Alta Terra di Lavoro

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Due Sicilie II e 1799

Posted by on Nov 9, 2019

Due Sicilie II e 1799

“La Repubblica Partenopea”: se non ci fossero di mezzo migliaia di morti, questo sarebbe potuto essere il titolo di un’opera buffa del San Carlo.
Che bei nomi di protagonisti! Abbiamo scelto quelli più famosi, come appunto si fa a teatro per ragioni di botteghino: Mario Pagano, Domenico Cirillo, Francesco Caracciolo e due prime donne, Luigia Sanfelice ed Eleonora de Fonseca Pimentel, ma che a Napoli ancora adesso tutti ricordano come Eleonora Pimentel Fonseca, e infatti suona meglio. ………

Oggi questi sono nomi di vie e di scuole; furono nomi di creature umane ingenue e passionali, orgogliose, vanitose, stupide ed eroiche, che si giocarono la vita per partecipare a questa breve rappresentazione. Non mancano i “cattivi”, i cui ruoli all’Opera vengono coperti da baritoni, bassi, mezzisoprani, contralti. Sono: Horatio Nelson, Emma Hamilton, Maria Carolina, la quale però canta solo nel finale e tra le quinte, insomma sta ancora a Palermo. Scegliamo il musicista. Ce ne sono due, fra i giacobini: Domenico Cimarosa e Giovanni Paisiello, specialisti appunto in opere buffe, commedie ridicolose.
Vediamo meglio i protagonisti, a mano a mano che vengono alla ribalta.
Mario Pagano è stato professore di diritto criminale all’università. Aveva il brutto vizio di difendere i cospiratori, quando venivano arrestati. Per cui, prima viene messo un po’ in carcere e poi spedito all’esilio. Discepolo di Vico, crede in un ordine fatale che determina gli avvenimenti storici. Infatti. L’ordine fatale lo ha fatto tornare a Napoli, dove diventa membro del governo provvisorio e si rovina.
Domenico Cirillo è un medico chirurgo, specialista nella cura della lue, quella malattia venerea che a Napoli si chiama “mal franzese” e in Francia “morbo napolitano”: E vabbé, mettiamoci d’accordo. Cirillo ha frequentato anche la reggia come medico di Corte. Gli accade quello che accade a parecchi, in questa avventura: uno che non si è mai occupato di politica, adesso le si dedica per pochi mesi, quel tanto che basta per essere impiccato.

Francesco Caracciolo. Sotto i Borbone ha fatto una bella carriera e se lo merita. Oggi comanda la Tancredi, di settantaquattro cannoni; l’importanza del capitano si misura dal numero di questi. Sempre fedele al re, il tarlo della gelosia comincia a rodergli l’anima. Quando Nelson appare all’orizzonte in un’aureola di gloria, a Napoli si comincia a parlare solo di lui. Quando il re fugge in Sicilia, preferisce salire su una nave straniera, quella di Nelson, anziché sulla sua. Il commodoro lo segue con la Sannita e sbarca a Palermo umiliato e offeso. “Commodoro” è una parola un po’ buffa, ma allora, in certe Marine, così si chiamava il capitano di vascello comandante di una divisione navale. Viene dal francese commandeur, comandante. In Sicilia Caracciolo lascia passare un po’ di tempo e poi chiede il permesso di tornare un momentino a Napoli per sistemare certe sue cose private. A Napoli viene accolto dai giacobini come un eroe e diventa lui il Nelson della Repubblica Partenopea, l’ammiraglio della piccola flotta repubblicana.
Luigia Sanfelice. Una come lei, a Napoli la si definisce “una scombinata”. Bella donna, avendo speso tutti i soldi del marito, più scombinato di lei, adesso spende i soldi degli amanti. Qui possiamo accennare a Vincenzo Cuoco. Non l’abbiamo messo fra i protagonisti perché nel finale non muore. È un avvocato che viene dal Molise. Anche lui non ha mai manifestato alcuna simpatia per i giacobini, anzi li ha sempre presi in giro per il loro fanatismo nel seguire le idee e perfino la moda dei rivoluzionari francesi. Come tutti i provinciali, corre sempre dietro alle sottane. Di solito sono le sottane che rovinano gli uomini, sarà lui invece a rovinare una sottana, quando comincerà a frequentare quella di Luigia.
Eleonora de Fonseca Pimentel. L’eroina dei giacobini la vediamo per la prima volta addirittura a Palazzo reale. Il re si è sposato ed Eleonora ha scritto un orribile Epitalamio in onore dei giovani sposi. Di sonetti, poi, ne farà uno per ogni figlio che nasce.

