“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) a cura di Gianandrea de Antonellis (XIX)
Seconda Parte
Capitolo XIII. La morte
Fin dal principio della battaglia testé descritta Carlo era rimasto spettatore su di un alto poggiolo e quando vide che i repubblicani da principio avevano la meglio tutto si rallegrò, perché – si diceva – facilmente nella strage che si farà di quegli sciagurati Carlisti, Ernesto, che di già con occhio linceo aveva scorto in mezzo ai suoi, sarà anche lui ucciso o almeno sarà preso prigioniero e quindi fucilato; ma quando poi scorse che le sorti della giornata erano cambiate e che i suoi amici, se amici può avere un uomo del suo carattere e del suo pensare, erano sconfitti ed inseguiti, si diede un colpo colla palma in sulla fronte e bestemmiando come l’Iscariota disse:
– Ormai non v’ha più speranza che egli cada nel modo che io sperava; è necessario che la risolva io o che una palla m’involi[1] a questa vita. Ernesto, la fortuna molte volte ci ha posti a fronte l’uno dell’altro, ma adesso la bisogna deve essere compita: o tu cadrai per le mie mani o io sarò spento da te; ma la terra non deve più contenerci entrambi.
Ciò detto si spinse rapidamente in mezzo alla mischia e la prima cosa di cui andò in cerca fu un cavallo, il quale non tardò a pararglisi dinanzi ed anzi era uno dei cavalli di quei gendarmi che erano ritornati al campo insieme con Ernesto; egli lo afferrò per la briglia, lo fermò e quindi, saltatovi sopra, ne visitò le tasche della sella in cui, trovatevi ancora le pistole, si rallegrò e si pose a spronare il corridore per quella via nella quale vedeva Ernesto alla testa della sua schiera correre vittorioso, gridando con tutto l’entusiasmo: «Viva Don Carlos! Viva il legittimismo! Morte, morte ai repubblicani!».
Più volte fu quasi vicino a raggiungerlo, ma più volte le circostanze o di luogo o di gente o di altra cosa gli impedirono di potervisi accostare come egli avrebbe voluto e perciò la rabbia ed il dolore lo rendevano frenetico; vedeva che egli, quantunque non avvezzo a combattere, faceva prodigi di valore, spinto dall’esempio di quei che lo circondavano e dalla giustizia del diritto che sosteneva, e fremeva come egli non fosse da tanto di poterlo imitare e punirlo, come egli diceva, di tutti i mali che gli aveva prodotto. Vi fu un momento che, disperando di poter giungere al suo scopo, rivolse la bocca della pistola che aveva nelle mani verso il suo medesimo orecchio, levandosi così alla vergogna di non poter vendicarsi ed alla rabbia di vedere il suo nemico trionfante ed acclamato da tutti come un Eroe, come uno dei più strenui difensori del Sovrano.
Giunta però la giornata al suo termine, i Comandanti fecero suonare a raccolta, essendo i nemici già vinti e sconfitti e prossima la notte, e per tutto il campo pronunziata allegramente la parola vittoria, tutti cominciarono a prendere riposo ed il Re scorse le fila del suo esercito, dando mille “bravi!” a tutti, che avevano combattuto come leoni per la sua gloria; e specialmente rivolse i suoi grandi elogi al nerbo dei Francesi ed Italiani, che avevano contribuito moltissimo a quella vittoria; ringraziò il generale francese e stringendo la mano ad Ernesto gli disse:
– Voi siete un grande acquisto che io ho fatto; pregate Iddio che la vittoria segua sempre le nostre bandiere, che la vostra missione possa avere il completo adempimento; ed allora la vostra fortuna è fatta ed allora voi diventerete uno dei principali miei amici e troverete un compenso in quello che avrete già fatto ed otterrete il premio che i vostri ingrati primi anni non seppero darvi.
– Viva Don Carlos, il glorioso Don Carlos! Che egli ottenga l’intero trionfo bramato, che la Spagna per lui ritorni a respirare in pace completamente e che quando il trionfo completo della buona causa sarà ottenuto…
Un colpo di pistola tirato a bruciapelo nel petto dell’oratore interruppe il suo discorso ed una voce rabbiosa s’intese gridare:
– Ma tu vile, traditore, apostata, tu non lo vedrai questo giorno, perché la morte finalmente punisce la infame tua condotta.
Mise un grido Ernesto, cadde rovescioni in un rivo di sangue quasi nelle braccia del Re e volgendo per poco lo sguardo al suo uccisore, esclamò:
– Carlo!… Tu!…
– Che ti punisco e ti maledico.
– Viva… viva Don Carlos! – esclamò Ernesto – Viva il legittimismo… e che Iddio ti perdoni.
E pronunziando questi estremi accenti e stringendo la mano al Sovrano chiuse gli occhi e spirò.
Immantinente tutti gli astanti furono addosso a Carlo e lo avrebbero quasi divorato vivo, se un cenno imperioso del Re non avesse frenato l’impeto di quegli uomini irritati e sdegnati:
– Alto, spetta al carnefice la vita di costui, di questo assassino, e non ai prodi difensori del trono. Serbatelo per poco, egli sarà immantinente giustiziato.
Tutto il campo fu commosso dall’improvviso avvenimento succeduto e tutti compiansero il povero Ernesto, l’Eroe, il difensore del Re sacrificato a tradimento da un infame proditoriamente; il cadavere dell’ucciso venne ricoverato sotto di una tenda ed onorato da tutti con la massima riverenza; lo stesso Curato della Diocesi volle benedirne il cadavere e quindi, allo spuntare del nuovo giorno, un funerale, il più magnifico che possa immaginarsi in quelle circostanze di tempo e di luogo, si eseguì per onorare le spoglia del disgraziato Ernesto, mentre il suo uccisore, coperto di catene e d’ignominia, era presente per essere giustiziato nel momento che il cadavere sarebbe disceso sotterra.
