Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Due Sicilie III di Lord Ninni

Posted by on Gen 14, 2022

Due Sicilie III di Lord Ninni

La mattina del 6 una salva di artiglieria da tutti i forti annunziò alla capitale l’arrivo di Sua Maestà. Alle tre Sua Eccellenza il Signor Maresciallo Perignon, tutti i Generali e Uffiziali Superiori della guarnigione si recarono all’ingresso della Strada Foria ove, col Corpo della Città, coll’Intendente di Napoli e col Commissario di Polizia attesero Sua Maestà.
Giunto il Re ivi alle cinque, e smontato dalla sua carrozza di viaggio, dal Signor Maresciallo Perignon, che facea corpo insieme con i membri della Municipalità, ricevè le chiavi della Città, che da Sua Maestà furono restituite a Sua Eccellenza perché ritornassero in mano de’ rappresentanti della sua buona e fedele Città di Napoli.


Sua Maestà montando allora a cavallo, accompagnato dal Maresciallo, dallo Stato Maggiore, da tutti i Generali e Uffiziali superiori, da’ suoi scudieri, preceduto e seguito dalla gendarmeria reale e dalla Guardia reale a cavallo e da immensa folla di popolo di ogni età, fece il suo solenne ingresso nella Capitale.
Con questo corteggio S.M. passò sotto l’arco di trionfo inalzato nella Piazza Mercatello ed in mezzo a vive e continue acclamazioni di un innumerevole popolo andiede direttamente alla Chiesa dello Spirito Santo, ove fu ricevuto da tutto il clero e da Sua Eminenza il Cardinal Firrao, grande elemosiniere. Condotta sul trono, S.M. assistè al gran solenne Te Deum cantato in rendimento di grazie all’Altissimo per sì fausto avvenimento. Terminata la sacra cerimonia S.M. rimontò a cavallo, e col medesimo corteggio attraversò la superba strada di Toledo. Fu questo il momento di uno spettacolo nuovo e veramente toccante. Il modo non direm gentile e affabile solo, ma tenero, affettuoso, senza ricerca con cui il Re corrispondeva, passando, al saluto universale de’ voti e de’ cuori, commosse tutti gli spettatori, che più di una volta videro attaccarsi la loro commozione evidentemente sul volto intenerito del Re.”
(da una cronaca del 7 settembre 1808)

