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Enrico Annibale Butti, l’Ibsen italiano

Posted by on Feb 26, 2022

Enrico Annibale Butti, l’Ibsen italiano

 

L’anno scorso è stato il centenario de La figlia di Iorio, il dramma più noto di Gabriele d’Annunzio, ricordato con qualche convegno e messa in scena. Nessuno ha invece ricordato che nello stesso 1904 la medesima compagnia Talli-Gramatica-Calabresi che aveva dato vita ai personaggi del pastore Aligi e di Mila di Codra, aveva anche portato al successo Fiamme nell’ombra, il capolavoro drammaturgico di Enrico Annibale Butti, scrittore allora apprezzato e discusso alla pari del Vate ed oggi nulla più che una breve voce nelle enciclopedie.

Eppure ai suoi tempi Enrico Annibale Butti (Milano, 1868-1912) fu una personalità di spicco, un autore di successo, un drammaturgo che faceva parlare di sé, nel bene e nel male. F. T. Marinetti, che di Butti fu amico grazie anche alla comune ammirazione per Wagner, in una pagina del suo sintetico diario esalta Milano e il suo «ambiente di spiritualità avveniristica e cortese dominato dal romanziere drammaturgo E. A. Butti».

Butti fu eterogeneo: scrisse romanzi (L’automa, L’anima, L’incantesimo), racconti (tra cui il bellissimo L’immorale, dagli echi dostoevskiani, recentemente riedito dalla Pellegrini Editrice di Cosenza, p. 70, € 15, tel. 0984.795065) e poesie; si distinse anche come giornalista, critico ed autore di un soggetto cinematografico, ma la sua costante passione rimase quella teatrale: per la scena produsse infatti oltre venti drammi ed una commedia musicale. In particolare cercò di utilizzare la scrittura drammatica quale strumento privilegiato per la propaganda delle idee, essendo il teatro capace di raggiungere un pubblico più eterogeneo di quanto non potesse la produzione libraria: ecco perché nei suoi lavori troviamo una critica serrata e mai fine a se stessa della società contemporanea.

Dopo studi di matematica e di legge, decise di dedicarsi all’arte, aggiungendosi il nome di Annibale per distinguersi dall’omonimo scultore e rappresentò, con solenne insuccesso, un paio di commediole di fronte a studenti universitari. Poi, a ventiquattro anni, riuscì a raggiungere, con Il frutto amaro, un “vero” palcoscenico a Milano. Ma l’accoglienza che gli riservò il pubblico milanese a non fu dissimile da quella dei precedenti lavori. Erano i tempi della commedia borghese, Di Giacomo rappresentava i suoi ben costruiti drammi popolari, Praga aveva da poco messo sulla scena la sua Moglie ideale e il tentativo di Butti di rappresentare i frutti amari di certa educazione liberale, non scevro da una vena di perbenismo vittoriano, non riuscì a far breccia nel favore del pubblico. Come pure un insuccesso fu Il vortice, dramma dal finale – inaspettatamente per il 1892 – che rimane in sospeso: nessun dubbio che il pubblico abbia fischiato, essendo del tutto impreparato a questa modernità che addirittura anticipa certi dubbi pirandelliani (lo scrittore siciliano iniziò a produrre nel decennio successivo).

Butti preferì allora lasciare momentaneamente il teatro: collaborò a giornali, pubblicò romanzi e racconti, raggiungendo così una certa fama. Quindi decise di affrontare nuovamente le scene, questa volta affidandosi ad una compagnia prestigiosa (la Di Lorenzo-Andò, che annoverava tra le sue file anche una giovanissima Emma Gramatica): il successo giunse senza troppe palpitazioni, nel 1897, con La fine di un’ideale. Dramma borghese, ma moderno, che ruota intorno a una sorta di donna-manager (dirige una filanda a Lecco, ma è assai diversa dalla timida Lucia Mondella) molto sicura di sé nell’ambito lavorativo, ma del tutto incapace di tenere testa all’ex amante, che rivuole il figlio da lei avuto anni addietro. In questo lavoro Butti riprende un tema che rimarrà costante nella sua produzione futura: la disillusione degli ideali, dei sentimenti, degli affetti. La fama giunge definitiva con la trilogia Gli atei (La corsa al piacere, Lucifero e Una tempesta).

In particolare Lucifero è ancor oggi uno dei pochissimi drammi italiani che affronti con attenzione la problematica della religiosità: la fede, il rapporto tra credenti e non credenti e soprattutto l’educazione – quest’ultimo uno dei punti fondamentali dell’opera buttiana.

Nel 1904, come accennato, Butti produce il suo dramma migliore: Fiamme nell’ombra. In tre atti viene esposto il dramma del parroco don Antonio Giustieri e di sua sorella, la chiacchierata e malata Elisabetta, che egli riprende in casa nonostante i pettegolezzi che potrebbero precludergli la nomina a vescovo. La giovane riesce a risollevarsi, anche grazie alle attenzioni del figlio del suo primo amante, ma appena si accorge di aspettare un bambino viene abbandonata. Don Antonio ha intanto nuovamente perduto la possibilità di divenire vescovo e decide di chiedere il trasferimento in una qualche frazione montana, dove rimanere con la sorella ed il nascituro, lontano dalle ambizioni e dai pettegolezzi della città. I personaggi che si muovono sulla scena sono di particolare complessità ed ottimamente delineati: il prete, che ha preso i voti in seguito ad una delusione amorosa ed ha scaricato le proprie frustrazioni nell’ansia di una carriera ecclesiastica; la sorella, che è sinceramente pentita della vita condotta e cerca di redimersi attraverso un puro amore; il dottore, che illude Elisabetta come quindici anni prima aveva fatto il padre, sono figure ritratte a tutto tondo, dai caratteri pienamente umani.

