Donna, stai perdendo la femminilità! [Perché quest’accusa è più grave di quanto si creda]
L’accusa arriva sia da uomini sia da donne: una femmina troppo assertiva e determinata, che non desidera diventare madre oppure, se è madre, non si definisce solo in quel ruolo è in grave pericolo. Rischia di perdere la femminilità, di mascolinizzarsi, di essere meno donna.
Se non ami pulire la casa, comprare scarpe e trucchi, se ti interessano la matematica, la chimica e la politica internazionale rischi di perdere te stessa. L’accusa arriva ancora, nel 2017, nonostante la società sia cambiata e tantissime donne e ragazze non vedano matrimonio e maternità come obiettivi da raggiungere.
Qualcuno le definisce maschie, perché hanno scelto qualcosa di diverso da ciò che pare essere ancora oggi il loro destino. Un’espressione che fa il paio con quella di maschi-femmina creata da Massimo Gramellini per definire gli uomini che non si identificano con l’immagine dell’uomo rude, interessato a soldi, sesso e potere e anaffettivo con i figli, dunque “meno maschio”.
E se davvero si fosse più felici facendo solo le madri e occupandosi dei figli? Se fosse davvero una missione, in grado di cambiare la società? Ci provano in tante, ci ho provato anch’io quando l’insicurezza personale e il mondo del lavoro mi hanno spinta in questa direzione. Ma, come scriveva già Doris Lessing in Il taccuino d’oro nel 1962, quasi tutte le donne che rimangono a casa con i figli sviluppano un’insoddisfazione di cui si vergognano di parlare, e che Betty Friedan ha chiamato “il problema senza nome“.
“Le altre donne erano soddisfatte delle proprie vite, pensava lei. Che razza di donna era, se non sentiva questa misteriosa realizzazione mentre dava la cera al pavimento della cucina? Era talmente imbarazzata ad ammettere la propria insoddisfazione che non poteva sapere quante donne la condividevano. Se cercava di parlarne al marito, lui non capiva nemmeno di cosa stessa parlando. In realtà non lo capiva nemmeno lei stessa”, scriveva Friedan nel 1963 in La mistica della femminilità.
Un senso di soffocamento, di vuoto, di incompletezza, un’insoddisfazione che la maggior parte delle donne che cercano di identificarsi unicamente nel ruolo di madri prova ancora oggi, e che ancora oggi viene ignorato dalla società, e raccontato solo in alcuni casi dal teatro e dalla letteratura (è il caso di Post-Partum, monologo-inchiesta di Betta Cianchini, qui, ma si veda anche Pentirsi di essere madri. Sociologia di un tabù).
Eppure, ho la sensazione che “il problema senza nome” non valga solo per le donne madri, ma per tutte le donne. Come se ci fosse sempre una vocina che chiede se le scelte fatte erano quelle giuste, se non sarebbe stato meglio farne altre. Come se ogni volta che le donne riuscissero a fare un passo in avanti verso sé stesse, perdendo un po’ di vergogna e di insicurezza arrivasse qualcuno a instillare il seme del dubbio, a suggerire il pericolo della mascolinizzazione (vedi “Le donne non sono più quelle di una volta“).
Se valesse solo per le donne madri, tutte le altre donne si occuperebbero – al pari degli uomini – di ogni disciplina, di ogni ambito, e invece ancora oggi le donne che hanno un blog o un canale YouTube o una pagina Facebook si occupano quasi esclusivamente di trucchi, prova costume, home decor, cucina. Cose da donna, insomma. Legittimo (anch’io me ne sono occupata e ho scritto un libro sulla cosmesi), ma è strano che si occupino quasi solo di questo, che anche quando parlano di business parlino di business al femminile, di business per mamme. Come se fosse ancora vivo il timore di quell’accusa: “stai diventando maschile, ammorbidisciti, occupati di piccole cose, ricavati la tua nicchia”.
Ma l’insoddisfazione rimane, e sembra molto simile a quello che Friedan si domandava quasi sessant’anni fa: “Dunque c’è forse un altro desiderio, un’altra parte di sé che le donne hanno sepolto tanto in profondità quanto le donne vittoriane avevano sepolto il sesso?”
I giornali e i libri suggerivano già negli anni Cinquanta che “se si sente disperata, vuota, annoiata, prigioniera della routine domestica, rida. Non è divertente? Siamo tutte nella stessa trappola”. Ridere, acquistare qualcosa di nuovo, fare un altro figlio (come suggerisce Costanza Miriano). Purché non ti venga in mente di distruggerla quella trappola.
“È forse proprio questa corsa frenetica a indurre i redattori dei rotocalchi a considerare le donne semplicemente come compratrici? A tentare di svuotare i cervelli femminili da ogni pensiero?” è la domanda di Friedan. Viene in mente che forse la donna oggi può scegliere di avere figli o no, di convivere o vivere da sola, purché sia controllabile, etichettabile in una categoria sociale, in un tipo di consumatore prevedibile. Purché non pretenda altro, perché le abbiamo già concesso troppo.
di Maura Gancitano
fonte
tlon.it