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“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) a cura di Gianandrea de Antonellis (XVI)

Posted by on Gen 19, 2023

“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) a cura di Gianandrea de Antonellis (XVI)

Seconda parte

Capitolo VII. La fortuna di Ernesto

La prima cosa che il Duca fece, stando in Marsiglia, fu quella di farsi conoscere e mettersi di accordo con altri che seguivano i suoi medesimi pensieri, oltreché presentare ad essi Ernesto e dare della sua capacità suprema malleveria.

Tutti quegli uomini accesi dal vero amor di patria – che tra parentesi nei Francesi, quantunque uomini piuttosto volubili e leggeri, è molto più grande e pronunziato che negli altri popoli – e che dopo lo scacco matto ricevuto nella infausta guerra contro la Germania[1] avevano serbato intatto tutti nel cuore, facendo ingenti sforzi e sacrifici ed erogando somme enormi per mandar via i loro vincitori dal suolo francese, ora si sentivano nel caso, per aggiustare i tristi fatti della loro patria, di tentare tutto il possibile per far succedere una restaurazione[2], che aveste potuto ridonare alla Francia l’antica gloria, ne avesse potuto appianare i guai degl’interessi ed avesse potuto in seguito far prendere quelle rivincita, che negli uomini poi di tutt’i partiti stava radicata in cuore e che era l’incubo che opprimeva tutti.

Fatte diverse pratiche, stabilite parecchie circostanze secondarie, fu deciso, che mentre il Duca sarebbe rimasto in Marsiglia, Ernesto avrebbe fatto un viaggio a Parigi per pescare nel torbido, osservare le cose da vicino e vedere, se gli fosse stato possibile, chi avendo interesse maggiore nell’affare, sarebbe stato necessario avvicinare per mettervisi d’accordo e fargli comprendere gli aiuti che poteva ottenere dai Francesi non solo, ma anche dagli Italiani, che forse in lui fondavano le loro principali speranze future.

Munito di pieni poteri, di mezzi fortissimi e di commendatizie di grave momento, Ernesto sotto l’aspetto di commesso viaggiatore partì per alla volta di Parigi e di Versailles per adempiere alle sue incombenze, mentre nella sua lontananza, i consigli di persone autorevoli e di grande influenza, consigliarono il Duca ad un passo che, mentre sarebbe stato decisivo forse per più legare Ernesto, riconosciuto personaggio importantissimo alla causa, avrebbe potuto giovare a tutti i futuri progetti, trasformando questo uomo da un quasi avventuriero in un tale che non avrebbe più potuto per verun modo tradire la causa che aveva abbracciato.

Il Duca scrisse al suo parente in Napoli, a colui che aveva lasciato al governo delle sue cose ed a tutela delle sue figliuole, d’imbarcarsi subito per Marsiglia, conducendo le ragazze, perché di esse aveva assoluto bisogno presso di sé. Detto fatto. Il parente del Duca, ossequente alle richiesta del suo congiunto, si affrettò ad intraprendere il viaggio e nel minor tempo che gli fu possibile fu in Marsiglia, ottemperando alla volontà del Duca, senza remora alcuna.

Giunte le nobili figliuole del Duca in Francia, la prima che nome aveva di Madide fu maritata ad un patrizio francese di una delle primissime famiglie di quell’aristocrazia, mentre al­l’al­tra le si fece conoscere essere state penetrate tutte le sue cose, l’amore malamente collocato in un avventuriero, il doversi del medesimo dimenticare; infine le si comunicò la sua morte ed il progetto di collocarla in maritaggio con un tale che era molto più degno di lei e che sarebbe diventato per mezzo suo il vero cardine fondamentale dei progetti di tutti coloro che formavano parte del partito al quale apparteneva il Duca.

Giuseppina – giovinetta piuttosto vana, un poco civettuola, innamorata di Carlo sì, ma non nel modo che nel Medio Evo amavano le castellane, ma come [oggidì] amano le nostre signorine – fece i conti suoi e persuasa che colui a cui aveva giurato la sua fede, anche volendogliela mantenere, non esisteva più, rientrò in se stessa e, facendosi bene i conti, disse: «Ormai egli è morto, né io per cagion sua intendo rimanermene sempre zitella; farò la volontà di mio padre» e solamente recandosi presso lo stesso fece talune domande e obiezioni, che spianarono di più la via ai progetti del Duca.

– Padre mio, – disse ella – signor Duca, Matilde è maritata, ed è maritata con un nobilissimo uomo, con un giovine ricco e bello; vorrete, per i vostri interessi, sacrificarmi con un qualche vecchio, brutto e di bassissima estrazione? In tali casi, quantunque io sia stata sempre pronta ad obbedirvi in tutto, padre mio, pure mi opporrei con tutta la forza. Il matrimonio si scioglie con la vita ed io, quantunque pensi completamente siccome voi pensate, pure non mi sento forte di sacrificarmi terribilmente per tutto il tempo che ancora mi resterà a vivere. Voi mi amate, voi mi avete chiamata sempre la vostra prediletta ed io, sebbene abbia commesso un fallo amando un uomo senza vostro permesso, – ma amandolo con tutta la purezza dell’affetto, senza avere in nulla tralignato da quei principii che ho succhiato col latte – pure mi sento nel caso di protestare umilmente, sperando di non essere forzata a una cosa che potrebbe rendermi per sempre infelice.