Come se l’Autore sia stato spossato da un simile lavoro, le commedie scritte successivamente risultano modeste. Ma anche in questi lavori si nota la perizia descrittiva dell’autore: pur se la trama è fiacca, la descrizione degli ambienti e dei personaggi è sempre assai sagace. Ad esempio la figura di Noemi Amendola in Sempre così (1911) è a dir poco deliziosa: si tratta di una fervente socialista con simpatie anarchiche, che convive con un duca deputato del partito (ovviamente senza sposarlo, perché sarebbe contrario alle sue convinzioni politiche) e “accetta” di abitare nell’avito palazzo, da modernissima radical-chic, tra armature medioevale e busti di Marx, tra raffinati tè e infervorati incontri politici, per poi recarsi ad una riunione nella Casa del lavoro, naturalmente in pelliccia di ermellino! Come in altri lavori il mondo della sinistra radicale, dai ricchi deputati socialisti ai predicatori anarchici – miserabili o pericolosi che siano – è uno dei bersagli preferiti dalla penna di Butti.

Nel 1912, a soli quarantaquattro anni, Butti muore. Malato da tempo ai polmoni, tentava inutilmente di curarsi. Lascia due opere postume: Il Castello del sogno, poema tragico dalla rara potenza evocativa, che affronta la tematica dell’impegno dell’artista raccontando la storia del principe Fantasio, estraniatosi dal mondo alla notizia dell’arresto di Luigi XVI, e Le vie della salute, brillante commedia che ironizza efficacemente sul mondo delle case di cura. E, per crudele caso, lo scrittore lavorò a questa pièce proprio mentre cercava di curarsi in un sanatorio, cosciente di trovarsi negli ultimi mesi di vita. «Sto scrivendo Le vie della salute. Come vedi, sono sempre fuori di strada!» aveva scritto ad un amico, con amara ironia, poche settimane prima della morte.

Da queste parole traspare non solamente la consapevolezza della prossima fine, ma anche la coscienza di una sconfitta più grave: per lui, che aveva fatto dell’attività artistica uno strumento di impegno sociale, cessare la produzione senza esser riuscito a fondare una corrente equivaleva ad una disfatta: avvicinandosi alla morte egli si sentiva accomunato agli illusi personaggi creati dalla sua penna, tutti destinati a fallire nel loro intento, fossero essi atei senza scrupoli, educatori dai sani principî o liberi pensatori pieni di tormenti morali e rimorsi religiosi. Dopo la morte, infatti, il drammaturgo milanese e le tematiche religiose da lui proposte verranno presto obliate e solo con Diego Fabbri, nel dopoguerra, torneranno sul palcoscenico. Un oblio – va aggiunto – agevolato anche da una bella pensata dell’“amico” Marinetti, che decise di scegliere giusto una rappresentazione postuma del dramma poetico del nostro per dimostrare come le difficoltà ad imporsi del Futurismo fossero dovuto esclusivamente alle claques avverse: «Sempre al Teatro Lirico nostro prediletto riempiamo due palchi allo scopo di dimostrare collo schiamazzo quanto è stato facile per il pubblico combattere alla sua nascita il Futurismo e mentre Francesco Pastonchi chiesasticamente legge sul palcoscenico Il castello del sogno del mio amico Butti noi urliamo in venti dei “basta basta” inscenando una tempesta di battibecchi e proteste. A signore e signori che in platea gridano contro i nostri due palchi aizzati da un medico che precisa “sono pronto a sottoscrivere la dichiarazione che afferma la pazzia di Marinetti” Armando Mazza scaraventa giù questo tuono “Passatisti venite su che vi rompo il culto del passato”. Il culto rimase intatto perché tremenda era la tonnellata del pugno minacciante».

A Butti va inoltre l’indubbio merito di essere stato tra i primi italiani a portare sulle scene i tormenti espressi da Ibsen: la sua produzione è pervasa, anche nelle opere più leggere, da un amaro pessimismo che tradisce la derivazione dalle opere del drammaturgo norvegese. Ma questa negatività non lascia scampo nemmeno agli spettatori: si pensi a Il vortice, che con la sua ambigua conclusione crea nel pubblico una forte identificazione col protagonista. Questi, che ha truffato un nobiluomo di cui amministrava il patrimonio, accetterà che la moglie si pieghi alle voglie del barone che ha frodato, salvandosi in modo da una denuncia, oppure affronterà il seduttore, rischiando però la carcerazione per appropriazione indebita? La tela cala sulla scena che vede il marito accanto all’entrata della camera della moglie, mentre l’amante bussa ad una porticina esterna. Non sapremo mai quale sarà la sua decisione, se si ritirerà o se caccerà l’intruso, come mai non sapremo chi sia in realtà la pirandelliana signora Ponza di Così è, se vi pare. L’unica certezza a rimanere è che il protagonista, qualunque decisione prenda, rimarrà uno sconfitto.

Gianandrea de Antonellis

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