Ferdinando la nota, ma non come poetessa, ma per le sue grandi “zizze, minne, tette” (fate voi come chiamarle); un seno che, più del suo talento, le assicura subito un certo successo fra i letterati. E venuta da Roma, è di famiglia portoghese emigrata in Italia per ragioni non chiare, forse politiche. È ancora giovanissima quando la famiglia si trasferisce a Napoli, re Ferdinando è un bambino. Eleonora diventa Lionora, e così la chiameremo da adesso, anche lei vuol diventare napoletana in fretta, adora Napoli. Passano gli anni, Lionora entra in un gruppo di letterati, legge i suoi primi componimenti poetici nel salotto dei Serra di Cassano, a Monte di Dio, il promontorio dove alcuni millenni fa sorgeva l’antica città greca, Palepoli. Non è bella, ha un naso piuttosto grande, anche per quest’epoca in cui i nasi grandi ce l’hanno quasi tutti, a cominciare dal re. Ma ci sono quelle “zizze”, bianche, compatte, marmoree, prorompenti, irriducibili, che suscitano sguardi di cupidigia. E là che corre la mano del suo primo amorazzo, Luigi Primicerio, che però non ottiene altro, anche se quello che afferra non è poco. Ma in questo ambiente sono tutti giacobini e Lionora comincia a stringere quelle amicizie fatali che la perderanno o, se volete, la faranno passare alla Storia. Sono giacobini, alcuni dei quali, però, non disdegnano di frequentare la Corte, di cercare di ricavarne favori e riconoscimenti. Gli amici la invogliano a mandare qualcuno dei suoi sonetti al re. E Lionora scrive appunto il Tempio della Gloria, epitalamio nelle augustissime nozze di Ferdinando IV, Re delle Due Sicilie, con Maria Carolina arciduchessa d’Austria. Il componimento le frutta un invito alla reggia. Ma è solo gloria. E la famiglia, che si trova in cattive acque, la fa sposare con un ufficiale sulla quarantina, il conte Pasquale Tria, che le mangerà quel poco di dote che porta; quel solo figlio che le dà pensa il Signore a riprenderselo subito; dopo pochi anni il Signore si prenderà prematuramente anche il conte, chissà per che farsene.

E adesso vediamoci la rappresentazione. I francesi stanno arrivando. Mentre i giacobini napoletani si preparano ad accoglierli come fratelli, la regina prepara le casse con gli abiti e la biancheria e le manda sulla Vanguard, la nave di Nelson. È il 23 dicembre 1798 e tutte le navi della squadra reale sono condannate a essere date alle fiamme, poiché gli equipaggi si rifiutano di portarle in salvo in Sicilia, è Natale, dicono e vogliamo farlo a casa. Invece la Corte napoletana il Natale lo passa in mare, in mezzo a due giorni di tempesta. Onde come montagne, strilli di dame, ordini concitati, abbaiare furioso dei cani da caccia che re Ferdinando ha voluto portare con sé. Un morto, ma molto piccolo. È il principino Carlo Alberto, ma nessuno ci fa caso, tanto la regina ne farà un altro. A Napoli viene lasciato come reggente il generale Francesco Pignatelli Strongoli, da non confondere con l’altro Francesco più giovane, che invece vedremo fra i giacobini, insieme con i fratelli. Questo è un reggente che reggerà per poco, perché si sta già misurando i vestiti della moglie, scapperà a Palermo travestito da donna; il re lo riveste da uomo e lo manda in carcere a meditare sui cambiamenti di sesso.
Aspettando i francesi, i giacobini hanno espugnato il forte di Sant’Elmo e vi si vengono a chiudere con le famiglie per non rischiare di essere uccisi dai lazzari del re proprio adesso che arrivano i nostri, cioè il nemico. Sarà stata già pronta, perché sul punto più alto del forte è stata alzata la bandiera della Repubblica Partenopea: il tricolore giallo, rosso e blu. Lionora non perde tempo e scrive un’altra ode che, fortunatamente per noi, non ci è capitato di leggere. La legge lei nel cortile del forte, davanti al primo “Albero della libertà”. Fra poco tutti i napoletani faranno la conoscenza con questo nuovo tipo di pianta. Essi ignoravano che fosse un albero che i sanculotti piantavano nelle piazze principali in memoria della presa della Bastiglia. Pensavano a una specie di albero della cuccagna, ai quali specialmente i Borbone li avevano abituati. A differenza di quello, ben fornito di prosciutti, salami, caciocavalli, fiaschi di vino e polli vivi, che veniva assaltato quando si dava il segnale, si accorsero che sull’albero giacobino c’era, forse, la libertà, ma non era visibile e, in quanto al ben di Dio, neanche a parlarne.
Molti lazzari muoiono credendosi invulnerabili perché hanno legato alla fronte la figurina di san Gennaro o della Madonna del Carmine, su cui i francesi sparano tranquillamente, proprio perché sono di un’altra parrocchia.