– L’uomo che tuo padre ti destina, figlia, con tutto che non ha sortito natali magnatizi[3], è molto più nobile di colui che tu spontaneamente avevi prescelto: egli è degno in tutto di te.

– La sua età? – dimandò sorridendo Giuseppina.

– Trentaquattro in trentacinque anni.

– È ancora giovine. La sua figura?

– Lo giudicherai. Egli è bello ed ardisco dire molto più del­l’e­stinto Carlo, poiché colui aveva una bellezza piuttosto femminile, mentre l’altro, colui che io ti destino, ha figura virile e quale ad un buon marito si conviene.

– Il suo carattere?

– Dolcissimo.

– I suoi mezzi?

– Farai la più brillante figura che puoi immaginare.

– Ebbene, io acconsento. – disse Giuseppina, gettandosi nelle braccia del padre.

– Ma ciò non basta. Egli ha sofferto molte disgrazie e dissapori: dovrai essere tu il suo angelo consolatore. Il cielo ti destina ad una missione che ti dovrà rendere gloriosa in mezzo a tutte le tue coetanee.

– Sarebbe, questa missione?

– Far felice l’uomo che ti vien destinato e farlo felice prima e dopo il matrimonio. Come si converrà regolarsi pel tempo che sarai a lui legata, è bene inutile il dirlo. Sarai esatta manutentrice dei tuoi doveri, serberai sempre pel tuo sposo quella tenerezza ed affezione che ti si conviene e farai onore a te, a lui, alla tua nobile famiglia; ma prima, oh!, per riguardo al primo: è uopo, che ti dia delle istruzioni.

– Parlate.

– Egli, sappi, non mi pare che sia troppo portato all’amore e ad un secondo matrimonio, avendo pel passato sofferto per queste due ragioni; ma a noi importa di averlo dalla nostra e perciò sarà necessario che tu ne imprenda la conquista, prima di venire a cose più serie. Figlia mia, egli è un eroe, negherai tu di diventare una delle eroine della vera buona causa?

– Giammai: lo farò volentieri.

– Fra qualche tempo egli sarà di ritorno ed allora tu, mettendo in campo le tue risorse donnesche, condurrai Ernesto completamente sotto le nostre bandiere.

***

Ernesto, intanto, giunto a Parigi ed a Versailles, lavorava alacremente per quello pel quale era ivi venuto. Abboccamenti continui con persone impegnatissime per la riuscita dei progetti immaginati, visite a Frohsdorf[4]: nulla trascurava per giungere a combinare un piano, che sviluppandosi poi di accordo, avrebbe potuto portare il trionfo delle idee che egli patrocinava.

***

Intanto, mentre in Francia ed in Italia si guardavano le cose nell’aspetto di cui io parlo e prima di far sì che Ernesto fosse ritornato in Marsiglia, dove lo attendeva l’altro progetto di sopra accennato, è uopo trasportare il lettore in un altro sito della nostra Europa e mettere sotto i suoi sguardi altri fatti, che riunendo tutto il già detto finora, potranno essere di sostrato ad ulteriori scene, le quali condurranno alla conclusione delle avventure del nostro protagonista.

La Spagna, un tempo grande ed immenso Stato, di cui i confini non si distinguevano sotto la cappa del Sole, era caduta per lo spazio di lunghissimi anni in uno stato di terribile sfacelo, di modo che chi avesse preteso riconoscere in essa la medesima Spagna di Carlo v e di Filippo ii, si sarebbe ingannato totalmente. Essa dava all’Europa attonita uno spettacolo tremendo di una lotta di partiti: fin dall’epoca della guerra, sostenuta dal primo Don Carlos[5] e perduta – perché è destino che quasi sempre coloro i quali hanno ragione debbono soccombere – era stata travolta in tante ambasce da trasfigurarla e quasi quasi farla mettere al livello degli Stati di terzo ordine.

Il Regno di Maria Cristina e quello di Isabella[6], fecondi di tanti guasti, anomalie ed irregolarità, avevano esauste le sue vene di sangue ed il suo erario di denaro. Ministri traditori o esosi o inetti l’avevano travolta di rovina in rovina, riducendola al punto che una rivoluzione dovette necessariamente coronare la conclusione del regno della figlia di Ferdinando vii.

Rimasta senza governo, in balia di se stessa, i partiti che la dilaceravano sempre e che fin dall’epoca della prima guerra non avevano cessato mai di tormentarla avevano tutti alzata contemporaneamente la cresta, tanto che quasi l’Europa intera commossa, guardandola e commiserandola, volle per poco incaricarsi di essa, proponendole sovranità effimere, che non sarebbero state atte a poterla tranquillizzare, perché fra tutti gli espedienti possibili per darle pace, quello che non persuadeva punto agli Spagnoli era di avere nel trono di Carlo v un estraneo[7] che, se non odiato, non sarebbe stato amato giammai dai loro.

La proposta di un Hohenzollern, fomite[8] della terribile guer­ra della Germania e della Francia[9], aveva dimostrato che la compassione dei governi esteri non era tutta di buona lega e che l’ambizione guidava la maggior parte di quelli che predicavano a pro di un Regno, avvilito sì, ma non abbattuto.

