ESTATE DI FUOCO a Pontelandolfo e Casalduni
Il 7 agosto 1861 anche Pontelandolfo balza alla ribalta, per recitarvi la parte più tragica dell’intero dramma provinciale. I fatti atroci che accadono, quasi per effetto di una fatalità spaventosa, sono addossati alla responsabilità di un povero parroco: Epifanio Di Gregorio, che è certamente migliore anche dell’immagine costruita dai difensori d’ufficio contro le denigrazioni della propaganda liberale. Senza dubbio egli appare come un fiore di reazionario.
Ma non è una colpa ……… i nemici costruiscono subito la trama di un prete retrogrado, che, per il suo zelo filo-borbonico, non esita a stringere rapporti di solidarietà col capobrigante del Matese, Cosimo Giordano, per il rovesciamento del regime nazionale. Ma tutto lascia supporre che le cose stanno diversamente. In uno di quei rapporti ex post, in cui i sindaci ricostruiscono i fatti per le autorità di competenza, Saverio Golino, responsabile del Comune dal 7 agosto, per la fuga del sindaco Lorenzo Melchiorre e degli altri maggiorenti di turno, fa il punto della situazione con una imparzialità pari all’equilibrio dimostrato nei giorni caldi. Sul vespro del 7 agosto, la banda di Cosimo Giordano, secondo il suo rapporto, ingrossata di una cinquantina di abitanti di Pontelandolfo, decide di penetrare nel paese, per le condizioni propizie della circostanza festiva: i galantuomini fuggiti, i contadini ben disposti, il basso popolo in attesa. Piombano, così, sul paese, e impongono al clero ritornante dalla cappella di S. Donato, di fermarsi, precedere il popolo e la banda con la croce in processione: “il clero, obbligato, ubbidì…”. Poi il consueto Te Deum, le acclamazioni, le puntate sul posto di guardia, i calpestamenti del tricolore, le fucilate allo stemma sabaudo, incendi di archivi, liberazioni di prigionieri, uccisioni, saccheggi… Le notizie si diffondono intorno. Giungono a Campolattaro, la stessa sera, ma lievitate dalla fantasia accesa da assurde passioni, per cui non è il bandito Giordano, ma lo stesso generale Bosco l’autore delle operazioni. Come una pentola sotto pressione, i soldati borbonici sbandati si danno la voce e si chiamano a raccolta per accorrere al cenno del richiamo, la mattina dopo, a Pontelandolfo, dove il bollore è salito a più alti gradi. Lo stesso giorno, 8 agosto, ritornano in compagnia di altri sbandati, a Campolattaro per incitare la popolazione alla rivolta, in favore di Francesco II. La pentola esplode contro i maledetti bersagli politici, simili ad antigeni rovinosi, provocatori di tremende allergie ideologiche. Le case dei signori sono ormai vuote, disertate dalle fughe, esposte a saccheggi, depredazioni e incendi. L’arciprete Daniele Basile, non meno reazionario di Epifanio Di Gregorio, si adopera perchè il tumultuoso drappello degli sbandati resti nel territorio comunale a protezione dei cittadini. Ma questa alternativa non va a genio ad alcuni rivoltosi, che chiedono l’intervento dei filoborbonici di Pontelandolfo, per occupare il paese. Detto fatto: una banda di reazionari circonda il comune e all’alba del 9 danno inizio al rastrellamento. Una preda privilegiata è il palazzo del giudice supplente: Giosuè De Agostini. Saccheggio e Te Deum. Il tumulto finisce qui. Il giorno successivo, partita la banda, si torna al lavoro, come sempre. Solo che ora le fratture e le ferite, le ustioni fanno un dolore infernale. Intanto Casalduni, governato dal sindaco borbonico Luigi Orsini, diventa un covo di reazionari e insieme un centro di rifornimento di generali banditi. Il paese, perciò, mentre a Pontelandolfo e a Campolattaro si suona la tragica sarabanda clerico-borbonica, svolge un ruolo di accompagnamento: la bandiera di Francesco II garrisce al vento sulle finestre illuminate a festa, in un quadro di esultanza incontenibile. All’improvviso, i più impazienti si riversano sulle strade inneggiando a Francesco e a Maria Sofia, poi si abbandonano al comune repertorio di scassinamenti e recitano l’abituale copione di fatti e misfatti. Il sindaco arriva a ordinare il disarmo di tutti i liberali e guardie nazionali; ma la tentazione del saccheggio e dell’incendio comunale non giunge a termine per l’intervento di alcuni personaggi autorevoli. Ma i più scalmanati sono in attesa della banda di Pontelandolfo armati di varie armi, proprie e improprie, per togliersi la voglia di menar le mani e arraffar bottini. Ma anche questa volta i “benpensanti” riescono a ricondurre la calma. Però, di colpo, un gruppo di schiamazzanti arriva in paese, con un prigioniero garibaldino coperto di sfregi e di lividi. Messo in prigione il malcapitato, presto è tratto fuori da facinorosi decisi a regalarlo al fantomatico principe Luigi di