“FABRIZIO RUFFO RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE DI NAPOLI” scritto da Barone Von HELFERT Vol. Secondo (II)

III SULLA NAVE AMMIRAGLIA DEL NELSON
Il cardinal generale non avea mancato di far pervenire via via alla sua real protettrice in Palermo relazioni intorno ai fatti della campagna, accompagnate regolarmente da lagnanze circa il difetto di danaro e di armamenti. La regina di certo non ne avea colpa, come quella che unica forse in corte si studiava di agevolargli il modo di conseguire ancor più rapidi e più felici successi. Questo carteggio, condotto dal Ruffo veramente con una certa riserva, fu soggetto a più lunghe interruzioni secondo che Tarmata cristiana andò allontanandosi dai lidi del Tirreno e per conseguenza dalia Sicilia (158). Anche il re scrisse ma di rado (159).
Quanto nel real palazzo di Palermo era, come abbiam visto, minore da principio l’aspettazione circa l’impresa di Fabrizio Ruffo, tanto furono maggiori la maraviglia, la gioja e le dimostrazioni di gratitudine, quando, poche settimane dopo la partenza di lui, giunsero l’uno dopo l’altro i lieti messaggi. «Ella fa miracoli con un sì piccolo esercito» gli scriveva la regina il 28 di febbrajo, «si può dire eh(1) Ella crea dal nulla. Qui non c’è che una voce per applaudirle, per vantare il suo coraggio, la sua fermezza, la sua prudenza, il suo senno.» «Come possiamo ringraziarla abbastanza» scrive alcune settimane più tardi, «per avere riconquistate le due Calabrie e ricondotte all’obbedienza, per averci insomma reso il più utile, il più importante dei servigi! La riconoscenza che le debbo posso vivamente sentirla, ma non saprò mai adeguatamente significarla con parole! Ma ella stessa sarebbe commosso se vedesse come qui tutti parlano con ammirazione di lei; il nostro cardinale è nella bocca di tutti, l’eroico cardinale, l’uomo coraggioso e zelante, l’uomo di genio! E pure qualunque cosa si dica di lei è inferiore a quanto Ella merita!»
Nello stesso modo si esprimeva Carolina scrivendo all’imperatore Francesco e alla sua imperial figliuola. Già il 17 si lamentava con loro, che tutto il regno era caduto nella democrazia, che appena una piccola città o due rimanevan fedeli per effetto degli sforzi del Cardinal Ruffo, il quale con zelo indicibile faceva rivivere una specie di crociata. Il 21, più confortata, scriveva che il bravo Ruffo aveva raccolto un piccolo corpo di quattrocento uomini, ai quali avea dato come segnale una croce bianca; andava predicando per le strade, e avea già abbattuti parecchi alberi di libertà. Quattro giorni dopo le prime piccole vittorie del Cardinal generale, quando Monteleone non era ancora nelle sue mani, ella ne piglia argomento di felici speranze: «Nelle Puglie, negli Abruzzi, nelle Calabrie si raccolgono i fedeli, nella Romagna si va sempre più allargando il malcontento, e io credo che se truppe di fuori, sieno russi o quelle del tuo caro marito, prendessero a marciare avanti, sarebbe forse il momento di liberare tutta l’Italia da quei mostri.» E progredendo il cardinale nell’impresa, i desiderj di lei e le speranze crescevano. Sul principio credette la cosa non potesse approdare ad altro che a tenere il nemico lontano dalla Sicilia; poi fu grata al cardinale per avere riacquistato le Calabrie e sgomberatele dagli elementi rivoluzionarj; ma non aveva egli ancora dal tirreno raggiunto il lido jonio, che giù ella vagheggiava il mantenimento d’un regno e la ricuperazione dell’altro: «Conservarci l’uno e riacquistarci l’altro regno» (160). Già il suo spirito vivace pensava all’assalto della metropoli; se non che la fantasia era presto costretta a ripiegare le ali, troppo essendo manifesti i pericoli d’un’impresa, alla quale mancavano sufficienti apparecchi. Che gloria se i calabresi cacciassero i francesi dal regno!… Ma se soggiacessero a una disfatta? E però pensava che bisognasse procedere con gran prudenza, acquistar prima conoscenze e relazioni con le altre province, e chiuder Napoli da vicino a fin che, effettuando i russi il loro sbarco, l’assalto venisse insieme da tutti i lati (161).
I russi eran quelli su’ quali Maria Carolina confortava il general vicario a fare assegnamento; poiché dalla Sicilia stessa, non ostante le continue preghiere ed esortazioni del Ruffo e i più zelanti sforzi della regina, all’armata cristiana non veniva quasi nulla. Su i primi tempi dopo l’entrata del Ruffo in campagna il disegno della corte era che fosse protetto dalla parte del mare, e però una quantità di piccole navi costeggiando lo accompagnassero; per il che furon dati ordini di armare a tal fine galeotte. Ma eran queste appena pronte, che, temendo non potere con esse in quella stagione arrischiarsi sul mare, si pensò di sostituir loro delle feluche, lo quali, come la regina scriveva al cardinale a mo’di consolazione, «presterebbero quasi gli stessi servigi delle galeotte.» Sembra tuttavia che le feluche non arrivassero meglio delle galeotte opportunamente al luogo fissato; e il simile accadde per rispetto ai cannoni che il cardinale badava a chiedere e che non gli furono mai mandati (162).