La guerra combattutasi per questa ragione è a tutti nota ed è inutile metterla sotto gli occhi dei lettori; solamente è uopo far riflettere che il rimedio trovato ad un tal fatto primitivo[10] fu per la Spagna peggiore del male e che l’effimero regno di Don Amedeo[11], quantunque da principio fosse sembrato di portar buoni frutti, pure non era servito a far altro che ad aizzare di più gli animi dei diversi partiti, di talché egli partendo – e facendo in tal caso una delle più belle opere che giammai Sovrano avesse fatto – ridestò lo spirito patriottico secondo il diverso modo di sentirlo dai diversi componenti i partiti e mentre tutti dimostrarono di essere ancora i forti Spagnoli di un tempo, si diedero ad una lotta civile intestina, che annientò negli orrori la comune patria e che la immerse in più terribili sciagure.

Carlisti, isabellisti, repubblicani puri, federali intransigenti, tutti credendosi più forti degli altri, non contentandosi di combattere nell’Assemblea[12] riunitasi sotto la forma provvisoria repubblicana, si sfidarono in campo, in piazza, nelle intere città e lo sfasciamento generale del Paese produsse mali gravissimi all’interno, guai terribili all’estero e rovina più completa di uomini e d’interessi.

Un partito però, che pareva dormisse, e che in sostanza era il meglio organizzato degli altri, il Carlista, scosse la polvere che lo copriva ed una levata di scudi in pro del vero legittimo erede si vide fatta con tutta la energia possibile, tanto che il Governo, temendone, dovette combatterla, ma debolmente, perché quantunque non sempre vittoriosi, i Carlisti nella maggior parte degli incontri avuti con le truppe repubblicane ne riportarono la meglio.

Capi esperti e fedeli posti alla testa di quelle che da principio presentatesi come semplici bande d’insorgenti erano a poco a poco diventate disciplinati battaglioni, portavano innanzi la guerra con grande successo ed il Pretendente, il legittimo erede della Spagna, giunte le cose al punto che facevano essere necessaria la sua persona in mezzo ai suoi, senza sgomentarsi punto con coraggio da eroe si era posto finalmente alla testa dei suoi, per regolare egli stesso i suoi interessi e farsi pienamente riconoscere per il vero Re dell’Iberia.

***

Ciò posto, ritorniamo al nostro protagonista.

Ernesto, che fra le altre cose, anche mercé le fila già sparse e mercé un viaggio da lui fatto, aveva annodato anche delle fila nella vicina Spagna, passando per ben due volte i Pirenei, si trovava al punto dopo diversi mesi di ritornare a Marsiglia e render conto esatto di tutto quello che aveva fatto al Duca ed agli altri personaggi che lo avevamo inviato; in effetti, dopo avere annunziata la sua partenza da Versailles per Marsiglia ed il suo arrivo in quella città per un dato giorno, si vide giungere portatore di grandi speranze e lieto oltremodo di quello che aveva operato, quantunque oppresso da un certo dolore maggiore di quello che lo possedeva prima di partire per le sue cose, ché l’allonta­na­mento da Napoli aveva incrudelite le sue piaghe, essendo stato sempre assalito, nei continui viaggi fatti, da rimembranze dei tempi che quasi lo stesso faceva, servendo la causa tutta opposta a quella di cui di presente era anima e braccio.

Giunto in Marsiglia, fu nel giorno consecutivo invitato dal Duca a geniale banchetto e durante il pranzo gli furono presentate dal padre le due sue figliuole, la maritata e l’altra nubile ancora, che osservandolo bene e discorrendo con lui si persuase dai suoi belli e cortesi modi che per essa sarebbe stato un eccellente partito e perciò, confermandosi nel pensiero di sposarlo, come aveva promesso a suo padre, dopo il desinare assicurò a costui che ne avrebbe al più presto possibile intrapresa la conquista.

Era un momento di necessaria sosta negli affari ed Ernesto, non trovandosi occupato per affari, si recava in casa del Duca per trattenersi in buona compagnia e specialmente presso la signorina Giuseppina che, istruita com’era, sapendolo anche istruito in tutto, lo avvicinava con piacere e ne richiedeva molto spesso la compagnia.

Giuseppina era bella, giovane, ricolma di tutte le qualità per interessare un uomo, Ernesto, quantunque non più nel bollore della sua prima gioventù, ma tale ancora da sentire la forza dei dolci affetti e tormentato da dolorosi pensieri che avevano bisogno di conforto per essere fatti sgombrare dall’a­ni­­mo suo, perciò accoglieva con tutta la possibile gentilezza le proteste di amicizia della giovinetta, le confidenze che gli faceva, i segni precursori di quella tendenza di cuore verso un altro, e beveva a poco a poco nei suoi occhi il dolce veleno del­l’amore, che pianamente si insinuava nel suo cuore.

Non era la dolce passione da lui un tempo intesa per la vaga ed innocente Emilia; non era il fuoco divoratore provato per la contessa Erminia, che lo distruggeva e lo rendeva maniaco; ma era un sentimento calmo e tranquillo, quantunque possente, che lo traeva a desiderare sempre la presenza di Giuseppina, a sentirne la voce, a cercarne la compagnia. Ormai senza di lei la sua vita non aveva più bellezza: egli sentiva nascere nell’anima, quasi senza accorgersene, di amare di nuovo, si sentiva sotto la dominazione di una novella passione.