Borbone, creduto sul punto di arrivare insieme con il non meno fantomatico generale Bosco. Trascinato sulla montagna, riesce a fuggire e a nascondersi a Fragneto Monforte. Tutto qui il ruolo di Casalduni. Nè fatti di sangue, nè saccheggi, fino al fatale 1l agosto, che forse ha una spiegazione nei fatti accaduti nei giorni precedenti, a Pesco, che bisogna conoscere prima di giudicare il tipo di coinvolgimento e di responsabilità della popolazione casaldunese. A Pesco, infatti, è in atto un calvario di sangue, sin dal giorno 8 agosto. Dopo accese dimostrazioni, sorte in sintonia con Pago e Pietrelcina, il paese resta abbandonato a se stesso, senza Guardie Nazionali e senza pubbliche autorità. Unico maggiorente in sede il giudice mandamentale, che, vittima del terrore, perde la testa e si mette ad accusare i galantuomini del paese di essere carbonari e oppressori del popolo, usurpatori dei beni demaniali. Ma, appena gli si presenta l’opportunità, scappa a Benevento e rovescia le parti, accusando, presso il Governatore, l’ex capo urbano Luigi Orlando, di avergli intimato di mettersi al servizio di Francesco II. Intanto le voci di un grande esercito liberatore borbonico trascorrono di bocca in bocca e si ingrossano, si gonfiano, si arroventano. Sulla scia di queste fantasie arrivano a Pesco, in piazza, i rivoltosi di Pago. La gente si addensa. Tutto si muove e si fa come per effetto di una mano invisibile. Si urla e si impreca. Si leva sui rami dell’olmo, piantato in piazza, una pertica legata a un bianco lenzuolo. Si ordina a tutti l’esposizione della bandiera borbonica. Si chiamano a raccolta gli sbandati del territorio. Si rastrellano fucili e cartucce. Poi tutto scompare nella notte. Il 9 agosto, a sera inoltrata, giunge a Pesco la banda di Francesco Esci da Fragneto Monforte, e ripete l’ordinario rituale di imprecazioni e di acclamazioni, con lo scontato corteo di misfatti. Ma proprio ora che il momento della riscossa sembra imminente, da Benevento parte la macchina della vendetta, al comando del colonnello Gaetano Negri. All’altezza della contrada Mosti, le forze si dividono in due colonne: una compagnia di bersaglieri e una di fanti puntano su Pietrelcina al comando del maggiore Rossi. L’altra colonna marcia su Pesco, dove arriva indisturbata, in un paese già vuoto, a notte inoltrata, tra il 9 e il 10 agosto. L’obiettivo è la casa di Luigi Orlando, in cui si provoca uno scompiglio infernale, per il tempo e per il modo di agire. Si invade il paese, si punta sul bersaglio, si investe il portone. Gli abitanti del palazzo sono prelevati semivestiti e spinti a calci e pugni verso l’olmo al centro della piazza ancora sormontato dal bianco lenzuolo. Sul tronco Luigi viene legato, mentre il colonnello Negri lo accusa di essere promotore della rivolta. L’ordine di fucilazione è perentorio. Il figlio, sacerdote, fa appena in tempo a dargli l’assoluzione. Poi il cadavere ancora sanguinate viene esposto allo sguardo sbalordito dei presenti, ad deterrendum. Nel frattempo a Pietrelcina la banda di Pelorosso, di circa 400 uomini, subisce un rovescio terribile, per un attacco a sorpresa del maggiore Rossi. Ma il 10 agosto sopravviene in aiuto della reazione la formazione di Francesco Esci, che, però, si rende conto della difficoltà di prendere l’iniziativa e gira verso Fragneto Monforte, dove si sfoga con un saccheggio generale. Il colpo sofferto da Pelorosso sollecita il brigante, ormai tramortito, a ritornare verso l’interno, nella zona più sicura di Toppo dei Felci. Ma il colpo subito dal prestigio delle autorità nazionali è tale da lasciarle sgomente. Una lettera del sacerdote Giovanni De Agostini al padre Giosuè dà la percezione di un cataclisma generale: popolazioni sfrenate, Guardie Nazionali dissolte, palazzi signorili saccheggiati, giudici e parroci in combutta con i sediziosi, monumenti e idoli del potere profanati, spezzati tutti i legami tradizionali. …………… La reazione di Casalduni è come una risposta quasi meccanica all’azione provocatoria di Pesco. L’alba dell’11 agosto annuncia una giornata di strage. La tragica sequenza ha qualcosa di fatale. Il tenente Cesare Augusto Bracci, mandato dal Governatore del Mouse per vigilare sui confini provinciali, penetra, contro gli ordini, in Pontelandolfo, già turbata dai fatti del giorno di S. Donato, dove non tarda a percepire l’ostilità della popolazione e a decidere di scampare nel castello, con i suoi 40 soldati e 4 Carabinieri. Ma si pente subito della soluzione, sentendosi come in una trappola, e conclude di raggiungere S. Lupo, che aveva respinto il giorno 7 la banda di Cosimo Giordano. Ma, appena fuori dal paese, rotola giù dalla montagna una valanga di reazionari, che li costringe a deviare verso