Nostradamo conosceva “tutti i tempi”, cioè leggeva anche nel futuro. Un giorno scese dalla sua mula e si inginocchiò davanti a un fraticello. Molti passanti chiesero al “dottore” perché facesse questo. E Nostradamo rispose: “Piego il ginocchio davanti al Pontefice”. Quaranta anni dopo, quel fraticello, Felice Peretti, diventò pontefice con il nome di Sisto V.
Se Nostradamo una sera, mettiamo del 1782, fosse entrato in una modesta locanda di un piccolo villaggio della provincia basca, la Bastide Fortunière, probabilmente si sarebbe profondamente inchinato davanti al garzone quindicenne che gli stava portando un piatto di carne e una brocca di vino. E se Pietro Murat, il padrone, gli avesse chiesto sbalordito perché un gran signore come lui si inchinava in quel modo davanti a uno dei suoi sei figli, gli avrebbe potuto rispondere: “Mi inchino davanti al re di Napoli”.
Appena otto anni dopo l’impossibile incontro, quale deputato prescelto della Guardia nazionale, il garzone di stalla Gioacchino Murat è presente, a Parigi, alla Festa della Federazione, il 14 luglio 1790. Ma come ci è arrivato?
La fortuna di Gioacchino sta nel fatto di essere partito dalla stalla. Comincia a conoscere e amare i cavalli, li cavalca abilmente, senza sella. Osservando questa sua predilezione i genitori, così spesso infallibili nell’intuire la strada da far prendere ai propri figli, pensano bene di mandarlo a Tolosa, in seminario, notoriamente non frequentato dai cavalli. Ma a venire essi incontro a Gioacchino sono i cavalli dei Cacciatori delle Ardenne che passano da quelle parti per andare nella loro nuova guarnigione di Carcassonne. L’aitante seminarista fugge dal seminario, si arruola e, grazie sempre ai cavalli, diventa addirittura maresciallo d’alloggio. Ma è un maresciallo facile a imbizzarrirsi, appunto come un cavallo, e dopo un po’ è costretto ad andare in congedo. Questa volta neppure il padre lo vuole nella locanda, deve fare il commesso in una merceria. Ma serve un deputato della Guardia nazionale di bell’aspetto e il giovane merciaio, rivestito della sua divisa verde e bianca, può fare un’ottima figura. Prima di partire va a pavoneggiarsi sotto le finestre del suo primo amore, Mion, un’amichetta delle sue tre sorelle: Jaquette, Antonietta e Maddalena. Ma Mion non si fida di quel bellimbusto e non ne vorrà mai sapere. Capita così che Gioacchino Murat sia presente, a Parigi, alla Festa della Federazione.
È stata ideata e realizzata dal principe Charles-Maurice de Talleyrand-Perigord. Lo Champ-de-Mars è diventato un anfiteatro, grazie al lavoro di sterro di migliaia di parigini. È il primo “14 luglio” della Storia e ciò nonostante piove. Inzuppato d’acqua, Murat assiste alla messa di Talleyrand, ancora per un po’ vescovo d’Autun; un vescovo che non sa dir messa, deve fare la prova generale la sera precedente, in casa di monsieur de Saisseval, fra le empie sghignazzate dei presenti. Vide La Fayette, fece in tempo a vedere il re di Francia ancora con la testa sul collo. Non vide Napoleone, dovranno ancora passare cinque anni.
Il 14 aprile 1793 è già capitano del suo vecchio reggimento, il 12° Cacciatori a cavallo (“Il mio cavallo mi costa sessanta luigi” scrive al padre).
E finalmente giunge il giorno fatale in cui i due uomini, così uguali e così diversi, si incontrano, e da quel momento i loro destini proseguiranno paralleli fin quasi alla fine.
Il 13 vendemmiaio (5 ottobre 1795), quando i realisti si preparano a marciare contro la Convenzione, Barras si ricorda dell’ufficiale di artiglieria che, facendo fuoco su Tolone, apre la strada alle truppe repubblicane che la riconquistano. Bonaparte è a Parigi e Barras gli chiede di difendere la Convenzione.

Ma mancano i cannoni. Ve ne sono quaranta al campo di Grenelle, occorre la cavalleria per andare a prenderli, prima che vi piombino sopra i realisti. L’ufficiale di sicura fede giacobina che Napoleone ha richiesto è proprio Murat. Alla testa di trecento ussari – caricando con il solo frustino, come farà spesso in seguito in Egitto, in Austria, in Spagna, in Russia – Murat mette in fuga i realisti, appena sopravvenuti. Trasporta i cannoni, consegnandoli a Napoleone che li punta, con alzo zero, sulla folla che avanza, facendone polpette. Quando Bonaparte è nominato comandante in capo dell’Armata d’Italia, Murat è già il suo aiutante. Insieme cominceranno il saccheggio.