Una sera il Duca era uscito di casa, quando Ernesto vi giunse. Si fece annunziare a Giuseppina e trovò che costei stava nel salotto, dove si esercitava nel pianoforte a suonare ed a cantare. Entrato Ernesto, cessò dal toccar gli avorî dello strumento e si principiò una di quelle solite conversazioni, nelle quali la donzella per arrivare al suo scopo faceva cadere sempre mille parole mielate, mille sospiri e infine si serviva di tutti quei mezzi che le donne sanno mettere in campo quando vogliono far cadere un uomo ai loro piedi. Ernesto la pregò di voler cantare ancora qualche cosa ed ella, senza por tempo in mezzo, fece scorrere di nuovo le dita sul pianoforte e schiuse le labbra ad una delle più belle melodie del Bellini, alla cavatina della Sonnambula.

Ernesto si sentiva entusiasmato, perché Giuseppina era fornita di ottima voce di soprano, il suo metodo di canto ottimo e l’alto sentire che possedeva la faceva essere una delle più abili cantatrici di salone. Alle parole della cabaletta Sopra il sen la man mi posa[13] Ernesto s’intese talmente toccare il cuore che come fosse stato spinto in un’estasi deliziosa e non potette far di meno di esclamare:

– O Giuseppina, quanto sei bella!

– Che dite mai, signor Ernesto! – disse la fanciulla – Usate della galanteria, questa sera.

– No, credimi, fanciulla divina, non è galanteria che mi mette sulle labbra tali parole: è amore, immenso amore, perché io in questo momento mi accorgo di amarti ardentemente.

– Mi amate?

– Con tutta l’anima!

E nel dir queste parole cadde ai piedi della bella figlia del Duca, attendendo dal suo labbro una risposta che lo avesse immerso o nella felicità o nel dolore; ma siccome lo scopo della giovinetta era quello di farlo sperare, come aveva di già combinato col padre, non ritardò a rispondergli, con accento fermo:

– Ed anche io vi amo, Ernesto.

– Anche voi mi amate?

– Sì, e la mia più gran felicità sarebbe quella di diventare vostra sposa.

– E tu saresti capace di portare un dittamo[14] alle mie piaghe e farmi obliare i dolori, che mi hanno finora tormentati?

– Sì!

– Ma tuo padre?

– Egli vi stima e vi ama moltissimo: potrebbe darsi che non trovi opposizione alcuna alla nostra unione.

– Gran Dio, sarebbe ciò possibile? Questa per me, se potesse succedere, sarebbe la più grande delle felicità.

– Sento i suoi passi nell’anticamera: parlategli in questo medesimo momento.

– Lo farò.

– E me presente, per darmi una prova dell’affetto, che mi portate.

– La tua presenza mi darà anzi coraggio; e senza perder tempo, immantinente procederò a richiederti in sposa.

L’uscio si dischiuse e il Duca entrò.

– Mi godo l’animo di trovarvi insieme; io non saprei trovar migliore compagnia per mia figlia che quella di un uomo come te, caro Ernesto. Di che mai vi occupavate insieme?

– Di materia molto tenera – fu sollecita a rispondere Giuseppina – ed Ernesto deve dirvi qualcosa che forse, padre mio, vi recherà meraviglia, ma che vi potrebbe anche far piacere.

– Ascolterò volentieri ciò che Ernesto vorrà dirmi.

– Signor Duca, i miei passati dolori, le mie disgrazie e tutto quello che ho finora sofferto, credevo avessero in me esaurite le fonti dei dolci affetti; ma in queste momento, però, debbo confessarvi che ho esperimentato il contrario: signor Duca, io sono innamorato.

– È la più bella cosa che possa fare un uomo, quella d’in­namo­rar­si.

– Io m’accorgo di amare vostra figlia.

– Ma perché titubi nello svelarmi questa tua passione?

– Perché il mio stato, la mia origine non nobile, le mie passate vicende non mi fanno credere degno di aspirare ad un bene cotanto grande, quale sarebbe la felicità di poter essere lo sposo di lei.

– Ah, ah, ah! – disse il Duca sorridendo – Un innamorato ardito, quanto privo di meriti, si presentò con tutta la possibile audacia a richiedermi la sua mano, mentre doveva essere sicuro della mia non adesione; ora un altro, che ha tutte le probabilità di ottenere il desiderato scopo, tituba e si avvilisce! Ciò non sta: coraggio abbisogna a coloro che veramente amano! Coraggio è la divisa dell’amore: e siccome io sono sicuro che, prima di rivolgere a me la parola e farmi la confessione dell’amore che nutri per Giuseppina, avrai dovuto confessarlo a lei stessa, ad essa indirizzo la parola, chiedendole se mi sono bene apposto e se hai detto a lei di volerle bene.

– Me lo ha detto.

– E tu, che cosa gli hai risposto?

– Che anch’io gliene voglio.

– Or dunque siedi, Ernesto mio, che la timidezza nel caso tuo non ha senso comune.

– E voi annuireste?…

– Che al più presto mia figlia Giuseppina sia tua sposa.

