Enrico VI e il Porto franco di Messina
L’evento storico del porto franco, concesso dall’Imperatore Enrico VI alla città di Messina 11 maggio 1197, è l’oggetto di una ricostruzione storico-culturale che ha prodotto inaspettati risultati.
Ancora oggi, appare enigmatica la motivazione, che ha determinato la concessione di questo enorme privilegio per la Città dello Stretto, così come sono misteriosi, gran parte dei suoi attori primari.
La particolare vocazione di Messina al commercio marittimo e le secolari attribuzioni commerciali, attribuite già durante il governo del Gran Conte Ruggero, hanno favorito lo sviluppo di canali merceologici, stipulati con i maggiori empori dell’area del Mediterraneo.
Successivamente, i traffici commerciali e il commercio, furono incentivati da tutta una serie di misure che incidevano: sui dazi doganali, sulle gabelle delle materie prime, sulle controversie scaturite dalle attribuzioni degli spazi portuali, sui cambi monetari, sulle misure di peso, sugli uffici di rappresentanza per le assicurate e sulle registrazioni delle merci. Il privilegio del Porto franco, è l’ultimo gradino, di una scala burocratico amministrativa, che favoriva lo scambio commerciale di beni e servizi, talmente lucrosi per la città, da rendere i suoi attori, formalmente ed economicamente potenti. Le controversie che potevano scaturire fra i mercanti Messinesi negli scali e negli empori, soggetti all’autorità dell’Impero Germanico, seguivano una procedura particolare che tutelava i mercanti della Città dello Stretto e il rispettivo carico. Persino le stesse rotte commerciali che seguivano precisi protocolli, non erano un tabù per la flotta mercantile dei Messinesi, liberi di meglio regolarsi al bisogno. Il privilegio del porto franco però, a differenza di quanto si pensi, non fu indolore per il regno di Sicilia.
La querelle politica, ufficialmente venne a generarsi, per la presenza di un personaggio particolare presso la corte a Palermo e vicino all’imperatrice Costanza; una fazione di cortigiani fedeli all’imperatore, avevano segnalato al prode Enrico VI che la consorte tramasse alle sue spalle. Per tanto, fu sospettata di tradimento delle funzioni coniugali e di complotto per assassinarlo.
La vicenda conflittuale scoppiata nella corte Normanna, che ha visto la discesa in campo di numerosi cronisti e storici, lascia molte luci ed altrettante ombre su un periodo particolare della storia del Regno di Sicilia, dove appare difficile dirimere l’intricata matassa che si è sviluppata sulla questione. Molti concordano che Costanza, aveva avvertito l’Imperatore, della presenza di una accozzata di baroni, che si erano rivoltati contro il loro sovrano formando un esercito di 30000 uomini, pronti a dare battaglia, una volta che Enrico fosse giunto in Sicilia.
La reazione dell’Imperatore, contro la sua corte e la nobiltà Normanna di Sicilia non si fece attendere, anche se, la notizia quasi lo colse di sorpresa, durante la sua campagna, contro i rivoltosi del centro Italia e del ducato di Puglia.
La prima a subire il monito di Enrico VI fu la città di Messina. I Messinesi, che nel frattempo avevano conosciuto i metodi del loro sovrano, non esitarono ad invocare Enrico come loro Imperatore, onorandolo con molta pompa. Non furono così magnanimi gli altri isolani, sobillati alla rivolta, dai baroni Normanni che dicevano di parlare a nome di Costanza.