“Quanti errori non ha commesso Murat, per poter fissare il suo quartier generale in un castello in cui vi fossero donne. Gliene occorrevano tutti i giorni, particolarmente durante la ritirata di Russia” dirà Napoleone a Sant’Elena, ricordando il suo “magister equitum”.
Due delle mille donne sulle quali Murat ha appuntato lo sguardo sono state anche donne che gli appartenevano: Joséphine e Carolina. Murat ha cominciato a fare la corte a Joséphine, la quale non si era mai distinta per austerità. Amanti ne ha avuti prima – fra i quali l’oggi prezioso Barras – e amanti avrà dopo il matrimonio. Murat è proprio lo scaricatore di porto che piace a lei: alto, quadrato, capelli neri e ricci, naso grosso (buon segno di riposta virilità), labbra carnose, sempre odoroso di stalla. È il contrario di Napoleone: basso, gracile, olivastro, naso aquilino, capelli lisci e neri che comincia a perdere, fra poco li “riporterà” sulla fronte (il ciuffo napoleonico), molto nervoso, a letto spesso non fortiter in re, per dirla castamente in latino.
Anzi, a questo punto conviene aprire una parentesi per commentare un importante ritrovamento archeologico avvenuto recentemente.
Il pene di Napoleone
La notizia del ritrovamento del pene di Napoleone non è di quelle che non meritino un ampio risalto e un’approfondita analisi. Tra le reliquie, vere o false, che saltano fuori ogni tanto dal buio dei secoli, una reliquia simile, a nostra conoscenza, non era mai stata rinvenuta. E non si tratta di un pene qualsiasi, ma quello di un uomo che è stato, durante la sua vita e anche dopo, forse fino a oggi, un affascinante partner ideale da fantasia erotica. Che si tratti di un credito mal riposto lo confermano le stesse donne che di quel grande condottiero godettero le sbrigative attenzioni.
Che la stessa Joséphine de Beauharnais avesse serie riserve sulle prodezze coniugali del suo generale nell’intimità dell’alcova è documentato dal fatto che – nonostante l’avesse sposato già dal 9 marzo del 1796, raggiungendo soltanto a luglio l’impaziente sposino impegnato nella campagna d’Italia – si facesse prudentemente accompagnare dal suo ultimo amante in carica, l’ussaro Hippolyte Charles, affinché non le mancasse, nemmeno in carrozza, un pronto intervento per i suoi bisogni più intimi.
Si accontentò Maria Walewska, che viveva in forzata castità accanto al marito quasi ottuagenario. Anzi, proprio perché così avanti negli anni, non le fu difficile convincere il vecchio conte che, andando a letto con Napoleone, faceva un sacrificio per il bene della Polonia, sacrificio dal quale nacque un bambino.
Maria Luigia d’Austria si illuse, ritenendo suo marito anche un portentoso amante, e forse la ingannò il fatto che Napoleone, andatole incontro a Compiègne, se la portò immediatamente a letto prima ancora delle nozze. Ma fu un falso allarme, in seguito dovette anche lei ricorrere continuamente alle prestazioni di innumerevoli guardie del corpo, in tutti i sensi.
Abbiamo voluto dare un breve cenno sul valore intrinseco del residuato napoleonico per spiegare su quale scarsissimo esemplare si accanì il medico marsigliese di origine corsa Francesco Antonmarchi, l’ultimo dei tre medici che, con la loro scienza, fecero durare il soggiorno di Napoleone a Sant’Elena appena sei anni. Complimenti.
Soltanto adesso abbiamo saputo – il buon dottore non ne parla nelle sue Memorie – che l’Antonmarchi, morto il suo conterraneo, gli tagliò l’onore, non sappiamo se come estremo sfregio o per farne qualche suo lucroso commercio. E, dati i pessimi rapporti che intercorrevano tra lui e Bonaparte, non è da escludere del tutto che Hudson Lowe, il governatore di Sant’Elena – peraltro figlio di un maggiore chirurgo e quindi non del tutto inesperto – non si sia tagliato un paio di cosine anche lui.
Peccato che la notizia dell’esecrabile gesto non trapelò all’epoca, altrimenti Alessandro Manzoni, nella sua fortunata filastrocca: Cinque maggio, ne avrebbe certamente tratto spunto per qualche indimenticabile settenario. Adesso si parla di restituire il sacro pene alla Francia. Non si può immaginare spettacolo più suggestivo. Già quelle che, di certi personaggi, si chiamano “le spoglie mortali” vennero portate in processione fino al Palazzo degli Invalidi, al rientro da Sant’Elena, venti anni dopo. Ma allora il popolo di Parigi non era al corrente che la buonanima dell’imperatore tornava con qualche pezzo in meno. Forse, sapendolo, il corteo sarebbe passato fra commenti non sempre rispettosi. Questa volta il misero resto delle spoglie verrebbe accolto per le strade della capitale francese con frasi non certo ispirate alla pietà cristiana, bensì al ben noto spirito delle commedie da boulevard. Né sappiamo se l’attributo verrà unito nella stessa urna o, come fu fatto con il cuore, verrà custodito in una terza urna, bene in mostra ai visitatori: Bonaparte in tre parti.