– Cielo, ti ringrazio! Ora, dopo tanti patimenti, potrò dire di essere veramente felice. Ora, ombra della mia buona Emilia, vieni a girare intorno al tuo desolato consorte e la tua preghiera invochi su di esso la benedizione celeste, perché la felicità lo visita di nuovo.

– Non più tardi di domani si darà principio alle ritualità necessarie per il matrimonio ed il nostro partito acquisterà in tal modo uno dei più grandi sostegni, senza timore di mai più perderlo.

– Sarò consacrato in anima e corpo ad esso, ed allora sarò contento quando si sarà ottenuto completamente lo scopo desiderato.

– Così sia. – disse il Duca.

Fin dal domani nella casa del Duca tutto si preparava per gli sposali di Ernesto e Giuseppina. Le feste si stabilivano, i testimoni erano designati, il quartiere nel medesimo palazzo destinato pei novelli sposi; nulla infine si trascurava, perché al più presto la seconda figliuola dal nobile Duca di *** fosse andata a marito.

Giunto finalmente il giorno destinato per la grande cerimonia, il palazzo era parato a festa e Matilde, che assisteva sua sorella, era venuta per abbigliarla e prepararla alle nozze; Ernesto, gongolante di gioia, non sapeva persuadersi della sua fortuna, tanto più che una lettera giunta da Versailles nel giorno precedente diceva che la sua presenza colà era oltremodo necessaria, dovendosi tenere certi abboccamenti con persone molto influenti.

La mattina passò rapidamente ed il rito civile fu celebrato nel medesimo palazzo del Duca; indi in apposite carrozze, tutte poste a gala, la coppia dei novelli sposi, accompagnata da tutto il corteggio dei parenti, si avviò alla chiesa ed ivi giunti, in mezzo ai sacri cantici intonati dai sacerdoti, ai profumi del­l’in­censo, agli augurii degli astanti, la cerimonia incominciò.

In un angolo della chiesa, il più celato ed oscuro, il più lontano dalla folla, avvolto in un mantello, stava un uomo che guardava tutto quello che succedeva e fremeva, senza mostrare la rabbia che internamente lo rodeva. Costui fin da più d’un ora prima della cerimonia si era situato colà e non si muoveva in verun modo, fino a che dopo pronunziate dal sacerdote le sacrosante parole rituali, e detto dagli sposi il “sì” che li univa per sempre, maledicendo in cuor suo il destino, si avviò con passo fermo fuori dell’uscio della chiesa ed ivi fermatosi attese il corteggio che passava per avanti a lui; e quando giunsero a portata del suo braccio Ernesto e Giuseppina, che andava sotto il suo braccio, egli, parandoglisi innanzi e liberandosi dal mantello che lo avvolgeva, con voce tonante disse:

– Ernesto, tu credesti di uccidermi in Roma, ma io non son morto ancora e ti ho raggiunto; tu mi hai involato l’unico bene che mi rimaneva: ebbene, io a volta mia ti uccido e tu non godrai del bene che mi hai involato.

E ciò dicendo alzò in alto il braccio armato di pugnale, vibrando un colpo ad Ernesto che, colto all’improvviso non ebbe nemmeno il tempo di difendersi e sarebbe caduto vittima di quel forsennato, che i lettori avranno certamente compreso esser Carlo; ma Giuseppina, che stava da presso di suo marito, con una presenza di spirito degna di miglior sorte, gridò con voce fortissima:

– Fermati, assassino! – e spinto in là suo marito, si pose a lui dinanzi e ricevette ella nel suo morbido petto il colpo omicida, che la rese all’istante cadavere.

Tutti accorsero, ma tutti arrivarono tardi: la povera giovinetta era morta e l’assassino, forse egli pel primo inorridito di ciò che aveva fatto, aprendosi una via in mezzo alla folla col pugnale alla mano fuggì con tanta rapidità, che prima che qualcuno avesse pensato ad inseguirlo si era dileguato colla rapidità del lampo.

Il Duca cadde bocconi vicino alla figlia ed Ernesto, strappandosi i capelli, divenne quasi maniaco per il dolore.

Furono trasportati in casa. Il fatto atroce commosse tutta la città, ma contro ciò che era succeduto non poteva trovarsi rimedio e mentre uno sfogo tacito di dolore si eseguiva nell’in­terno della famiglia e la gente, tutta compenetrata del malaugurato avvenimento, compiangeva quella infelice giovine che dal­l’an­dare incontro alle gioie dell’imeneo era caduta nel fondo della tomba, una pompa ben grande si stabilì per la esequie della disgraziata, che fu trasportata al cimitero in modo solenne, ultimo conforto per la vittima di uno scellerato.

Passarono taluni giorni e le lettere premurose[15] di Versailles avvisavano Ernesto che era assolutamente necessario di recarsi colà; egli partì, ma col cuore ripieno di affanno e del più terribile dolore. Piangeva la sventurata che, per essere diventata sua moglie, aveva dovuto cadere sotto il ferro omicida di uno scellerato; e paragonando la sorte triste di questa disgraziata con quella della sua prima consorte Emilia, conchiudeva essere un fatale destino che premiava di morte chi per poco si affezionava a lui.

