Emigrazione scolastica
Ad ogni nuovo inizio d’anno scolastico molti bambini del Sud si preparano ad emigrare in massa con i loro pensieri verso il Nord, verso Milano, Brescia, Bologna, Firenze. Le loro prime letture iniziano infatti da lì; i paesaggi del Nord fanno da sfondo alle loro lezioni, e così gli alunni iniziano il loro primo “viaggio della speranza”. A noi del Sud hanno insegnato infatti che si viaggia solo per bisogno, per lavoro, o per chiedere il miracolo a qualche santone della medicina o qualche santo vero.
E dire che di chiese e di santi, nel Sud, ne abbiamo da vendere: ma come può un popolo, al quale è stato inculcato di non valere niente, pensare che i propri santi riescano a fare miracoli? Padre Pio? Questo è il miracolo! Fare capire che un uomo, anche se del Sud, può fare miracoli. Ma come può un solo povero frate
affrontare la tracotanza di tanti santuari sparsi per il mondo? Pareggiare il bilancio commerciale trascendentale, che incide eccome nella bilancia dei pagamenti? Eppure tutti gli uomini del Sud fanno miracoli, anche se non soprannaturali. Per sopravvivere.
Vi ricordate voi delle vostre prime lezioni? Io sì. Ricordo che un giorno il mio insegnante di quinta era uscito dalla classe. Ci stava raccontando della sua Italia, delle sue città italiane, dei posti che aveva visto. Aveva anche raccontato che Nino Bixio pernottò nel palazzo dove lui abitava. Non credo che sapesse di alcuni atti efferati compiuti da Bixio durante l’occupazione del Regno di Sicilia. Era impregnato della cultura scolastica standardizzata, quella dei libri stampati a Brescia, e ce la tramandava. Io ero seduto in fondo alla classe, ed alla parete era appesa la carta geografica d’Italia. Durante un momento d’assenza del maestro, mi girai e iniziai la mia emigrazione. Non ricordo quanto sia durato il mio primo viaggio da emigrato. Forse fu il silenzio a riportarmi a casa. Mi girai e trovai il maestro che mi guardava e con lui tutti i miei compagni. “Hai fatto un bel viaggio? Ci racconti dove sei stato?”. Ci fu una grande risata. Loro non capivano. Forse non erano stati attenti alle lezioni e non erano ancora pronti ad emigrare. Avevo visitato i luoghi delle nostre letture per immaginare dove sarei andato a finire da emigrato. Il maestro prese al volo l’occasione, andò alla carta geografica e fece fare a tutti il primo viaggio immaginario. Ci chiese con che mezzo volessimo viaggiare e ci fece girare con i ricordi dei suoi viaggi, intercalati da incontri con ex-alunni divenuti personaggi importanti, perché solo al Nord si riesce a diventare qualcuno. Dopotutto, questo mio maestro è stato per me il migliore. È lui che mi ha dato l’idea, ora che vivo in Germania, di insegnare a scrivere in Italiano ai figli degli emigranti, che parlano solo tedesco. Non è facile scrivere. Scrivere di sé è un po’ come spogliarsi, e per spogliarsi ci vuole l’ambiente adatto, bisogna sentirsi “bene”. Poi occorre superare dei tabù. Il primo tabù è che bisogna dire sempre la verità, come se la verità fosse unica e sola. Quando si incomincia a fare capire che ognuno di noi ha le sue verità, che usa come meglio gli pare ed a suo comodo, il tabù incomincia a vacillare. All’inizio incominciano a scrivere:
“Questo corso di Italiano per me è una tortura: io non ci verrei proprio, ma mia madre mi costringe e così devo venire. Soprattutto non ci verrei perché dobbiamo scrivere ogni volta delle storie e io non cosa scrivere e poi mi fa male la mano!
Ma che pazzo è ‘sto maestro Tizza, che non si accontenta mai e che vuole farci diventare tutti giornalisti?…” Eppure, così cominciano a sognare e i sogni portano le storie: ne avranno scritte ormai già migliaia e ne sono contenti. Il mio maestro Giuseppe Adamo sarebbe contento: lui non aveva figli e noi alunni eravamo gli eredi della sua cultura, della benevolenza che quel giorno ci trasmise nel farci rivivere quel suo viaggio. Anche il suo nome, Giuseppe (come il mio), e il suo cognome Adamo erano per me tutto un programma. Sarà stata la mia immaginazione, ma credo che in lui rivivesse l’antichissima storia di Dio che lo crea e che da lui fa derivare tutto. Ma quello che più ricordo è il sapere che lui tramandava “ad arte”. Un giorno ci fece andare a casa sua e ci fece visitare gran parte del palazzo patrizio dove abitava con sua moglie e una serva tuttofare; ricordo la cucina con i suoi ottoni tutti luccicanti, come non avevo visto mai, nelle cui stanze immaginavo quella storica visita di Bixio, senza conoscere ancora la vera storia del personaggio, ma soprattutto le conseguenze nella vita mia e del paese di quella visita. Questo viaggio rimase l’unica esperienza extrascolastica nella scuola elementare. Ce ne fu un’altra che avrebbe dovuto avere luogo, ma che rimase solo nella fantasia del nostro maestro. Un giorno ci portò degli assi di legno molto lunghi. Nella sua fantasia li vedeva montati in un aliante, che lui avrebbe tirato con la sua auto per la discesa della collina su cui si trova il paese e, con dentro il più coraggioso di noi, fino ad atterrare nella pianura sottostante. Un modo di dire di noi meridionali è “Sunu tuttu cori!” (Che cosa non ha insegnato a noi il libro “Cuore”!) che spesso usiamo quando siamo con i nostri corregionali. Ma molto spesso si dice anche: “E cche un ci nn’avi ficutu?” “‘nchia! Possibili chi nunn’avi curaggiu!” Ecco, nella mia paura mi sentivo già un pilota. Immaginavo Chiana, che tutti i Niscemesi hanno visto guardando sempre e solo dal belvedere, da un’altra prospettiva. Nella mia fantasia mettevo le ali per andare chissà dove! Ma non avrei mai immaginato di vivere qui dove mi trovo adesso. Non riuscivo a vedere oltre la siepe del giorno dopo. La Sicilia, che nel corso dei secoli ha ricevuto popoli provenienti da tutte le parti della terra, rende al mondo i suoi personaggi.
Prof. Giuseppe Tizza
Membro della Consulta Comunale Stranieri
Düsseldorf – Capitale del Nordreno-Vestfalia
fonte
http://www.adsic.it/2003/06/13/emigrazione-scolastica/#more-131
È stato più commovente del deamicisiano “Dagli Appennini alle Ande”. Grazie, Egregio Professore.