Del resto i desiderj del Ruffo andavano assai oltre un puro ajuto materiale; il re in persona, così egli fece più volte osservare, doveva recarsi sul continente per rinvigorire con la sua presenza il cuore dei bene intenzionati, ravvivarne il coraggio, assodarne la fedeltà. La regina ne fu del tutto persuasa; ma dipendeva forse da lei? Poteva farne accenni al marito, ma non ardiva adoperare su di lui efficacia diretta: «a siffatti partiti deve decidersi colui medesimo che li concepisce.» Ah se fosse stata lei il re! «Quanto e quanto vorrei essere uomo! sarei già volata presso di Vostra Eminenza, e mi lusingherei che avrei agevolate e spinte le sue tante utili e coraggiose intraprese» (163). Ma non era se non una donna, e le toccava, rimanere a casa senza poter fare altro che porgere da lontano augurj e consigli. E ciò nobilmente ella faceva. Con indefessa attenzione seguiva i progressi dell’armata cristiana e i concetti politici del gagliardo e prode conduttore di essa; in ispirilo era sempre a fianco di lui, riflettendo e pensando agli espedienti da menare innanzi l’impresa. Non bisognava trascurar nulla per attirare a sé e tener ferma la massa della popolazione: amnistia per tutto il passato, agevolezze e favori pel futuro, abbuono di tasse e di doni, abolizione del feudalismo; «principalmente farsi innanzi con tutti quegli ordinamenti, che i francesi, venendo, introdurrebbero guadagnandosi così l’animo del popolo.» Per contrario non andava usato riguardo ai ricchi; si doveva, per esempio, far loro pagare anticipatamente dieci anni di tasse, e innanzi tutto sequestrare i beni di coloro che s’eran buttati in braccio alla rivoluzione: «Gerace, Cassano Serra padre, Vaglio Monteleone accettano ufficj nella municipalità della così detta repubblica, ed io vi fo osservare che i beni loro sono situati in Calabria; Riario, Canzano, Auletta, Montemiletto, Marsico, Roccaromana non posseggono, io credo, niente in Calabria, ma sono ribelli dichiarati» (164).
Questi esempj di mancata fede, di doveri trascurati e di vergognosa ingratitudine, che in tutte le relazioni pervenuto dal continente si rinnovavano, questi amari disinganni per parte di coloro che la corte nei giorni di felicità e di splendore avea contato fra i suoi più fidi, davano maggior risalto alla condotta del Cardinal generale e a quella delle popolazioni di campagna che alla voce di lui premurose da tutti i lati accorrevano. Di fronte agli sleali Ferdinando si mostrava assai più severo di Carolina, la quale, tuttoché in principio alle idee del marito partecipasse, pure in ciascun caso, quando avvertiva segni di sincero ritorno alla fede, era sempre inclinata a lasciar luogo piuttosto alla clemenza che al diritto (165). Se il Ruffo andò anche più innanzi e, per rispetto alle confische e alle pene personali, dissuase di adoperare tutto il rigor dei principj, egli mostrò senza dubbio gran prudenza politica, alla quale forse si accompagnava un’innata inclinazione a mite e conciliativa indulgenza. Apparteneva a una razza di signori potenti e ricca di possessi, la quale nelle prime famiglie del regno avea rami; non erano forse suoi pari quelli su cui doveva cadere la inesorabile ira del suo real padrone? Non erano anzi legati a lui con vincoli di parentela o di affinità coloro che intorno al suo proprio germano, il duca di Baranello, dimoravano ancora nella ribelle metropoli, né pel momento egli poteva sapere se e quanto si fossero lasciati, magari a malincuore, trascinare nel turbine repubblicano? Il cardinale avea trattenute a suo fratello le rendite dei bèni posti nella Calabria meridionale; ma poteva tornargli indifferente, nel caso che il lor padrone feudale non riuscisse a purgarsi di ogni complicità nel delitto di alto tradimento, che quei beni fossero staggiti e ricadessero allo stato? Forse per riguardo dei meriti di uno dei membri della famiglia non si arriverebbe a tanto; ma se la severissima punizione fosse, come principio, ammessa, si estenderebbe si fatta eccezionale clemenza ai lontani parenti, ai cugini e cognati, ai più cari amici e favoriti?…
I messaggi che giungevano dall’armata cristiana a Palermo, avevano una efficacia benefica sulle condizioni dell’isola.
In generale colà le disposizioni non eran cattive, la corte e il governo si adoperavano in diversi modi a tranquillar gli animi, facevano fare ai fornaj distribuzioni di pane ordinario, in parecchi degli alti ufficj collocarono persone nate in Sicilia (166). Tuttavia nascevano a volte disordini, sedizioni e sommosse che lasciavan supporre pericolose influenze di dentro o di fuori, e parer desiderabile che di qua dal Faro fosse al più presto possibile schiacciata la testa al serpente. «La repubblica vesuviana dev’essere annientata,» scriveva la regina al cardinale, «o il cattivo esempio farà sorger presto una repubblica mongibelliana.» Il Cardinal Ruffo co’ suoi calabresi era in fatti riguardato come il salvatore dai due lati, sul continente e in Sicilia, poiché ciascun suo annunzio di vittoria sgomentava i segreti giacobini dell’isola e li tratteneva dal farsi avanti coi loro disegni intesi a rovesciare gli attuali ordini di governo.
