Ernesto Jallonghi, uno scrittore che lasciò molti rimpianti nell’ambiente culturale
\ Mons. Ernesto Jallonghi fu pastore e studioso preclaro, che, per oltre un quarto di secolo, caratterizzò la vita culturale della terra aurunca, animandola con quell’estro peculiare di attento osservatore e di appassionato ed accorto ricercatore, che seppe attingere alle fonti da buon studioso “emunctar naris”, come dice icasticamente il poeta venosino Orazio.
Trattasi di uno scrittore raro, di un operatore culturale di primissimo ordine, di un uomo nobilissimo, a cui tanti devono molto, di un’alacrità prodigiosa e di una vasta cultura storica e filosofica. Un vero umanista, che frugò, con attenzione, negli archivi; uno scrittore che non potrà essere dimenticato e di cui i suoi conterranei devono andare fieri.
La sua esistenza, caratterizzata da una soda pietà mariana, come si evince dal libro “La Madonna della Civita e il suo Santuario!”, si apre ad Itri, terra di Maria, profondamente radicata nel popolo, il 7 marzo 1876, e si chiude il 17 ottobre 1934, vigilia di un giorno particolarmente caro al cuore di ogni abitante di questa ridente cittadina, perché dedicato a S. Luca evangelista, a cui viene attribuito, da una tradizione secolare, un dipinto in tela, di inequivocabile gusto orientale, e che rivela, nell’esame dei suoi elementi, un’origine remotissima, un “profumo di antichità”.
Ernesto, figlio di Michelamgelo e di Giuseppina Manzi ,sorella del celebre astronomo. Visse e maturò, nell’applicazione seria a forti studi, nell’azione concreta, la sua personalità già ben delineata nei tratti essenziali dell’ingegno e del carattere, sin dall’adolescenza. Operò in Roma, nel cuore di un secolo denso di avvenimenti, di continue trasformazioni e di profondi mutamenti anche nello spirito delle popolazioni. In questo contesto storico, lo Jallonghi usò l’ingegno suo straordinario, la sua parola suadente ed illuminante, la penna scorrevole e forbita, dai toni più vari, per esaltare la fede e i valori da essa scaturienti, per spronare e indirizzare.
La sua bibliografia allinea decine e decine di titoli di libri e centinaia di articoli apparsi su giornali e riviste, che testimoniano l’intensa attività letteraria dello studioso dotato di una grande capacità di sondare campi tanto diversi. Dalla molteplicità delle esperienze culturali ci giungerà, sempre, a guidarci e ad educarci, la voce del suo equilibrio, maturato di sconfinata dottrina e di impareggiabile “humanitas”.
Di questo scrittore coltissimo, che ha compiuto tanti “excursus” nella storia e nell’arte, che ha goduto di grande consenso nell’Areopago culturale, bisognerebbe raccogliere in volume gli scritti sparsi in giornali e periodici, che accompagnano e illustrano quasi un trentennio della sua operosa milizia culturale, ricca di acute intuizioni, di luminose interpretazioni, di diagnosi obiettive e rassicuranti. Fino a questo momento, non ci risulta che sia stata varata, ad Itri, alcuna iniziativa da parte dell’amministrazione civica per promuoverne le opere e per sottrarre i suoi interessanti saggi all’oblìo in cui sono caduti. Giovani e giovanissimi di oggi sanno poco o nulla di Mons. Ernesto Jallonghi; vecchi ed anziani ricordano di averne visto sbandierare la figura, unica nel suo splendore, tra il 1935 e il 1945. Poi la dimenticanza più assoluta. Eppure la figura e il valore del prete-scrittore superano l’ambito locale, anche se a questa terra egli ha dedicato varie opere, che testimoniano lo sviscerato amore che lo Jallonghi portò al suo Itri.