Casalduni, dove sono sopraffatti da gruppi armati, condotti in paese e fucilati, per ordine del capomasnada, Angelo Pica, non si sa se con la complicità del sindaco Luigi Orsini e consorti o per iniziativa autonoma dei popolani furibondi per le repressioni di Pesco e di Pietrelcina. I giorni successivi, 12 e 13 agosto, passano come in un delirio paranoico: stordimento, sgomento, angoscia senza fine. Intanto le scorrerie delle bande mettono a soqquadro l’intera provincia. Ma l’ora della vendetta è imminente. La mattina del 14 agosto, Carlo Melegari si accosta a Casalduni alla testa di 4 compagnie di bersaglieri. Destinatario del “desiderio” di Cialdini, che di Casalduni e Pontelandolfo non rimanga pietra sopra pietra, egli, da Napoli a Solopaca, da Solopaca a S. Lupo, in un viaggio che gli dà un’idea abbastanza chiara della situazione di odio e di sangue nel Sannio, giunge a Casalduni, col programma preciso di appagare il “desiderio” del comandante generale: freddo, efficiente, sicuro di sè e della sua causa. Per fortuna, mentre egli si avvicina a S. Lupo, il paese di Casalduni si svuota e piomba in un silenzio di tomba. Gli uomini sono in fuga. Ma le loro case e sostanze sono lì, esposte ai saccheggi e agli incendi. Solo poche persone, tra cui il vecchio e cadente arciprete, finiscono sotto i colpi dei bersaglieri. Compiuta l’impresa il paese resta deserto. Ma non tanto da scoraggiare la cupidigia di Achille Iacobelli, un liberale ancora di cuore borbonico, alla testa di una colonna di Guardie Nazionali e di 7 carri da rapina. Egli vi irrompe a far man bassa di gioielli, argenterie, vestiari, denari a danno persino del capitano delle stesse Guardie nazionali del paese, badando solo all’odore della mercanzia. Tutto sommato, però, Casalduni non paga in vite umane l’intero prezzo del suo delitto. Lo paga invece Pontelandolfo, dove all’alba dello stesso giorno 14, si presenta, come per mandato di un macellaio, Gaetano Negri, ad esigere il conto, sorretto dalla crudeltà del garibaldino Giuseppe De Marco. Cosimo Giordano, accampato con la banda nei pressi dell’entrata, vista la malaparata, a parte qualche colpo, si disimpegna e provvede a far suonare la ritirata. Così il paese, sorpreso nel sonno, resta irreparabilmente condannato alla carneficina. Alcuni cadono sotto i colpi dei bersaglieri, altri periscono nelle fiamme, altri finiscono in accidenti vari. Risparmiate soltanto 4 case di liberali. L’ordine di Cialdini per Negri non spiega la ferocia dell’esecuzione, a parte il fatto che c’è da dubitare di quest’ordine. Il telegramma era giunto al Governatore il 10 agosto, ore 11, un giorno prima della strage del reparto di Bracci, essendo Negri già in viaggio per Pesco. L’11 era passato nelle mani del giudice supplente di Paduli, perchè lo consegnasse al destinatario, fallito il tentativo di un pauroso corriere; solo a macello compiuto era finito forse nelle mani di Negri. Non la ferocia di Cialdini è qui in gioco, ma la spietatezza di Negri, che, a mente fredda, giudica la sua impresa non meno barbara della mostruosa barbarie dei reazionari puniti. Il racconto di Saverio Golino, per il giorno 11, con in più certi dettagli, come l’uccisione di un soldato nazionale in contrada Borgotello, la somministrazione dei viveri ai rifugiati del castello, le iniziative di certuni di chiedere aiuti nei dintorni, il sollecito arrivo in prossimità dell’abitato di gente armata, ecc., coincide con le linee generali della ricostruzione più scrupolosa. Dell’arciprete Epifanio Di Gregorio egli non fa quasi parola se non per dire che la sua dimora “fu la prima casa che bruciò”, essendo un personaggio “in voce di reazionario; e perciò scappato al paese nativo di S. Croce. Egli è poi inseguito dà una giustizia implacabile, che pur riesce alla fine a gettarlo nel carcere giudiziario di Benevento, dove resta sino al 1865, per essere assolto da ogni imputazione, mentre i galantuomini locali, il sindaco Melchiorre e le altre autorità civili, responsabili di aver abbandonato il paese, senza comunicare niente a nessuno, neppure ai diretti superiori, e perciò successivamente deposti, fanno a gara, al ritorno, nel rovesciare sulle spalle del povero prete borbonico il peso della tragedia. Ma non l’onesto Golino, unico notabile rimasto a fronteggiare il pericolo, e perciò unico testimone oculare, tanto più imparziale, quanto più vicino alla parte liberale. Da questa fonte forse deriva la versione più attendibile dei fatti, che poi si restringe o dilata a seconda di interpretazioni più o meno ideologicamente faziose dei comportamenti umani.
da: “IL SANNIO BRIGANTE” – Ricolo Editore, Benevento, 1991
Gianni Vergineo
fonte
http://www.brigantaggio.net/Brigantaggio/Storia/Casalduni3.htm