Non mancavano certamente di tanto in tanto dissensioni dall’una e dall’altra parte dello stretto, alle quali davan luogo per lo più questioni di persone, come accade spesso nei pubblici affari, massime quando se ne mischia una donna. Degli ufficiali che avevano seguito la corte in Sicilia appena qualcheduno s’era accompagnato al Cardinal generale, allorché questi, non essendo militare, appartenendo anzi al ceto ecclesiastico, era partito di Palermo per riconquistare al suo re, alla sua regina, mezzo regno perduto. Ma quando l’impresa cominciò a sembrar meno difficile di quel che prima si credeva, ne vennero fuori parecchi desiderosi di aver la loro parte negli allori di una campagna, secondo essi, poco pericolosa. La regina Carolina si tenne generalmente assai riservata; anche quando da altri lati le venivano raccomandazioni e proposte, che eran poi subito trasmesse al quartier generale dell’armata cristiana, ella significava espressamente al Ruffo che non s’intendeva punto menomare la piena autorità delle sue decisive risoluzioni; doversi egli semplicemente servire di quelle persone che stimava atte a prestare utili servigi (167). Tuttavia ella non potò sempre tenersi in disparte. Da un lato la sua femminile irrequietezza e impazienza, la sua vivace suscettibilità verso le nuove impressioni rendevano la sua conoscenza degli uomini imperfetta e fallace; da un altro lato facevan ressa frotte di persone che, o chiedendo per sò o per altri, si recavano a Palermo, si affollavano intorno alla corte, portavano da Napoli messaggi, vantavano la loro propria fedeltà, se ne dicevan vittime o pronte a divenir tali; da tutto ciò a volte nascevano per necessità inconvenienti ed errori, su i quali l’accorto ed acuto cardinale, che avea preso su di se tanto carico, non voleva e non poteva passar sopra (168). Talora entrò di mezzo personalmente il re sotto pretesto che il cardinale gli avea manifestato il desiderio che gli mandasse dei generali. Però quando il Ruffo acconsenti o chiese che gli si mandassero il NarbonneFritzlar, già oltre negli anni ma per lunga dimora in Calabria conoscitore del paese e degli abitanti, ovvero uno degli Tschudv, egli intendeva che gli dovessero portare rinforzi; poiché ufficiali senza soldati gli erano di poco giovamento (169).
Da un’altra parte parecchie disposizioni del cardinale intorno ad affari personali, come per esempio la nomina del Petroli che in Catanzaro avea fatto causa comune co’ repubblicani, o per contrario l’imprigionamento di Diego Naselli, fecero cattiva impressione nei circoli di corte a Palermo, e senza dubbio somministrarono argomento a quelli che si sforzavano di farlo cadere dall’alto favore della riconoscente regina. La quale non fece mistero di tali chiacchiere col Ruffo, dichiarandosi convinta ch’egli avesse avuto buone ragioni per operare in quel modo (170); se non che, come accade sempre a questo mondo, qualche ombra sì fatti intrighi lasciavano nell’animo di Carolina, nel quale l’immagine di Fabrizio Ruffo, già così risplendente, cominciò ad offuscarsi. In generale però prevalse sempre il sentimento di gratitudine verso i grandi e maravigliosi servigi da lui prestati alla causa reale. La regina operò veramente da donna, in modo da far ricorrere il pensiero ai tempi della cavalleria, agli uomini che combattevano in campo e alle donne ohe filavano e cucivano in casa, quando deliberò di dedicare ai fedeli che pugnavano per il diritto e per i possessi de’ suoi figliuoli un segno della sua grazia e riconoscenza reale, atto a confortarli, a ravvivare ed accendere il loro coraggio. Scelse a tale ufficio una bandiera, e insieme con le tre figliuole Cristina, Amalia e «Toto,» e con la nuora Arciduchessa Clementina lavorò a ricamarla; persino il piccolo Leopoldo dové mettervi mano (171). Da un lato dovevano esservi trapunte in oro le armi reali, dall’altro il segno della croce con le parole «In hoc signo vinces.»
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Né al cardinale Fabrizio Ruffo né all’impresa da lui condotta si mostrò fin dal principio favorevole l’eroe di Abukir, diventato oramai anche cittadino onorario di Palermo con diploma statogli presentato solennemente in cassetta dorata da una deputazione municipale. Il Nelson era ambizioso e suscettibile, geloso di qualunque gloria che non toccasse la sua propria nazione; di qui la sua avversione ai russi, mentre la regina, non ostante il rispetto, anzi l’entusiasmo che professava pel suo liberatore» e «protettore,» non poteva non esser convinta che senza la cooperazione della Russia non si approderebbe a nulla (172).