Al contrario, una miracolosa conversione alla causa repubblicana si ha in piena battaglia. Il capolazzaro Michele ‘o pazzo ha combattuto con furore, finché non è stato fatto prigioniero. Due parole in tutto gli ha detto Championnet, che vuole guadagnarselo alla sua causa, e Michele, convintosi immediatamente, comincia a gridare: “Viva la Repubblica”. Ma questa è una strana battaglia. I francesi e i lazzari del re si affrontano per le strade, poi in buon accordo si danno al saccheggio, infine riprendono a combattersi. Frattanto nella reggia si installa un governo provvisorio, che non si potrà definire un governo fantoccio perché, al contrario della regola di tutte le invasioni, in cui un governo complice lo creano gli stessi occupanti, questo i francesi non lo riconoscono neppure, anche se a loro fa comodo. Infatti il generale Championnet può rivolgersi ai suoi rappresentanti per chiedere due milioni e mezzo di ducati.
I repubblicani, che frattanto sono stati sfrattati dalla reggia e si installano nel più austero Castel Nuovo, anziché affrontare subito i guai che non mancano, perdono tempo in sciocchezze. Come del resto facevano, in piena rivoluzione, i loro maestri di Parigi. Una fra tutte: il 18 floreale anno II la Convenzione discute per tutta la giornata per decretare che “il popolo francese crede nell’esistenza dell’Essere Supremo e nell’immortalità dell’anima”, così, per decreto. Più modestamente, i giacobini vesuviani decretano che tutti i cittadini che si chiamano Ferdinando debbono cambiare nome: sono centinaia di migliaia. Dalla sera alla mattina introducono il calendario rivoluzionario di Filippo Fabre d’Englantine, in cui neanche i francesi sono riusciti a capirci qualcosa. Invece è facile: il giorno è di dieci ore, l’ora è di cento minuti e ogni minuto è di cento secondi; il 22 settembre è Capodanno, i mesi sono: vendemmiaio, brumaio, frimaio, nevoso, piovoso, ventoso, germinale, floreale, pratile. “Ma adesso in che mese siamo?” chiedono i napoletani, pensando di essere a gennaio. “Siamo nel mese di piovoso, non vedete come piove?”
Tra parentesi: l’autore del calendario rivoluzionario poi finì ghigliottinato, ma per altre ragioni, anche se avremmo preferito proprio per il calendario in questione.
Championnet è un amico, rispetto al commissario Faypoult. Questi commissari seguivano le armate francesi per spogliare sistematicamente i paesi “liberati”. Oltre ai soldi, Faypoult vuole perfino le porcellane di Capodimonte e i reperti degli scavi di Pompei e di Ercolano, che dai tempi di re Carlo sono diventati un’immensa ricchezza, tesori invidiati da tutto il mondo civile. È lo stesso Championnet che lo caccia via, indignato. Ma, anziché dargli ragione, il Direttorio richiama a Parigi il generale, rinfacciandogli di non aver saputo spremere soldi, e lo sostituisce con il generale MacDonald. E Faypoult torna e ricomincia a razziare.
Intanto però, dalla punta della Calabria, sta venendo su il principe cardinale Fabrizio Ruffo, mezzo prelato e mezzo condottiero. La sua armata si chiama: “Esercito cristiano della Santa Fede”. È costituito da due tipi di armati: i patrioti che finito il saccheggio di una città conquistata se ne vanno a casa, e quelli che proseguono. A questo punto vediamo come entra in scena Luigia Sanfelice.