***

Gli avvenimenti della Spagna si accavallavano. I Carlisti, camminando di vittoria in vittoria, procedevano sempre più in bene ed una serie di uomini arditi e tocchi dalla causa del legittimismo si riunivano nei diversi paesi della Francia e cercavano di oltrepassare i Pirenei per mettersi sotto gli ordini del glorioso Don Carlos[16], che oramai comandava da sé i suoi soldati; ma siccome il fatto non era tanto facile, si cercava un uo­mo esperto e di coraggio che avesse saputo guidarli ed avesse tolti gli ostacoli che si frapponevano al compimento operato. Tutti quelli che regolavano questa bisogna avevano posto gli occhi sopra di Ernesto e perciò era che si scriveva con molta premura che egli si fosse recato colà.

Capitolo VIII. L’omicida

Carlo, spaventato egli stesso di quello che aveva fatto, non sapendo più che fare e temendo di essere arrestato, corse a lunghi passi fino alla via La Canebière e colà, introdottosi in una stamberga frequentata da uomini di non molto buoni affari e domandato di un certo tale a nome Simon, che sapeva esser capo di una combriccola di scioperati, gli palesò ciò che aveva fatto e gli fece comprendere che il suo scopo principale era quello non di uccidere la infelice Giuseppina, ma bensì il di lei sposo: quegli che gli aveva tolto, come suol dirsi, il boccone di bocca.

Simon, dopo di avere inteso il racconto di Carlo, chiese con molto sangue freddo ciò che egli volesse.

– Prima di tutto, allontanare da me le tracce della Polizia.

– Questo è presto fatto; aggregatevi alla nostra società ed allora noi vi garantiremo su questo fatto, perché la Polizia difficilmente mette le mani addosso ad uno dei nostri affiliati; ma per far questo c’è bisogno di pagar l’entratura.

– Consiste questo?

– In mille franchi.

– Eccovi un biglietto della Banca di Francia di questa somma.

– Dormite dunque i vostri sonni tranquilli, che il primo punto è assodato. Ma l’altro?

– Voglio vendicami,

– In qual modo?

– Facendo morire il mio nemico.

– Lo uccideremo.

– Egli deve partire per Versailles al più presto possibile.

– Si recasse nel più lontano angolo della Francia, sarà ucciso eziandio[17]: la nostra associazione è diramata da per tutto. Sarà ucciso.

– E non potrebbe essere in Marsiglia?

– Vedremo. I suoi connotati: scriveteli.

– Son pronto.

– Il suo nome… tutto metterete in carta; e colui fra i nostri cui sarà affidato l’incarico nel corso della notte opererà; se poi non potrà riuscirvi, allora le corrispondenze[18] faranno succedere la vostra vendetta in qualunque luogo si vorrà. Eh! giovinotto, non è il primo di questi affari che la nostra società ha menato a termine; ti troverai più che contento di essertici ascritto e ne conoscerai al più presto i vantaggi.

– Il tutto è scritto; che cos’altro bisogna fare?

– Lo vedrai.

Fece un fischio ed immantinente dal fondo della bettola, dove stavano intorno ad un descaccio seduti tanti che non gli avresti dato il nome di uomini, attesoché le loro figure più li facevano comparire lupi feroci e demoni che altro. Costoro ad un cenno del loro capo sederono chi in terra, chi su degli scanni, chi rimase in piedi, ma senza aprire in verun modo la bocca.

– A te, – ripigliò Simon dirigendosi a Carlo – a te, aggiungi a ciò che hai sborsato per essere ammesso nelle corporazione un altro piccolo complimento da farne innaffiare il gorgozzule, poscia ricevi il bacio e l’amplesso di fratellanza e quindi vedrai che dovrà succedere pel tuo affare.

– Ordinate ciò che potete. – disse Carlo.

– Ehi, comare Mignonne, presto, recaci un qualche manicaretto appetitoso e del vino, ma di quello poderoso, da poterci far elettrizzare. Questo galantuomo paga lo scotto.

– Ho capito. – disse una donnona, che a simiglianza della Civetta[19] dei Misteri di Parigi fungeva da ostessa – Vado e vi farò leccare le dita.

– Voglio, intanto, per abbreviar e non farti perdere molto tempo, invertire l’ordine della cerimonia. A voi, abbracciatelo tutti e baciatelo.

Tutti quegli uomini si accostarono immantinente a Carlo ed uno per volta eseguirono ciò, che Simon aveva detto. Fatto questo, la Mignonne ritornò portando in tavola un pezzo di pasticcio, delle acciughe, pane e formaggio ed una buona dozzina di fiaschetti, pasto che fu divorato in un attimo da quei dannati. Quindi, dopo visto il fondo di tutti quei recipienti di vino, Simon riprese l’interrotto discorso:

– A chi spetta la perlustrazione, questa notte?

– A me ed al Guercio. – disse un cotale sulla cui faccia si vedevano le cicatrici di almeno venti colpi di coltello – ma però vi dico, che difficilmente noi due potremo giungere allo scopo di che va in cerca questo mingherlino.

– E come sai tu, quale sia il suo scopo?

– Mal mi sarei acquistato il soprannome di Orecchiacuto, se non avessi inteso dal mio punto dove stavo seduto, in un attimo, tutto quello che il nostro novello compagno desidera. L’amico, colui che deve essere freddato, per questa notte non uscirà certamente di casa e domani invece all’alba partirà in ferrovia per Versailles.