E ora l’orgoglioso britanno doveva partecipare al merito della riconquista di Napoli con un uomo estraneo al mestiere delle armi di terra e di mare, con un uomo in sottana che s’era messo a quell’impresa non altrimenti che a un giuoco arrischiato! Per molte settimane Lord Orazio non chiese nessuna notizia di Fabrizio Ruffo. Il 2 di marzo per la prima volta, scrivendo per affari di servizio al conte St. Vincent, e’ fece menzione di «un cardinale,» senza neppure citarne il nome, il quale nelle Calabrie «by preaching and money» avea raccolto una quantità di gente; «ma non si può dire ancora se tutto è perduto o se qualcosa potrà salvarsi. Dipende dall’imperatore. Appena questi si metterà in moto, io prenderò tutte le navi disponibili e andrò nel golfo di Napoli per respingere il nemico — to create a diversion.» Quattro giorni dopo scrivendo al conte Spencer il Nelson tornò sul medesimo argomento: «In Calabria il popolo abbatte gli alberi della libertà; tuttavia io non giudicherò assicurata una parte del regno di Napoli e neppur la Sicilia, finché non avrò sentito che l’imperatore è passato in Italia.» Solo in uno scritto del 12 diretto a William Sidney e J. Spencer Smith egli affermò essere tutta la Calabria tornata all’obbedienza, tutto il paese sino a 40 miglia da Napoli aver sentimenti di devozione al re, la Puglia e Lecce non tollerare punto i francesi, insomma francesi e napoletani essere cordialmente stufi gli uni degli altri.
Il Nelson non perdeva d’occhio un sol momento l’impresa contro la metropoli continentale; ma non avea vele sufficienti. Il 10 di marzo cinque grosse navi da guerra e due legni da trasporto gli condussero da Minorca il 30° e 89° reggimento di fanteria, circa 2000 uomini (173), ma senza cannoni; il loro duce, luogotenente generale Carlo Stuart, non rimase più di tre ore a terra; egli e i suoi soldati si recarono già il giorno seguente parte per terra parte per mare a Messina, dove rinforzarono il presidio della cittadella; altri 3000 uomini dovevano ancora venire (174). Da un giorno all’altro il Nelson aspettava le navi ch’egli avea richiamate dalla squadra egiziana. Intanto si sforzava di procurare a re Ferdinando tranquillità dal lato dei barbareschi. Con questo proposito anche la Porta aveva nel trattato del 21 di gennajo offerto i suoi buoni uffici. Il Nelson non si stancava di rappresentare istantemente ai Bey di Tunisi e di Tripoli, o con lettere a loro scritte o per mezzo del console inglese, che avessero oramai a far cessare le antiche liti, che tutte le potenze dovessero unicamente rivolgere gli sforzi loro a fare sparire dalla terra il Bonaparte e i francesi, bande di omicidi, di oppressori e di miscredenti; che entrambo i Bey erano dalle più gravi ragioni consigliati a non rimanere estranei a tale opera meritoria, poiché se riuscisse ai francesi d’insignorirsi delle Due Sicilie, non tarderebbero a gittarsi su Algeri e Tunisi, come s’era vista quella «orda di ladri» gittarsi già sull’Egitto (175).
Sembra che il Bey di Tunisi facesse buon viso a tali esortazioni. Ma ci furono per contrario delle difficoltà con quello di Tripoli, corse anzi voce ch’egli si fosse buttato nelle braccia de’ francesi. Il Nelson raccomandò premurosamente al console Simon Lucas: «Non tralasci di fargli capire nel modo più risoluto, senza però mancare dei dovuti riguardi, esser causa del gran Signore e della fede maomettana quella che ci sentiamo chiamati a proteggere in qualità di sinceri difensori della Porta contro gli ateisti, gli assassini e i predoni» (176). Sì fatto discorso e la comparsa nel porto di Tripoli della Vanguardia, che il 26 di marzo portò i due scritti, produssero il desiderato effetto, il Bey fece imprigionare tutti i francesi presenti sul suo territorio, compreso il console, sequestrare le fartene francesi che si trovavano nel porto, intercettare un pacco mandato dal console francese al Bonaparte. e simili. Ma non appena la Vanguardia era ripartita che il Bey rimise in libertà i prigionieri e le navi, una di queste lasciò andare verso Malta, e tornò in generale alla sua precedente condotta.
Finalmente il 17 di marzo giunse nel golfo di Palermo il commodoro Troubridge con la maggior parte delle sue navi, Culloden, Seahorse, Zealous e Swiftsure, e con le cannoniere Perseo e Bulldog. Non gli era riuscito di distruggere i trasporti de’ francesi, poiché questi negli ultimi mesi aveano fortificato le opere esterne di Alessandria da renderla quasi inaccessibile, né i cannoni inglesi potevano arrivare co’ loro tiri nell’interno del porto; una quantità di brulotti mandati dal commodoro contro le navi francesi erano stati dalla tempesta distrutti. Il supremo comando nelle acque sirioegiziane era adesso nelle mani di Sidney Smith, che doveva ristringersi a invigilare l’armata francese e impedirne i movimenti. Sir Sidney non era allora troppo nelle buone grazie del Nelson, al quale, almeno secondo che questi s’immaginava, non ismetteva di procurar noje e travagli. Egli, come comandante di una squadra, stava sotto gli ordini del Nelson, ma aveva una missione politica, era una specie di ministro, e in tal qualità giudicava di potere con una certa indipendenza operare, la qual cosa con un uomo permaloso come il Nelson, dava luogo a continue divergenze e a contrasti in sommo grado dispiacevoli. Cosi lo Smith per rispetto ai francesi in Egitto pareva che la facesse da diplomatico e volesse ingerirsi di pratiche e trattati; la qual cosa faceva uscire dai gangheri il Nelson che scriveva: «Non vi attentate di lasciar andar via dall’Egitto né un uomo né una nave i Bonaparte ha meno di 16mila uomini in Cairo, egli deve cadere e cadrà se voi gli tagliate la strada del mare!» (177).