Le più fertili pianure del mondo
Il saccheggio d’Italia. La Francia era alla fame. Non c’era altro da fare che cercare oltre confine. A portata di mano c’era la ricca Italia del Nord. Napoleone la conosce bene, l’Italia, e a suo modo la ama. Avrà occasione di dire: “Più che corso e francese, io mi sento italiano e toscano”.
La Corsica era stata venduta alla Francia da Genova nel 1769, il 15 maggio. Napoleone nacque nello stesso anno, esattamente tre mesi dopo. Quando venne deposto, dopo Waterloo, Louis Fontanes, che aveva sempre fatto parte del governo imperiale, lo definì “un uomo che non è neanche francese”. Se ne accorse soltanto allora.
La famiglia era originaria di Sarzana. Con i suoi fratelli imparò a leggere e scrivere in italiano, nella scuola parrocchiale dell’abate Recco.
Nel suo primo proclama alle truppe, il generale Bonaparte chiama quelle italiane “le più fertili pianure del mondo”. Ce n’è per tutti.
Dopo la battaglia di Mondovì (21 aprile 1796) Murat, il quale ha travolto i piemontesi trascinandosi dietro il 20° dragoni, si fa consegnare dal Consiglio municipale trentanovemilacinquecento razioni di pane biscottato, ottomila razioni di carne e quattromila bottiglie di vino. Nella Campagna d’Italia si comincia un nuovo tipo di sussistenza, sono i vinti che debbono rifornire i vincitori, l’armata d’Italia non costerà niente al Direttorio.
Firmando l’armistizio con il duca di Parma (9 maggio) si comincia a pensare anche alle necessità culturali: oltre a due milioni di lire, duemila buoi, millesettecento cavalli, diecimila quintali di grano e cinquemila di avena, Napoleone vuole scegliere venti quadri d’autore da portarsi via. Altri venti quadri li prenderà dal duca di Modena. Altri venti li vorrà da Venezia.
Dai milanesi, oltre ai soliti duemila cavalli, vuole quindicimila uniformi, cinquantamila giubbe, cinquantamila pantaloni e ventimila cappelli. E ovviamente venti quadri.
Murat è mandato a Parigi a portare una prima parte del bottino. Lo fanno subito generale. Fa a tempo a tornare in Italia per comandare la carica a Valeggio. Il 27 giugno va a occupare Livorno, svuotando i magazzini. Murat comanda la carica a Rivoli (11 gennaio 1797). Ai magistrati di Trieste Bonaparte scrive: “Rassicurate i vostri concittadini: l’esercito francese non fa la guerra ai popoli che si comportano bene”. Per comportarsi bene debbono pagare un contributo di tre milioni, “qualsiasi ritardo nel pagamento provocherà l’aumento di un terzo della somma prescritta”.
Al quartier generale di Milano, nel castello di Mombello, Napoleone e Giuseppina brindano al gruzzolo che già stanno mettendo da parte.
Murat sta a guardare, aspettando il suo turno.

La campagna d’Italia è per fare bottino, l’Egitto è per raggiungere rapidamente le vette della gloria. Vedremo che non sarà così.
Appena sbarcato ad Alessandria, Murat, alla testa di una modesta brigata di dragoni stanchi per la lunga traversata e scombussolati dal mal di mare, si trova davanti i migliori cavalieri dell’Impero ottomano, i famosi mamelucchi, giovanissimi guerrieri georgiani e circassi, armati delle terribili scimitarre che suscitano il terrore dei cavalieri e dei fanti francesi, che non se le sono mai trovate davanti. Specialista nel comandare le avanguardie, Murat questa volta deve seguire il grosso dell’Armata che marcia verso il Cairo, proteggendolo dagli improvvisi e feroci attacchi dei mamelucchi. Di loro si ricorderà certamente nella campagna di Russia, quando i cosacchi lo attaccheranno con la stessa tattica del mordi e fuggi.
Che Murat sia uno spietato esecutore di ordini se ne ha qualche idea proprio in Egitto.
Aboukir: nome famoso per la vittoria navale degli inglesi, che distruggono la flotta francese – si salvano con la fuga solo quattro o cinque vascelli – vittoria che costringe Napoleone a restare prigioniero delle sue conquiste. Ma Aboukir è famosa anche per una delle più crudeli stragi della Storia, se pure ci possa essere una strage meno crudele. Gli inglesi vi sbarcano diciottomila turchi, che prima vengono letteralmente schiacciati sulla sabbia dalle batterie di Bonaparte – grande artigliere con gli ottimi cannoni sistema Gribeauval – e poi maciullati da Murat in testa al 3° e 14° dragoni e al 7° ussari, la “carica dei seicento” francese. Dodicimila giannizzeri vengono ricacciati in mare. Murat cattura il loro comandante, Seid Mustafà, il quale fa in tempo a ferirlo al viso con un colpo di pistola. Murat ne esibirà con orgoglio la cicatrice per tutta la vita. Scrivendo al padre, pensa a che cosa ne diranno le donne:

Se in Europa qualche bella donna può, dopo un anno di assenza, avermi conservato il cuore sensibile, la natura della mia ferita deve terribilmente scoraggiare la sua costanza. Non allarmatevi, non impressionatevi: conservo ancora tutte le mie membra. Un turco si è gentilmente compiaciuto di attraversarmi il viso con un colpo di pistola. Ma mi assicurano che non sarò per niente sfigurato. Così dite dunque a queste belle, se ne esistono, che Murat, benché non più seducente come prima, non sarà tuttavia meno valido in amore.
Ospedale di Alessandria. 10 termidoro anno VII
(28 luglio 1799)

In un famoso quadro del pittore di regime Antoine-Jean Gros, è rievocata la scena di Napoleone che a Giaffa visita gli appestati. Ma i pittori “orientalisti” dell’Impero si guardarono bene dal dipingere un altro dei più odiosi macelli in cui si sarebbe potuto raffigurare anche il prode Murat. Sempre a Giaffa, milleduecento prigionieri turchi, scampati alla battaglia, vengono tenuti nel forte per due giorni. Ma c’è il problema, dopo quarantotto ore, di dar loro almeno qualche sorso d’acqua e una brodaglia da mettere nello stomaco. Ma per quanto tempo? Chi se li verrà a riprendere? Chi li potrà sorvegliare?
Il dilemma è risolto nel modo più semplice: divisi in plotoni, vengono di volta in volta accompagnati alla spiaggia e schierati sulla battigia. E per non sprecare munizioni, ché scarseggiano, con molta buona volontà vengono finiti a colpi di baionetta, tanto non sono neppure cristiani.
Ma adesso come si fa a seppellire tutta questa gente? Ne fanno delle grandi retate e li portano al largo, i pesci ci penseranno.

La ferita non si è ancora rimarginata quando, il 20 agosto, vengono in ospedale a prelevare Murat. C’è un’aria di grande mistero. Murat, ancora debole, già pensa che lo faranno rimontare a cavallo per chissà quale altra avventura. E una grande avventura lo aspetta, ma sul mare. Due vascelli sono pronti a partire per una destinazione segreta, il Muiron e il Carrère. Sul primo c’è Bonaparte e metà del suo seguito; sull’altro Murat e alcuni fra i migliori ufficiali francesi.
Soltanto in mare aperto sapranno che stanno veleggiando verso la Francia. Davanti a loro navigano due “avvisi”, rapidi battelli da ricognizione che debbono dare l’allarme in caso di cattivi incontri. Ma sulla piccola squadra brilla la stella di Bonaparte. Durante ben quarantacinque giorni di navigazione non una sola delle unità inglesi, che pure pullulano attorno alla Sicilia e nel basso Tirreno, avvista i legni francesi. Da lontano, attraverso il cannocchiale, Napoleone scorge la costa corsa, guarda verso Ajaccio da cui è partito la prima volta nell’inverno del 1778 per entrare a maggio nella scuola militare di Brienne, ad appena nove anni. Adesso sta per sbarcare di nuovo in Francia per diventare Primo console e, ma non se lo immagina neppure, addirittura imperatore. Il 9 ottobre sbarca a Fréjus.

Ninni Raimondo

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1 Comment

  1. Sembra di leggere un romanzo…e magari lo e’…o no? …Toglietemi il dubbio, se ci riuscite!. caterina ossi

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