Vincenzo Baccher è un ricco mercante straniero trapiantato a Napoli. Uno dei suoi figli maschi, Gerardo, ex ufficiale della cavalleria del re, gioca a fare il cospiratore realista e sta preparando un’insurrezione, che deve coincidere con l’arrivo della flotta britannica. Purtroppo è uno degli amanti di Luigia. A letto si confida con lei e le dà addirittura una specie di tesserino, un salvacondotto per il giorno dell’azione. Luigia, quando entra nel letto di un altro amante, Ferdinando Ferri, tira fuori il tesserino, anzi glielo dà. Ferri ne parla con un terzo amante di Luigia che noi già conosciamo, Vincenzo Cuoco. Essendo un giacobino un po’ sospetto perché, come abbiamo detto, di conversione recente, l’amante Cuoco, anziché confidarsi con un ulteriore amante, va a spiattellare tutto al ministro di Polizia. Gerardo Baccher verrà condannato a morte e, poche ore prima del crollo della Repubblica, verrà fucilato in Castel Nuovo, con altri due fratelli, i quali non sono né amanti né cospiratori.
Luigia Sanfelice comincia a vivere così il suo breve ruolo di “Madre della Patria”, forse riuscendo a spillare un po’ di quattrini, se pure li trova, perfino dal governo provvisorio.
Lionora che fa? Scrive, tutto da sola, il giornale della Repubblica, il “Monitore napolitano”, di cui ogni giorno si venderanno un centinaio di copie e che durerà per trentacinque numeri. Peccato, perché è un giornale fatto bene, è pieno di false notizie, tutte a favore dei francesi. Insomma, giusto giusto come i giornali di adesso, solo che oggi parlano a favore di chi gli pare a loro. Ma nonostante la buona volontà di Lionora, per i francesi le cose si mettono male e il generale MacDonald deve preparare la ritirata, senza però insospettire i giacobini. Essi sanno che senza le truppe francesi sono perduti. MacDonald dirà che si ritira nelle piazzeforti di Caserta e di Capua perché i suoi soldati in città si infiacchiscono, la disciplina si allenta. In realtà risalirà la penisola verso Genova, avvicinandosi all’uscio di casa.
Comincia la fine. Rimasti soli, i repubblicani fingono di festeggiare la partenza dei francesi, inneggiando all’indipendenza della Repubblica. Ma poi perdono la testa e negli ultimi giorni instaurano, in piccolo, quel Terrore al quale era ricorso Robespierre quando aveva capito che la situazione gli sfuggiva di mano.
La bandiera bianca e rossa della Santa Fede si avvicina ormai alle prime case di Napoli. Poiché a Nola, alle bande di Ruffo, si è unita anche una compagnia degli alleati turchi sbarcati in Puglia, i napoletani allibiti vedono per la prima volta, accanto alla croce dell’armata cristiana, la mezzaluna musulmana.