In questi giorni (178), essendo pervenuto a Palermo la nuova che Corfù era stata presa il 3 di marzo dalle armate riunite di Russia e Turchia, si sperò che le pratiche del Cav. Micheroux per ottenere soccorsi fossero per venire a favorevole conclusione (179). Così sperava e desiderava la regina; e lo stesso Nelson si spogliava della sua antica avversione contro gli ajuti stranieri. Il possesso oramai incontrastato delle isole già appartenute alla repubblica di Venezia lasciava libere le squadre alleate; una parte delle navi poteva andare a rinforzare la squadra dello Smith nelle acque di Siria e innanzi ad Alessandria, e un’altra parte operare insieme col capitano Ball contro Malta. Poiché il Nelson avrebbe voluto che l’acquisto di La Valletta fosse tutto merito de’ suoi compatriotti e compagni d’arme; ma disgraziatamente per le esperienze fatte s’era dovuto persuadere, che ciò non riuscirebbe senza la cooperazione dei russi, specialmente dal lato di terra. Né poteva egli lasciar più a lungo tutte le sue navi innanzi Malta, dacché per l’appunto in quel tempo gli venne per parte del conte di St. Vincent l’invito di rinforzare la squadra del commodoro Duckwortb, che aspettava da un momento all’altro un attacco dei francesi o degli spagnuoli. Il Nelson ottemperò all’invito mandando il Belle-rofonte e il Minotauro nelle acque di Minorca, ma nello stesso tempo dal 18 al 21 di marzo dette istruzione a Sir Sidney Smith, che, appena si fossero a lui unite le navi turche e russe, egli dovesse lasciar partire per Palermo il Lione e il Teseo (180).
Quello che oramai più premeva all’ammiraglio inglese era il vedere scendere dalla squadra turco-russa soccorsi sui lidi napoletani. «Fossero già qui!» egli esclamava. «Tutta la classe inferiore della popolazione si accompagnerebbe a loro; e tutti quei traditori, che possono ancora sperare perdono, sarebbero lieti di staccarsi dalla fratellanza francese.» (181) Giunse allora opportunamente da Costantinopoli una lettera del Ludolf in data dei 16 di febbrajo, la quale annunziava l’arrivo di 12,000 russi sotto il generale Hermann e di 10,000 albanesi; si aveva dunque ragione di contare sul prossimo compimento di tal promessa (182). Se non che non si sentiva nulla di movimenti degli austriaci nell’Italia superiore, e neppure degli intendimenti e disegni del gabinetto di Vienna; della qual cosa era forse cagione la mancanza di immediate e regolari comunicazioni tra Vienna e Palermo, dacché non la corte siciliana solamente, ma anche la legazione imperiale (183) rimaneva parecchie settimane, e talora mesi interi, senza ricever nuove dal continente. Il Nelson garriva e tempestava, la regina si lamentava e accoravasi di tal trascuratezza, come se fosse stato in potere della corte di Vienna il mutar lo stato delle cose da quello che realmente era, per effetto dell’occupazione francese allargatasi su tutta Italia e del dominio dello armate nemiche steso su tutti i mari. I soli ragguagli che il Nelson per questo lato ricevesse gli pervenivano dal ministro inglese a Firenze; ma anche quelli eran soggetti a frequenti e lunghe interruzioni; e poiché il Wyndham fino a mezzo marzo non sapeva neppur lui se l’imperatore avesse cominciata o almeno dichiarata la guerra, non era in grado di sodisfare i dubbj del Nelson, a’ cui occhi il Thugut a Vienna e il Manfredini in Toscana apparivano quasi sotto l’aspetto di traditori (184).
In fatti continuavano i francesi a conseguire sulla penisola felici successi, ai quali né l’imperatore né il granduca contrastarono. L’ammiraglio Niza si trovava con una parte della sua squadra nelle acque di Toscana, e cercava, per incarico del Nelson, di salvare quanto ancora salvar si potesse; ma la mancanza di appoggi dalla via di terra e la viltà delle truppe napoletane guastò ogni cosa. Portolongone sull’isola dell’Elba fu preso dai francesi. Il popolo mostrò, come quello di Napoli, la miglior volontà e, rafforzatosi coi galeotti, era disposto a resistere sino agli estremi. Però il comandante Dentice, sebbene il Niza promettesse di ajutarlo dal mare, si perse d’animo; il comandante dell’artiglieria falsificò la polvere; onde il popolo, avuto sentore della cosa, fece di lui sommaria giustizia (185). Del resto la perdita di Portolongone, non sovvenendo solleciti soccorsi, non era se non questione di tempo.
Non ostante tali tristi successi nell’Italia centrale, e la ignoranza in cui s’era tuttora degli avvenimenti di là dal Po e dalle Alpi, l’ammiraglio inglese deliberò di attaccar Napoli dal lato del mare. Anco la corte voleva che non si indugiasse più a lungo. In una lettera del 30 di marzo a Orazio Nelson Ferdinando IV gli dava pieni poteri di fare che un comandante di sua fiducia riprendesse in nome del re possesso delle isole presso il golfo di Napoli, vi distruggesse gli alberi della libertà e le bandiere tricolori, inalzasse la bandiera reale, e rimettesse in piedi l’antico governo. L’impresa fu affidata a Don Michele de Curtis, già governatore di Procida, uomo di specchiata onestà e suddito devoto, conoscitore delle condizioni e degli abitanti di Procida, degno per tutti i rispetti di pienissima fiducia; il quale aveva tutte le necessarie facoltà per operare anco sulle altre isole o sul continente, appiccarvi e mantenervi relazioni, e in tutti i modi rendersi utile col suo consiglio o altrimenti in tutto ciò che si sarebbe per effettuare. Soldati regolari siciliani dovevano accompagnar la spedizione, ovvero raggiungerla appena fossero occupate le isole (186).
