneva libero e lui colse l’occasione per indicare come suo successore Donizetti, oramai apprezzatissimo nella nostra città. Barbaja non accettò il suggerimento, perché quell’incarico era molto oneroso e sapeva che l’autore della Gazza ladra riusciva a tenere a bada gli altri musicisti solo grazie alla sua forte personalità, unita all’enorme prestigio. Dopo qualche tempo, però, si convinse che anche l’artista bergamasco sarebbe stato all’altezza dell’impegno e gli chiese di assumere, oltre alla direzione del Nuovo, che già gli aveva affidato, anche quella degli altri tre lirici. Inutile dire che con questo incarico il suo potere nel mondo del melodramma napoletano cresceva enormemente e in proporzione crescevano anche i suoi guadagni.
Alcuni anni dopo essersi trasferito in Francia, Rossini compose un oratorio per la città di Bologna e chiese al suo vecchio assistente di dirigerlo, scrivendogli che sarebbe stato l’unico capace di interpretarlo nel modo giusto. Questo episodio fa comprendere quanto fosse profonda la stima che aveva per lui e in suo favore non smise mai di impegnarsi. Nel 1834, infatti, gli fece ottenere la prima scrittura francese e in seguito lo aiutò ad inserirsi nell’ambiente musicale parigino.
Ma procediamo con ordine e riprendiamo dal momento in cui Donizetti viene nominato direttore dei quattro lirici napoletani. Questa carica gli garantiva una grande disponibilità economica e così nel 1837 lasciò la casa in via Corsea, dove abitava dal giorno del suo matrimonio nel 1828, e ne comprò una, quasi principesca, in via Nardones. Il monolocale buio e umido di via De Cesare, dove aveva vissuto dal suo arrivo a Napoli nel 1822 fino al 1828, oramai non era che un lontano ricordo. Tra l’altro, dopo nove anni di matrimonio, la moglie stava finalmente portando a termine una gravidanza e il compositore, oramai affermato, voleva che il figlio nascesse in una casa all’altezza del suo prestigio. Sappiamo già come andarono le cose, ma qualcos’altro stava per succedere, che lo avrebbe ulteriormente amareggiato.
Nel 1836 era morto il direttore del conservatorio, Nicola Zingarelli, e lui, che vi insegnava da diversi anni, era sicuramente il più titolato a sostituirlo. C’era però un problema, l’istituto sin dalla fondazione nel 1806 aveva sempre avuto al suo vertice un napoletano. Non c’era una regola scritta che lo prevedeva, ma sembrava impossibile che così non fosse. Nel mondo musicale dell’epoca il direttore del nostro conservatorio per importanza era secondo solo a quello dell’Opera di Parigi. Si trattava, quindi, di una carica che garantiva un prestigio straordinario e i maggiori rappresentanti della città non avrebbero accettato che a ricoprirla fosse uno straniero. Donizetti, invece, lo era, perché non aveva avuto l’accortezza, o meglio la furbizia, di cambiare cittadinanza. Questo tra l’altro lo metteva in una situazione paradossale, infatti da noi ufficialmente non era napoletano, ma di fatto non veniva più considerato lombardo in Lombardia, dove veniva visto come un traditore e a lungo le sue opere furono boicottate. Ovviamente tutto questo non importava per nulla al popolo degli appassionati, per loro lui era napoletanissimo, lo adoravano letteralmente e più volte lo hanno portato in trionfo per le strade della città.
Tra gli ammiratori c’era anche Ferdinando II, che infatti intervenne, cercando di favorire la sua nomina. La raccomandazione del re, però, molto probabilmente fu controproducente. Il consiglio dell’istituto musicale, infatti, era composto da rappresentanti delle famiglie più titolate del regno ed era molto geloso della sua autonomia. Nessuno, comunque, sa come realmente siano andate le cose. Sta di fatto che in un primo momento Donizetti sembrava destinato ad essere il nuovo direttore del conservatorio, tant’è vero che la carica gli era stata affidata pro-tempore, ma alla fine la scelta ricadde su un altro.
Lui sentì di aver subito una profonda ingiustizia e per questo nel 1838 decise di lasciare Napoli e di trasferirsi a Parigi. Non chiuse definitivamente, però, i rapporti con la nostra città e infatti non vendette la casa di via Nardones, dove c’erano le cose che aveva più care al mondo, cioè quelle appartenute alla moglie, Virginia, e quelle appartenute al figlio, amato intensamente, sebbene fosse vissuto solo pochi giorni. Quindi, sembra chiaro, era sua intenzione tornare, magari reso ancora più celebre dai successi che avrebbe raccolto in Francia. Abbiamo già raccontato come invece andarono le cose.
Alla morte di Donizetti i suoi beni furono ereditati dai nipoti, che avevano studiato grazie a lui e lo amavano come un padre. Loro sapevano cosa rappresentava per il grande musicista quella casa. Per questo non ebbero il coraggio di venderla e addirittura lasciarono ogni cosa come l’avevano trovata. Furono gli eredi degli eredi, molti anni dopo, che la vendettero, con tutto quello che c’era dentro.
Enrico Fagnano
Un grande artista e una vita triste… ma quanto ha prodotto e ci ha lasciato!… per passione dell’arte anche se non sempre amato… caterina ossi