Il nome di Ernesto Jallonghi resterà legato, oltre alla biografia di “Fra’ Diavolo”, una monografia di grande rilievo, dalla vivace e colorita eleganza non disgiunta da dovizia e da sicurezza di informazione, in cui lo studioso aurunco ricostruisce il profilo storico ed umano del colonnello borbonico,, e al volume sul santuario della Civita, anche a “Il misticismo bonaventuriano nella Divina Commedi”, opera postuma, a cura del P. Diomede Scaramuzzi, che è una bella sintesi di spiritualità serafica,, studiata soprattutto sulla teologia mistica, di cui Giovanni Fidanza fu l’esponente mirabile, e “La Religiosità del Carducci”, uno studio inteso a lumeggiare alcuni nobili aspetti del pensiero e della vita del poeta versiliano, che così addentro riuscì a leggere nell’ anima dei grandi , di cui pone in luce il fondo non irreligioso. Nel primo “lavoro”, che fu quasi il suo testamento spirituale, Mons. Ernesto Jallonghi, con saggia e prudente esegesi, determina, tra le correnti di pensiero che animano quel mirabile secolo XIII, tra il peripatismo averroistico, l’aristotelismo naturalistico di Bacone, il tomismo e il platonismo agostiniano, il posto che spetta a Dante nel mondo delle idee filosofiche. L’analisi del nostro autore rileva quanto la “Divina Commedia” deve alla tendenza mistica e al francescanesimo ortodosso ; raccoglie le notizie delle relazioni tra l’Alighieri e i francescani ; illustra, nelle tre cantiche, i numerosi luoghi dove l’afflato di S. Bonaventura da Bagnorea gli sembra manifesto. Di questo suo volume, condotto con logica fine, intima e persuasiva, i dantisti ed i medioevalisti dovranno tener conto, perché ha aperto nuovi spiragli a quella lucida interpretazione critica dantesca, che, ancora oggi, non può dirsi esaurita.
Nella seconda pubblicazione, che gli valse gli elogi di Benedetto Croce, lo scrittore aurunco è riuscito a dilavare il profilo del cantore di Satana dalle sovrastrutture e dalle ombre che i dubbi e i travagli della coscienza moderna avevano impresse sulla sua più intima natura e a ricondurre in piena luce il nucleo schiettamente cristiano della sua essenziale ispirazione. La bellissima ode “La Chiesa di Polenta”, dove si dice che abbiamo pregato Dante e Byron, richiestagli allo scopo di raccogliere fondi per dotarla del campanile, getta una luce raggiante sull’oscurità del passato. Nelle
bellissime quartine la commozione e il sospiro del poeta sono troppo veri per essere considerati solo letteratura. La preghiera degli uomini e delle cose, che si fondono in un’unica voce, nell’ “umil saluto”; quell’ aspirazione all’eterno, che sembra si sprigioni da ogni essere creato, al morire del giorno, trovano in questa lirica un’espressione quale potrebbe uscire dall’anima di un credente. Quella poesia, scritta nel 1897, una sorta di resipiscenza religiosa, avrebbe segnato un orientamento notevole nella vita del Carducci, che si sarebbe volto verso il cielo con aspirazioni buone di cattolico ed avrebbe imposto di gettare nell’oblìo la bestemmia del Satana, in omaggio dell’Ave Maria In questo componimento si levano. profonde, le voci della fede, che vibrano, come le armonie del campanile risorto, solennemente ammonitrici. Una viva tendenza religiosa nel letterato di Valdicastello non va negata. Egli era naturalmente predisposto all’idealità dei sogni e della contemplazione, con quel suo fremente cuore aperto a tutte le sensazioni che vengono dall’alto. Anche l’anima sua, come quella di tutti i grandi, sentiva il contatto dell’infinito. Questo suo senso o istinto religioso prova com’egli non rigettasse quella che è la più alta e la più degna delle credenze umane; la credenza di un intelletto, di una causalità trascendente, che opera nel mondo, forza invisibile ma viva di attrazione delle cose e degli spiriti.
La confessione più ardita della divinità è nel famoso discorso per il centenario della Repubblica di San Marino, in cui il Carducci esordì dicendo che in “Repubblica onesta è ancora lecito non vergognarsi di Dio”; affermazione franca e significativa, che rivela un atteggiamento diverso, assunto da che era purtroppo noto per le sue negazioni o bestemmie.
In ultima analisi, possiamo dire che il poeta toscano sentì la forza del divino, ma la sentì senza fremiti e senza entusiasmi, perché era troppo assorbito nei sogni radiosi dell’esistenza e dell’arte. La sue credenze e le sue ansie dell’aldilà non ebbero nessuna ripercussione nella pratica della vita, né costituirono forse mai una gagliarda energia che gli consolasse lo spirito e aprisse anche a lui, come al Manzoni e al Rosmini, vie fiorenti di speranza e di idealità, in cui si rifugiasse dalle malinconie che lo circondavano
Alfredo Saccoccio