Oltre di ciò fu preso un provvedimento di assai pericolosa qualità, probabilmente d’intesa con gl’inglesi, i quali anzi nel quartier generale del Cardinal Ruffo ne furono creduti consiglieri ed esecutori: schiuse le porte delle prigioni siciliane e fatti sgombrare i banchi dei rematori sulle navi di pena, a coloro che le prime e i secondi occupavano, e per conseguenza a ladri, incendiarj e assassini, fu risoluto di concedere la libertà, a patto che dalla spiaggia, dove sarebbero sbarcati, si spingessero nell’interno del paese e chiamassero la popolazione alle armi. Alle piene facoltà, che Ferdinando conferiva al Nelson, aggiunse la preghiera che sul principio la squadra non si mostrasse nella rada di Napoli, poiché ciò potrebbe avere per effetto che i fedeli in città, troppo affrettandosi all’opera, cadessero inutili quanto deplorabili vittime della fedeltà loro; e salvo casi di urgenza e d’inevitabile necessità, s’indugiasse piuttosto l’assalto fino a che dal lato di terra fossero giunti gli ajuti. Si aspettavano da una parte tali ajuti dal Cardinal generale; e poiché per l’appunto le dame di corte avean condotto a termine la loro bandiera «Ai bravi Calabresi,» doveva imbarcarsi Don Scipione della Marra, apportatore di essa, per cercare di farsi strada alla volta di Fabrizio Ruffo; se non che sopravvennero impedimenti, e la partenza del della Marra segui più tardi e per circostanze del tutto diverse. Dall’altra parte si faceva oramai con piena fiducia assegnamento sugli ajuti russi e albanesi; e finalmente, come la regina scriveva al cardinale, anco gli austriaci non potevano restare più a lungo tranquilli spettatori: «Lo Czar ha preso fuoco per la nostra causa, e manda di sicuro da 9 a 10 mila uomini, che per tutta la durata della guerra saranno a nostra intera disposizione;» egli avea dato ordine al Suvorov che russi e inglesi operassero in Olanda; «in Inghilterra tutta la nazione è per noi; mandano sei vascelli di linea, fregate e piccoli trasporti in nostro ajuto» (187). Il Micheroux, che di corto era tornato da Corfù a Palermo, bisognò che si accingesse a novello viaggio. Alcune navi della squadra riunita dovevano far vela alla volta di Zara per prendere i soccorsi russi che si aspettavano e condurli nell’Italia inferiore. In questo mentre il Micheroux con una piccola schiera di soldati doveva sbarcare sulle coste di Puglia o nel territorio d’Otranto per confermare colà i fedeli ne’ sentimenti loro, e richiamare gli sviati a’ ioro doveri; un decreto reale, del 31 di marzo, diretto alle autorità militari e civili e a tutti gli abitanti della Puglia e di Lecce — «cari e fedeli sudditi,» — prometteva che fra breve comparirebbero le truppe alleate e tratterebbero secondo il merito i nemici del nome napoletano (188).
Per assicurare da tutti i lati l’impresa fu deliberato di rafforzare il presidio di Messina e mettere al posto di governatore una persona da farci su assegnamento, poiché le lettere che eran giunte avean volto in certezza il sospetto che il Danero fosse d’accordo col partito repubblicano (189). Ei fu dunque licenziato, e venne in suo luogo il La Torre, fìno allora governatore di Siracusa, uomo non più nella pienezza delle sue forze ma di provata onestà; non c’era d’altronde troppo da scegliere. Gli fu messo a lato il principe Ruffo Scaletta con pieni ed estesi poteri; dall’altro lato stava il comandante inglese con facoltà non meno ampie; cosi che al La Torre non rimaneva in fondo altro che il nome e la rappresentanza (190).
IV
CHAMPIONNET E MACDONALD
I lodatori della repubblica napoletana facevano un gran caso e mandavano altissimo vanto dell’essere appartenute alla classe dei patriotti le persone del miglior ceto, le più agiate e colte, ufficiali e impiegati, dotti e scrittori, negozianti nativi e stranieri, e quasi tutti gli studenti (191).