– E come lo sai?

– Come so tutto quello che succede in Marsiglia, della quale città sono la cronaca vivente.

– Ed allora, come si dovrebbe fare per ottenere lo scopo?

– Gettare una moneta in aria, vedere chi di noi fosse favorito dalla sorte di eseguire il tiro che si vuole e, dopo di aver scritto a Parigi a Ladronier, nostro supremo duce, ed a Versailles a Coriolan, consegnare le due lettere al fortunato e far sì che costui s’imbarcasse anch’egli in ferrovia e seguisse messere Ernesto e, dove gli riuscisse, eseguire il colpo.

– Il tuo consiglio è ottimo e sarà posto in esecuzione al momento. Presto, carta, calamaio ed il timbro della società.

Tutto fu recato subitamente e Simon scrisse le due lettere, sulle quali appose il bollo della società; indi, presa una moneta, la gettò in aria e mentre tutti stavano in giro, disse:

– A colui cui questa moneta cadrà più vicino sarà commessa l’operazione.

Pochi secondi dopo la moneta, che era stata spinta molto in alto, cadde e cadde precisamente innanzi ai piedi di colui che aveva detto tutto ciò che si è narrato di sopra.

– Bravo! – disse Simon – Tu hai suggerito il mezzo e tu sei stato il fortunato! Eseguirai dunque tu il difficile incarico.

– Lo farò. I mezzi?

– Sopperirà la società.

– La bottiglia?

– Ve la darò io.

E ciò dicendo Carlo pose nelle mani dell’Orecchiacuto un biglietto da cinquanta franchi, dopo la qual cosa costui gli strinse la mano e disse:

– Farò tutto con la maggiore attenzione, perché voi meritate ogni cosa. I connotati del paziente?

– Eccoli.

– Le due lettere?

– Prendile.

– All’alba sarò nella ferrovia!

– E da Parigi ne scriverai il tutto.

– Lo farò. Caro mio, sarò l’ombra del suo corpo.

– Per ora, sciogliamoci.

– A domani sera.

– A domani sera. Pensa che tu sei dei nostri, domani sera e non devi mancare alle riunioni.

– Ci sarò.

Tutti si separarono. Carlo rimase solo nell’uscire da quel lurido luogo e, nel trovarsi dopo quella brutta scena senza veruna compagnia, incominciò a fantasticare e mille pensieri lo assalivano terribilmente. L’omicidio commesso, fino a quel mo­mento non gli aveva fatto orrore, perché aveva eseguito tutto ciò che fino allora aveva fatto[20] e pensieri estranei a quelli del misfatto commesso gli avevano attutiti i rimorsi e le pene che provava nell’anima per aver privato di vita un’innocente: colei, che finalmente era quella che egli amava.

Ma rimasto solo, mille spaventevoli ombre lo circondavano, mille acute lame di pugnale gli penetravano nel cuore e lo straziavano, lo dilaniavano. Ora vedeva a sé dinnanzi la misera Giuseppina in abito nuziale, bella come un angelo d’amore, immersa nel proprio sangue, che gettava un ultimo sguardo sul­l’omicida, sul suo sposo e sul genitore; sentiva ancora l’ultimo grido che la disgraziata aveva emesso e quello sguardo, quel grido lo facevano fremere, lo facevano inorridire e non sapendo come fare per involarsi all’orrore che lo comprendeva, quasi per non vedere più e per non sentire, si otturava le orecchie e chiudeva gli occhi; ma che, che! Tutto ciò non bastava a fargli calmare le smanie ed i rimorsi! E quando, oltre le dette cose, vedeva anche Ernesto che riceveva nelle sue braccia la derelitta sposa, la rabbia si univa ai rimorsi ed accresceva i dolori che lo straziavano e strappandosi i capelli, stringendo i pugni, si dava a percorrere le vie della città come un forsennato, senza riflettere che un qualche cattivo incontro con la Polizia lo avrebbe potuto perdere. Ma inutilmente cercava fuggire: i rimorsi, l’affanno, il dolore non gli davano tregua ed egli temeva di esser sempre inseguito; ma per quanto faceva, volendo calmarsi, non ci riusciva; e finalmente, vinto dalla stanchezza, corse in cerca di un luogo dove potersi nascondere per prendere riposo e, dirigendosi di nuovo verso la taverna della Mignonne, si fece riconoscere dalla stessa e cercandole un alloggio, che costei gli accordò mercé un compenso, andò a ritirarsi ed a dormire; ma il sonno nemmeno gli fu di refrigerio, perché nel sonno mille sogni spaventevoli lo assalivano più di prima ed egli invece di riposo, provò per tutta la notte pene maggiori di quelle che aveva provate da sveglio.


[1] La guerra franco-prussiana fu combattuta dal 19 luglio 1870 al 10 maggio 1871, seguita dalla guerra civile a seguito della Comune di Parigi (18 marzo – 28 maggio 1871), il sanguinario governo democratico anarco-socialista.