La strage fu grandissima fra i rivoltosi che avevano appoggiato il partito dei malcontenti; moltissimi furono arsi vivi, altrettanti scuoiati e fritti nella sugna. Altri ancora torturati e decapitati, ed orribilmente mutilati: si ricordano casi in cui i prigionieri venivano squartati, afforcati, crocifissi, violati ed impalati, sepolti vivi e macellati. Insomma, fu fatta una barbarie che non si conosceva in Sicilia neppure, durante il regno musulmano, ed orribile distino fu attribuito all’artefice della rivolta e pretendente al trono Normanno: il quale fu umiliato presso la corte di Palermo e per atto finale, fu incoronato con corona di ferro ed attribuzioni religiose, mentre i suoi carnefici, gli piantarono 4 chiodi di ferro sul cranio, per assicurarsi che la corona non gli cadesse dal capo. Nel frattempo, Enrico e la sua corte Tedesca, si erano arroccati presso la città di Messina, dove fra l’altro vi troverà la morte il sovrano per cause intestinali.
In quel momento storico, presso la corte attestata a Messina, soleva dimorare Berardo, arcidiacono della città di Esculum (l’attuale Ascoli) e vescovo di Ragusa, città della penisola della Dalmazia: questo ultimo personaggio viene così identificato, in alcuni diplomi dallo storico Palermitano Giardina. Quando compare fra i testimoni del privilegio del porto franco, concesso da Enrico VI.
La figura di questo prelato in realtà, viene molto rimarcata dalle fonti tedesche, fin da quando Enrico VI e Costanza convolarono a nozze. La sua presenza presso la corte e i coniugi imperiali era rivelata in particolari carte. Molti lo identificano come il consigliere di entrambi i regali coniugi e taluni storici si spingono oltre, dichiarandolo cancelliere di alcuni uffici e confessore, al quale vennero rivelati particolari segreti.
Nel nostro caso, quello che rende importante la figura di Berardo resta, la sua attribuzione alla carica di Arcivescovo della chiesa di Messina, già nel maggio del 1196 non certamente, come le fonti siciliane gli attribuiscono nell’ottobre del 1197. Ma, innanzitutto, rimane sinceramente efficace il suo ruolo, come amministratore non che ufficiale testamentario del Porto franco, attestato come detto in precedenza l’undici maggio 1197.
Il primo a cogliere questo ruolo di Berardo, fu Michele Amari che notava gli effetti del suo mandato, negli anni successivi alla morte di Costanza, durante la guerra civile che insanguinò le terre della Sicilia per 10 anni.
L’imperatrice nel pieno delle sue facoltà mentali, e per la salvaguardia della vita del figlio ed erede al trono Federico II, nominò 4 funzionari. Fra di essi, si distinse Gualtiero Paleario oppositore di Papa Innocenzio III e concorrente di Berardo stesso. Infatti, faceva notare l’Amari, che nel grado di Cancelliere del Regno di Sicilia, coabitavano Berardo e Gualtiero. Nella lapide del privilegio del Porto franco, compaiono entrambi, ma con ruoli distinti, almeno in apparenza.
Berardo Arcivescovo di Messina, risulterà da carte siciliane vergate già nel mese di luglio del 1200, come Cancelliere e parlamentare di Messina. Quindi, anche se l’Amari non lo dice, Berardo si trovava in palese competizione con l’ufficiale Gualtiero e Cancelliere del regno di Sicilia, designato a suo tempo da Enrico medesimo; in grado di mantenere quella carica fino a che, Federico II non fosse divenuto maggiorenne.
Dai diplomi conservati presso la città di Ascoli, appare uno degli attributi riconosciuti dalla critica all’Arcivescovo Messinese; quello di essere prima, durante e dopo, un eccellente diplomatico e consigliere anche della regina Costanza. La quale, non perdeva occasione di ricordare, soprattutto nella vicenda delle attribuzioni alla chiesa ascolana che furono i solleciti consigli del Venerabile Arcivescovo di Messina, a confermare tutti i privilegi concessi e conformati da suo marito in precedenza.
A questo punto, si possono gettare le prime basi, per osservare il ruolo di Berardo nella questione del porto franco, mantenuto e confermato nelle mani dell’Arcivescovo messinese, dopo la morte di Enrico VI
Alessandro Fumia