Più infervorati apparivano quei nobili che, scacciati di Napoli per motivi politici dopo il 90, erano poi ritornati inpatria co’ francesi. Costoro, e con essi numerosi fuggiaschi dalle province dovo il predominio dei realisti li minacciava, e parecchi preti apostati, e monache scappate dai conventi, erano sinceramente devoti alla repubblica, come quelli che tutti ugualmente avean più di qualunque altro ragione di temere il ritorno dell’antico ordine di cose. Dei rimanenti, soliti a correre dietro al cocchio del vincitore schiamazzando e giurando, la più parte aveano solo sulle labbra le frasi e formule in voga, e non tenevano dalla fazione prevalente se non per interesse o per paura. I quali sentimenti tanto più cominciavano ad avere efficacia, spesso contraria fra loro in modo da ingrossare la schiera dei tentennoni che in breve fu infinita, quanto più chiari si vedevano gl’indizj, che la corte non solamente non avea deposto il desiderio e la speranza di riconquistare il regno continentale, ma. come la comparsa del Ruffo sulle coste di Calabria ne facea prova, non mancava di mezzi appropriati a conseguire tal fine. Non pertanto parecchi delle migliori classi sociali non erano teneri delle novità e di coloro che le avevano portate nel paese; e il simile si poteva generalmente dire di quella gran massa di popolazione che, vinta dalla forza nelle funeste giornate del gennajo, ma non punto convertita, anelava il momento di scuotere il violento giogo straniero. E che cosa fosse capace di fare e di misfare, lo aveva in quei giorni di battaglia mostrato; e parevano disposti a mostrarlo daccapo i sanfedisti del Ruffo, chiamati dai patriotti con l’oltraggioso nome di briganti. Qual maraviglia che, considerando tali fatti, anche a quelli s’abbattesse a mano a mano il coraggio, i quali avean salutato e accolto lietamente i francesi, non come liberatori solamente, ma anche come apportatori di nuove idee e di ordini nuovi?
Dell’impresa del Ruffo s’erano avute di buon’ora e da buona fonte novelle in Napoli. Fin dal 3 di febbrajo il generale francese sapeva essere il cardinale partito da Palermo per muovere alla conquista delle Calabrie «con molto danaro ma senza soldati.» Come abbiam visto, le cose stavano in termini affatto contrarj; il cardinale si trovò in breve ad avere armati più del bisognevole, ma del danaro non ne ebbe mai d’avanzo. Vennero a confermar nella capitale quelle prime nuove il Caracciolo e il Perier, che avean parlato col Ruffo nel casino di Pezzo. Da allora in poi non passò giorno che non pervenissero in Napoli tristi notizie intorno ai progressi del cardinale, intorno al continuo aumento de’ suoi seguaci; alle quali notizie si aggiungevano d’ogni maniera menzogne ed esagerazioni, dicendo ch’egli s’era fatto in quei paesi acclamare supremo pontefice, e che, col crocifisso in una mano, con la spada nell’altra, predicava in nome del Dio della pace la guerra civile, la ribellione, il saccheggio (192). Né il cardinale — cosi riferivano i ragguagli giunti alla metropoli — era più solo, tutta la Calabria ulteriore era in piena rivolta contro la repubblica; il movimento si propagava sino al golfo di Taranto; di lì estendendosi pel Cilento verso Salerno sempre più alla città capitale approssimavasi: E lo Championnet cominciò anche a vederne co’ proprj occhi gli effetti. In Cajazzo presso il Volturno l’infima marmaglia, certamente tratta dal desiderio di preda e di vendetta non meno che dalla politica, si sollevò, cacciò via gli ufficiali del governo, sostituì loro altri di sua scelta, e imperversò fino a tanto che la classe dei possidenti, ripreso coraggio, diè di piglio all’armi e, ridotto il popolo in soggezione, chiese alle autorità repubblicane di Napoli protezione ed ajuto (193).
Dopo che la rivoluzione era avvenuta nella metropoli, la tranquillità durò ancora alcune settimane nei paesi a sud est della penisola. Il 1° di febbrejo, quando il Gallo s’imbarcò a Brìndisi alla volta di Trieste, la Puglia intera durava tuttora intatta; solamente in alcune città la fazione repubblicana aveva il disopra (194). Un fatto di qualità singolare provocò quindici giorni più tardi in favore della causa regia una sommossa, che in breve fu imitata in altri luoghi. A mezzo del febbrajo sette Corsi, che, secondo alcuni, erano stati prima ai soldo dell’Inghilterra e all’apparire dei francesi in Napoli non s’eran sentiti sicuri, giunsero alla locanda di Montejasi, villaggio situato sulla strada fra Brindisi e Taranto. Chiesero alloggio e buon vitto, soggiungendo uno di essi per ischerzo, che il principe ereditario era fra loro. Il che essendo udito da qualcuno e propalato nel villaggio, la gente accorse desiderosa di vedere il principe, un certo Corbara, assai appariscente della persona, fu creduto tale, e con tanto maggior persuasione quanto più quegli risolutamente negava e i suoi compagni disdicevano le imprudenti parole. Rimessisi in viaggio, furono precorsi dalla fama; in Brindisi una moltitudine giubilante con dimostrazioni di riverenza gli accolse, per modo che non sapevano più come uscir dall’impiccio. Si ajutarono con una seconda bugia, dicendo che il principe doveva per motivi di altissima importanza recarsi a Palermo, ma che lasciava loro due generali. Così il Corbara, il Colonna e tre altri presero il largo, e a quanto pare si salvarono tutti; almeno il Corbara, il falso principe ereditario, comparve qualche tempo appresso in Palermo, dove gli procurò non poco credito il racconto, che egli non mancò di abbellire, di ciò ch’era a lui ed a’ suoi compagni avvenuto. Il De Cesare e il Boccheciampe, che eran rimasti indietro, passarono presso il popolo l’uno per un duca o principe di Sassonia, l’altro per fratello del re di Spagna, entrambi plenipotenziarj di re Ferdinando, in nome del quale raccolsero numerosi armati che a stuoli da tutte le parti accorrevano (195).