Era quasi il mezzo giorno di quella giornali quando si videro giungere al campo dei forestieri. Essi furono sorpresi dall’apparato che trovarono ed informandosi di tutto ciò che succedeva e del perché di tutto quell’apparato, seppero che uno dei Capi dell’esercito, Italiano di nazione, era stato proditoriamente ucciso da un suo connazionale e che era prossima la sua solenne inumazione, come la pena dell’omicida.
Il più vecchio dei due forestieri, quasi presago di ciò che era succeduto, dimandò i nomi dei due personaggi ed essendogli stato indicato l’uccisore, che in quel momento passava scortato da molti militi, per essere condotto al luogo del suo supplizio, esclamò:
– Carlo!…
Si rivolse l’arrestato e dopo guardato l’interlocutore, disse a sua volta:
– Il Duca!…
– Sei tu, sciagurato, tu l’uccisore… Oh! dunque allora l’ucciso non può essere altri, che…
– Ernesto, lo avete indovinato. Voi siete forse venuto qui per ammirarlo nell’apogeo della sua gloria, ma invece lo troverete cadavere. La mia vendetta è compiuta.
– Scellerato!…
– Datemi quel nome che volete; ma il mio nemico non è più, egli mi ha preceduto nella tomba.
– Vile, la sua memoria sarà sempre gloriosa, mentre su te piomberà la maledizione di tutti gli uomini onesti. Va, cadi infamemente e sappi che sulla tua tomba non un fiore sarà sparso, non una lagrima versata, e che Ernesto…
– È caduto prima di me e per mia mano: del resto non più m’importa. Addio, Duca, ringraziate la fortuna che tante avverse combinazioni vi hanno levato dai fianchi un nemico, e pericoloso nemico; ma ciò che non avrò potuto far io, altri lo farà. E come io cado per le mani di militari, persuadetevi, che anche voi farete la medesima figura per mezzo del carnefice. Tempo verrà, e…
– La nostra causa trionferà, sciagurato, come incomincia di già a trionfare a tuo dispetto nelle menti e nei cuori di tutti, e tutto il male fatto alle nostre patrie sarà cancellato e cangiato in un amore di pace e di tranquillità, nonché di futura grandezza.
Carlo fu trascinato via, Don Carlos apparì in tutta la sua maestà nel campo ed il servizio funebre ebbe principio.
Il Duca, non appena comparve il Sovrano, si presentò a lui ed annunziandosi per quello che era, si diede a conoscere per l’inviato dei Comitati francesi ed italiani presso il Monarca spagnolo, il quale veniva a congratularsi delle grandi vittorie riportate e si rallegrava essendo giunto appena dopo la più strepitosa fra esse.
Don Carlos ringraziò il vecchio signore, ma quando seppe essere egli il suocero dell’estinto Ernesto, l’onorò con ogni più grande manifestazione di onore e nel tempo della cerimonia gli assegnò presso di sé il posto principale per assistere al funerale.
Epilogo.
Il servizio funebre ebbe termine, Ernesto fu deposto in una fossa scavata a pochi passi dal luogo dov’era stato proditoriamente ucciso; una quantità di fiori formò il sostrato della sua tomba, sul suo cuore posò una Croce ed una delle più belle decorazioni che il Sovrano, togliendosi dal petto, gli depositò sul seno; a quella decorazione il Duca aggiunse il ritratto di Giuseppina che aveva seco recato per regalarlo all’estinto e, dopo essere stato asperso di acqua benedetta, il cadavere venne ricoperto di terreno ed una Croce su quel cumulo di terra innalzata diede a divedere a tutti che quivi riposava l’Eroe caduto in difesa della legittimità nell’ordine, della vera felicità della patria.
Nel medesimo punto una testa cadea troncata dal carnefice ed un cadavere insepolto giaceva a poca distanza da quello di Ernesto, cotanto onorato e benedetto.
Era la testa di Carlo, che cadeva, era il suo cadavere rimasto in quel luogo a pasto dei corvi.
***
Don Carlos proseguì e prosegue nella sua vittoriosa carriera e fra non molto egli sarà la pietra principale su cui la buona causa sarà poggiata: la sua restaurazione sarà il primo passo di futuri trionfi, che porterà la gloria di quei popoli abbattuti dalle male arti di quelli che, predicando il bene altrui, non hanno fatto altro che il bene proprio solamente, non curandosi mai di coloro che hanno chiamati fratelli ed hanno ingannato barbaramente tutti.
Il Duca ritornò in Francia dove seguiterà a rimanere fino a stagione migliore ed Ernesto, sventurato sempre in vita, diventò in morte felice, poiché certamente quella gloria che lo circondò in terra cadendo in difesa di un Re legittimo, di una causa giusta, lo circonderà anche al di là del settimo cielo, dove Colui che tutto regge, che protegge e premia chi segue il retto sentiero, lo annovererà fra i veri Martiri, poiché egli veramente fu Martire in vita ed in morte, né uno di quelli che, rivestendosi di cotanto glorioso titolo, non hanno fatto altro che far trionfare il tradimento, l’egoismo, l’infamia ed ogni più turpe e sozza nequizia che immaginare si possa.
FINE
[1] Mi sottragga.