I lazzari, che prima dell’entrata dei francesi hanno saccheggiato le case abbandonate dai realisti, adesso cominciano scrupolosamente a saccheggiare le case dei giacobini. Questi risalgono affannosamente le lunghissime scale del Petraio che portano al forte di Sant’Elmo. Altri vanno a rinchiudersi in Castel Nuovo o in Castel dell’Ovo. Contro quelli che non fanno a tempo a fuggire si scatena una reazione selvaggia, durante la quale dire che gli uomini si comportano come belve feroci significa ricorrere a un paragone indulgente. Al grido di “Viva ‘o Re, morte a li giacobbe”, si va avanti a scannare e a tagliare teste per alcuni giorni. Perfino il cardinale Ruffo, che pure ne aveva viste tante, e tante aveva fatto finta di non vedere, chiederà al re di potersi dimettere perché si sente “leggermente un po’ esaurito”.
In tutta questa tragedia, una nota spiritosa la mette il colonnello Méjean, comandante della piccola guarnigione francese rimasta a Sant’Elmo. Inconsueto esempio di un comandante sconfitto che, per arrendersi, bussa a quattrini, il colonnello, per andar via, chiede al cardinale Ruffo un milione di ducati. Il cardinale non sa se ridere o bestemmiare. Comunque Méjean riuscirà ad averne centocinquantamila.
Ruffo lotta con il tracotante Nelson per poter fare uscire dai castelli il maggior numero di repubblicani e farli imbarcare per Tolone sulle navi parlamentari che sono in rada. Ma Maria Carolina, con un vascello che va e viene da Palermo, manda a Emma Hamilton, sapendo che fa di Nelson quello che vuole, messaggi spietati perché nessuno sfugga alla giustizia del re, come chiama la sua vendetta. Anzi, fa un preciso riferimento a quelli che definisce “feroci scribacchini”, l’allusione alla redattrice del “Monitore napolitano” è chiara.
Nelson, che ha finto di aderire alla richiesta del cardinale, quando i deportati sono già a bordo delle navi, basandosi su un elenco che gli ha inviato la regina, ne fa prelevare un buon numero e ricondurre a terra. Il cardinale, appena lo sa, inutilmente gli scrive indignato “di non macchiare la sua gloria”.
Ricondotti nel carcere della Vicaria, i capi repubblicani vengono condannati come rei di stato e cominciano ad aspettare la Confraternita dei Bianchi della Giustizia, che li accompagnerà al supplizio.
Qualcuno è riuscito a fuggire: Ettore Carafa, Carlo Lauberg, Francesco, il più giovane dei Pignatelli; Vincenzo Cuoco resta in carcere e salverà la pelle, proprio lui che ha fatto il delatore. Si salva anche l’altro amante: Ferdinando Ferri. E l’amata?
Per rimandare la condanna a morte, Luigia Sanfelice, con la complicità di qualche levatrice, fece finta di essere incinta. Ma passavano i mesi e non se ne vedeva alcun segno esteriore. Chiunque, giacobino o realista, si chiedeva: ma perché non si fa mettere incinta per davvero? È una bella donna e un carceriere che voglia sacrificarsi lo trova. E chi può dire che non l’abbia tentato. Ma la “Madre della Patria”, alla Patria non riusciva a dare un fratellino. Cercarono di salvarla lo stesso. Addirittura un neonato che non ci entrava niente stava per rimetterci la pelle per lei. Perché re Ferdinando, che era andato a vedere un suo nipotino appena nato, figlio del principe ereditario, prendendo il fantolino in braccio gli trovò fra le fasce una supplica per graziare Luigia. Il re, impermalito, afferrò il neonato e lo sbatté nella culla, lui e la supplica.

I musicisti sono rimasti, ma non li possiamo impiccare. Paisiello è stato a Pietroburgo, Caterina II era una sua “patita”. Ha scritto La serva padrona, il Barbiere di Siviglia, Nina o la pazza per amore. Ha scritto anche il bellissimo inno nazionale del Regno delle Due Sicilie. Magari il Regno d’Italia ne avesse un giorno uno eguale, così la Marcia reale potrebbe essere una specie di musichetta per l’entrata delle scimmie ammaestrate nel circo equestre sul tipo: Benvenuti al Circo dei Savoiardi, sì, proprio come i biscotti.
E Domenico Cimarosa? Ma scherziamo, è stato anche lui a Pietroburgo, a Vienna il Matrimonio segreto l’imperatore ha voluto sentirlo da capo. E Le astuzie femminili? Anche lui ha scritto un inno, però per la Repubblica. Comincia così: “Su di un sovrano popolo / sovrano più non v’è. Al foco indegne immagini / itene ormai dei re”. Figuratevi il resto. Ci prova anche quando torna Ferdinando: “Maestà, datemi il vostro perdono e io vi scrivo una “Cantata d’omaggio”“ Ma Ferdinando non ci sta, la cantata d’omaggio adesso la scrivi a tua sorella.
L’ammiraglio Caracciolo, che aveva ormeggiato la sua nave sotto Castel Nuovo, è rimasto fino a ora nell’Arsenale. Per tentare di mettersi in salvo sceglie il giorno 17, che non gli porterà bene. Ingenuamente l’uomo di mare si traveste da contadino, rimanendo per dieci giorni in campagna a casa della madre. Ma Nelson, che era andato a Palermo per prendersi a bordo la sua adorata Emma, già stava navigando verso Napoli.
L’ammiraglio viene tirato fuori da un pozzo della casa materna, su delazione di un suo fedele servitore ma non tanto, e condotto sulla nave: Foudroyant, dove lo aspetta Nelson per un simulacro di processo. Dopo la sentenza viene condotto sulla sua nave, la Minerva, e alle cinque, ancora grottescamente vestito da contadino, viene impiccato all’albero di trinchetto. La dolce Emma non si volle perdere lo spettacolo, disse che da lontano non vedeva bene e andò a mettersi sotto bordo alla Minerva, in barchetta, a godersi la scena.
Tagliata la corda al calar del sole, l’ammiraglio fu fatto cadere in mare, una cosa pulita pulita. Aveva quarantasette anni.
Passarono parecchi giorni e una bella mattina l’ammiraglio Caracciolo si presentò sotto la Foudroyant mentre vi era affacciato il re. Gli avevano messo dei pesi attaccati ai piedi, prima di impiccarlo, per cui il cadavere rimaneva ritto a metà nell’acqua e sembrava proprio che venisse camminando a chiedere qualcosa. Allo spaventatissimo Ferdinando dissero che non voleva altro che cristiana sepoltura, al che il re tremando gliela concesse. E fu una saggia decisione, perché se fosse rimasto ancora un po’ nel golfo a farsi mangiare dai pesci, se lo sarebbero trovato a tavola, l’ammiraglio, nel fritto misto.
Gli altri si rivedranno tutti in piazza Mercato: Domenico Cirillo, che ha chiesto inutilmente la grazia al re, Mario Pagano, Francesco Conforti, Gabriele Manthoné, Giuseppe Logoteta, Vincenzo Russo, Ignazio Ciaja, non finivano mai.