[2] Nel 1871, in seguito alla sconfitta francese nella guerra franco-prussiana e al crollo dell’impero di Napoleone iii, il parlamento, di maggioranza realista, era intenzionato a ripristinare la monarchia. Tuttavia, esso era diviso tra “legittimisti”, che appoggiavano Enrico “v” d’Artois (il Conte di Chambord), e “orleanisti”, che al contrario appoggiavano l’erede di Luigi Filippo d’Orléans, Luigi Filippo Alberto d’Orléans. Alla fine l’assemblea si accordò sulla nomina di Enrico d’Artois, il quale però, rifiutandosi di adottare la bandiera tricolore e volendo invece tornare alla bandiera bianca monarchica, perse diversi sostenitori orleanisti. Il parlamento decise allora di nominare un presidente della repubblica favorevole ai monarchici, Patrice de Mac-Mahon, e di attendere la morte di Enrico d’Artois per nominare re Luigi Filippo Alberto d’Orléans. Tuttavia alla morte di Enrico (1883) sarebbe stata riconfermata la repubblica.

[3] Nobili.

[4] Il castello di Frohsdorf sorge a Lanzenkirchen, in Bassa Austria. Poiché era residenza del conte di Chambord (cioè Enrico v) e poi sarebbe divenuto proprietà di Carlo Maria di Borbone-Spagna, il Carlo vii che troveremo più avanti) era un punto di ritrovo dei legittimisti. Con i mezzi di allora era raggiungibile da Parigi in un paio di giorni di viaggio ferroviario.

[5] Carlo Maria Isidoro di Borbone-Spagna, Infante di Spagna (Palazzo reale di Aranjuez, 29 marzo 1788 – Trieste, 10 marzo 1855), Conte di Molina. Era il secondo figlio maschio di Carlo iv re di Spagna e Maria Luisa di Borbone-Parma: fratello di Ferdinando vii, dopo la Prammatica Sanzione (1830), che in spregio delle leggi dinastiche designava al trono Isabella ii, fu il primo dei pretendenti carlisti al trono spagnolo come Carlo v. Era il nonno paterno di Don Carlos, Duca di Madrid, che appare più oltre tra i personaggi di questo romanzo.

[6] Figlia di Francesco i delle Due Sicilie, Maria Cristina (1806-1878) fu la quarta moglie di Ferdinando vii di Spagna (1784-1833), reggente dal 1833 al 1840 per la figlia Isabella ii (1830-1904), regina di Spagna dal 1833 al 1868.

[7] Straniero.

[8] Causa.

[9] In seguito alla rivoluzione spagnola del 1868 Isabella ii fu detronizzata. Il trono fu offerto al principe Leopoldo di Hohenzollern-Sigmaringen, fratello di Carlo i di Romania. La Francia, per non sentirsi circondata come ai tempi di Carlo v, oppose un veto, per cui il principe Leopoldo il 12 luglio 1870 rifiutò il trono. Ciò tuttavia non pose fine alla crisi internazionale: spinto da un’ondata di fermento nazionale, Napoleone iii acconsentì il 19 luglio successivo a dichiarare guerra alla Prussia.

[10] Originario.

[11] Amedeo di Savoia (1845-1890), figlio di Vittorio Emanuele ii e primo duca d’Aosta, fu Re di Spagna dal 2 gennaio 1871 all’11 febbraio 1873. Nel 1718, infatti, Vittorio Amedeo ii di Savoia aveva ottenuto, a fronte della perdita della Sicilia, la Sardegna e il diritto a succedere al trono di Spagna in caso di estinzione della locale Casa di Borbone. Amedeo venne eletto il 16 ottobre 1870 con il sostegno dal partito progressista, che grazie a brogli elettorali – in perfetto stile sabaudo – deteneva la maggioranza nelle Cortes. Alla sua abdicazione seguì la prima repubblica spagnola (1873-1874).

[12] Le Cortes di Madrid.

[13] Da La sonnambula, melodramma in due atti di Felice Romani, musica di Vincenzo Bellini (1827), atto I, scena III. Segue la cavatina Come per me sereno.

[14] Pianta medicinale.

[15] Pressanti.

[16] Carlos María de los Dolores Juan Isidro José Francisco Quirin Antonio Miguel Gabriel Rafael de Borbón y Austria-Este, Duca di Madrid (Lubiana, 30 marzo 1848 – Varese, 18 luglio 1909), pretendente carlista al Trono di Spagna con il nome di Carlo vii dal 1868 (data dell’abdicazione paterna) e pretendente legittimista al trono di Francia e Navarra con il nome di Carlo xi in seguito alla morte del padre nel 1887.

[17] In ogni caso.

[18] I corrispondenti. La società operava evidentemente come una sorta di succursale della centrale criminale di Parigi.

[19] La Chouette, vecchia orba che tiranneggia la candida Goualeuse, è uno dei personaggi del romanzo di appendice, di argomento sociale, I misteri di Parigi (Les Mystères de Paris) di Eugène Sue (1804-1857), pubblicato a puntate tra il 1842 e il 1843 su Le Journal des débats, e fonte di ispirazione per vari autori francesi ed italiani, tra cui Francesco Mastriani (1819-1891) con i suoi I misteri di Napoli (pubblicato in 93 puntate sul quotidiano Roma tra il 1869 e il 1870). Il nome Mignonne (“piccolina”) è evidentemente ironico.

[20] Perché era stato distratto dall’eseguire quanto narrato.

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