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… e il Papa ordinò di distruggere Sonnino

Posted by on Apr 23, 2021

… e il Papa ordinò di distruggere Sonnino

Nel nostro paese il brigantaggio è esistito fin dai tempi più remoti. Già Silla, nel II secolo avanti Cristo, era stato costretto a varare la “lex Cornelia de sicariis” per debellare le torme di “latrones” che infestavano le regioni dell’Italia centro-meridionale.

Fu soprattutto nel corso dell’Ottocento, però, che il fenomeno esplose con incredibile virulenza. E non soltanto nei territori regnicoli ma anche nelle lande di Campagna e Marittima, la provincia pontificia facente capo a Frosinone. Qui, intorno al 1820, la situazione era diventata, a dir poco, esplosiva: numerose bande di briganti agivano indisturbate e scorrazzavano da un paese all’altro incuranti della reazione delle forze dell’ordine. Gasbarrone, Meo Varrone, Massaroni “il mancinello”, Finocchietto, Feudo, Tambucci “il matto”, capibanda assai potenti, temuti e rispettati, dominavano incontrastati su tutto il territorio. Le autorità papaline tentavano in tutti i modi di venire a capo della situazione e di ristabilire l’ordine pubblico. L’impresa, però, era ardua, ai limiti dell’impossibile. Si escogitarono, allora, nuove misure, si moltiplicò il numero dei gendarmi di stanza nei vari paesi, si studiarono strategie che oscillavano tra la repressione dura e la più blanda opera di persuasione. Il tutto, però, non produsse che miseri risultati. I briganti erano imprendibili, sfuggenti e, con il passare del tempo, diventavano sempre più audaci e temerari. Fino a che anche la curia papale perse la pazienza e decise di passare alle misure forti. A farne le spese fu soprattutto Sonnino, la “brigantopoli” di Marittima, la roccaforte dei briganti. Il cardinale Ercole Consalvi, Segretario di Stato, con un editto datato 18 luglio 1819, ordinava, niente di meno che, la totale distruzione del paese. Un provvedimento durissimo che finì per essere avallato anche dal pontefice Pio VII: in quelle zone, infatti, lo stato risultava assente e l’unica autorità riconosciuta dalla popolazione era quella dei briganti. Non era la prima volta che la Chiesa ricorreva ad un espediente siffatto: già nel 1649 la cittadina di Castro, nei pressi del lago di Bolsena, venne rasa al suolo per ordine di papa Innocenzo X: i ruderi furono arati e sul terreno versato del sale. Fu poi piantato un cippo con la scritta “Qui fu Castro”. Tutto ciò perché alcuni briganti del luogo avevano osato uccidere il legato pontificio. Nell’estate del 1819 la storia tornò a ripetersi. L’editto Consalvi imponeva ai cittadini di Sonnino di abbandonare il paese e di trasferirsi in altre località. “…gli abitanti di Sonnino siano provvisti altrove di abitazioni, la città sia distrutta e il suo territorio diviso tra quelli delle città viciniori non sospettate di recar soccorso ai fuorilegge”. Del territorio sonninese si sarebbero appropriate Priverno e Terracina. L’abbattimento delle case doveva essere eseguito entro trenta giorni dalla pubblicazione dell’editto. L’operazione, effettivamente, iniziò nei mesi di settembre e di ottobre. Si cominciò dalle case dei briganti i cui familiari furono fatti sgomberare e sistemati nei paesi vicini: ad ogni nucleo rimosso venne concesso un appannaggio che poteva arrivare anche a 300 scudi. In tutto vennero abbattute 39 abitazioni. Poi, per fortuna, prevalse la ragionevolezza e la demolizione fu interrotta. Anche perché la sola distruzione di Sonnino non avrebbe di certo risolto il problema: considerata, infatti, la notevole diffusione del brigantaggio in tutti i paesi della provincia, un provvedimento di tal guisa avrebbe rischiato di peggiorare ancor di più la già di per sé critica situazione. E così, grazie anche all’intervento di persone autorevoli, in primis don Gaspare del Bufalo che in quel frangente molto si adoperò presso il pontefice per ottenere la revoca del provvedimento, l’opera di distruzione fu interrotta e non più ripresa. E così, mentre le autorità papaline giocavano a fare i “dinamitardi”, i briganti continuarono ad imperversare indisturbati o quasi. Le misure forti non erano certamente le più adatte a risolvere un problema atavico che, al di là dell’aspetto delinquenziale, affondava le sue radici più profonde nella realtà sociale ed economica di uno stato antiquato, povero, depresso e, soprattutto, restio a percorrere la strada dell’ammodernamento. Non a caso l’instancabile predicazione di don Gaspare del Bufalo e dei missionari del Preziosissimo Sangue riuscì ad ottenere, in quel particolare contesto, risultati molto più proficui di qualsiasi attività di repressione. Molti furono i briganti che deposero lo schioppo e si consegnarono spontaneamente alle autorità di polizia. Furono aperte, poi, “case di missioni” a Terracina,  Sermoneta e Sonnino, punti nevralgici del territorio: lo scopo era quello di rompere, attraverso una capillare opera di evangelizzazione, il rapporto di solidarietà e di connivenza che legava la popolazione locale ai briganti. Messe da parte le azioni di forza, dunque, si provava a spegnere il brigantaggio con l’attività missionaria, attraverso un “terremoto spirituale”, come diceva San Gaspare. All’inizio la nuova strategia sembrò pagare. Poi, però, anche per l’ostracismo delle alte sfere pontificie (dopo qualche anno le case di missione furono chiuse), tutto tornò, più o meno, come prima. Soltanto dopo il 1870, con la dissoluzione del potere temporale della Chiesa, sul brigantaggio si poté scrivere la parola fine.

Fernando Riccardi

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