Ettore Carafa d’Andria e Gennaro Serra di Cassano 

sono fortunati: poiché sono nobili non verranno impiccati, verranno decapitati, e infatti il risultato è praticamente lo stesso.

Anche la marchesa Eleonora de Fonseca Pimentel fa notare che è nobile, lei che non l’ha mai fatto, ma il suo ultimo desiderio non viene esaudito. Prima di penzolare dalla forca, disse qualcosa in latino. Era un verso di Virgilio, ma il boia – che non aveva fatto studi classici – pensò che stesse pregando e si fece il segno della croce.
Poi Eleonora la poetessa, fra le urla della plebaglia che la chiamava puttana, molto più probabilmente “soccola“, cominciò a dondolare nel vuoto. Attaccato con le mani alle sue caviglie, dondolava con lei un tragico acrobata. Era l’aiutante del boia che faceva il “tirapiedi”: aggiungendo il suo peso a quello dell’impiccato, ne abbreviava l’agonia. In fondo, era un benefattore, un sant’uomo.
Nel pieno di questo tragico carnevale, c’è la visita di un personaggio al quale dobbiamo riservare una certa attenzione: il generale Gioacchino Murat. Sappiamo che fu alloggiato nel bel palazzo Calabritto, all’angolo della Riviera di Chiaia, con guardia d’onore al portone. Ma non vide Ferdinando, né la regina. Ferdinando, che per qualche settimana se n’era stato al sicuro sulla Foudroyant, senza mai scendere a terra, se ne era tornato nella sua più sicura Palermo, lasciando a Caserta il principe ereditario. La regina invece era a Vienna, essendosi decisa finalmente a farsi operare di emorroidi, ma non si doveva sapere, perché una regina non le ha. Invece si riseppe, perché, curiosamente, mandò all’ambasciatore Gallo a Parigi, che aveva in grande stima e forse le emorroidi le aveva anche lui, due disegni che onestamente definì “indecenti”, nei quali era schizzata la situazione di prima e dopo il doloroso intervento. Purtroppo le due mappe anali andarono perdute per i posteri.
Ferdinando, senza poter immaginare che sarebbe stata levata contro di lui, mandò una spada con l’elsa tempestata di brillanti a quel visitatore che un giorno si sarebbe seduto sul suo trono sempre così traballante. Murat se ne tornò a Parigi schifato di Napoli e dei napoletani, mai pensando che fra pochi anni sarebbe diventato il loro re.


Dedico, questo capitolo, a tutti quelli che credettero nella difesa della propria Patria duosiciliana, morendo al grido di “Viva ‘o Re!“, briganti compresi: i migliori patrioti che rischiarono la loro vita in prima persona, davanti alla cieca e ottusa barbarie del criminale e vigliacco invasore. Gli ultimi, gli irriducibili, i veri uomini di questa grande storia d’Italia. Quella vera!

Ninni Raimondi

fonte https://lordninni.wordpress.com/2016/07/06/due-sicilie-ii/

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