Sembra che, incoraggiato da questo buon successo, il preside Conte Marulli alzasse in quel tempo la bandiera reale e chiamasse all’arme i leccesi; la fama accrebbe a molte migliaja il numero de’ suoi seguaci (196). In Ostuni, provincia di Otranto, per effetto dell’ordine venuto dalla capitale che si dovessero riscuotere le tasse scadute, la popolazione si sollevò in massa, si gittò addosso ai partigiani del nuovo ordine di cose, e di uno, il ricco Giuseppe Airoldi, fece sommaria giustizia, sebbene fosse stato egli appunto, che avea cercato di distogliere le autorità repubblicane da sì fatto provvedimento (197). Sempre più guadagnava terreno la controrivoluzione. Dal Cilento si sentiva dire d’un certo Sciarpa e del suo credito che andava a mano a mano crescendo; egli aveva servito come sottufficiale nelle milizie del tribunale di Salerno, dopo la rivoluzione era stato licenziato, e ridotto quindi a mancar di pane. Negli Abruzzi il Fronio, dapprima chierico poscia armigero del duca del Vasto, vedeva da una settimana all’altra ingrossarsi le file desuoi seguaci; anco giovani nobili si mettevano sotto i suoi ordini; era suo ajutante un barone De Riseis. Oltre il Pronto, erano minori condottieri il Salomone in Aquila, il De Donatis in Teramo, Nicola Durante ed altri. In quelle province montuose dopo la chiamata reale del dicembre 1798 l’insorgere delle bande armate non era mai venuto meno. Così pure nel territorio di Sora, dove facean parlare di sé Michele Pezza, detto fra Diavolo, e i fratelli Mammone; uno de’ quali, per nome Gaetano, mugnajo di mestiere e d’indole sanguinaria e disumana, acquistò in breve un nome terribile. Le contrade dove dimorava furon piene della fama di fatti atrocissimi. Si raccontò sul serio, e persone onorevoli affermarono aver visto co’ proprj occhi (198), ch’egli, tenendosi innanzi il capo ancor caldo della sua vittima, ne beveva avidamente il sangue, e quando questo gli mancava, beveva il proprio o quello di qualche suo amico a cui ordinava si aprisse la vena (199). Il moto anti-repubblicano si propagò di là dai confluì della Partenopea; in molti luoghi dello stato romano accaddero aperte ribellioni. Col presidio che il Roger Damas aveva improvvisato componendolo in gran parte di galeotti, Civitavecchia reggeva sempre, resistendo a parecchi assalti dei francesi.
Il supremo generale di questi non poteva più a lungo indugiare. Mentre una colonna volante, volgendo a nord verso Chieti, saccheggiava Ortona sull’Adriatico e incendiava Guardiagrele dopo averla inondata di sangue (200), lo Championnet mandò due colonne più forti verso occidente e mezzogiorno. L una, di 12 battaglioni e 8 squadroni, circa 6000 francesi con alquanta milizia territoriale, doveva sotto gli ordini del Duhesme sottomettere al potere della repubblica la Puglia, Terra di Bari e la Basilicata; l’altra, composta soltanto di milizie native sotto il comando del generale Giuseppe Schipani (201), doveva operare, passando per Salerno, contro le due Calabrie; e compiuto l’ufficio, le due spedizioni si doveano dal Tirreno e dall’Adriatico dar la mano. Si aveva con ciò manifestamente in mira di opporre una muraglia ai progressi del Cardinal Ruffo, e in seguito, se non riuscisse addirittura di annientarlo, respingerlo indietro e ricacciarlo in Sicilia. Però fra i patriotti della metropoli ce n’era di quelli che, curandosi poco degli allori guerreschi, credevano di conoscere un mezzo più semplice per troncare il capo alla fazione realista, cioè per rendere inoffensivo il papa calabrese; gente fu mandata da loro con l’incarico di insinuarsi presso il Ruffo e spiare il momento opportuno per togliergli la vita.
A di 19 di febbrejo il Duhesme mosse da Napoli in tre colonne; l’una per Benevento e Troja verso Lucerà, la seconda per Avellino e Ariano verso Bovino, la terza, come riserva, dietro la seconda. La prima giunse al termine senza combattere; né anche la seconda trovò resistenza; e il Duhesme potè a dì 23 di febbrajo fare, tra la gioja e il plauso dei repubblicani, la sua solenne entrata in Foggia, la più grande e popolosa città della Puglia. Dista un dodici miglia da essa Sansevero, dove i realisti pugliesi s’erano raccolti; secondo le voci che correvano, il lor numero ascendeva a 12,000, tra gli abitanti atti alle armi della città e della regione circostante, gli avanzi del disfatto esercito reale, e le milizie. Possedevano parecchi pezzi da campagna e non poca cavalleria; e regnava tra loro tanta risolutezza d’animo, che chi avesse parlato di fuga o di resa avrebbe dovuto temere per la sua vita. Quando seppero dell’avvicinarsi de’ francesi, presero una vantaggiosa posizione fuori la città. L’assalto fu dato da due colonne, condotta l’una dal Duhesme in persona, l’altra dal general Foresi. I regj porsero accanita resistenza, ma la forza loro venne meno contro la disciplina e l’arte del nemico. Il Forest si trovò di fronte a una grossa schiera e la caricò, un 3000 uomini rimasero morti o fuori di combattimento, gli altri cercarono scampo nella fuga; i francesi entrarono nella città; e sebbene la trovassero oramai indifesa ed inerme, non mancarono di sfogar la loro spietata vendetta. Ciò avvenne il 25 di febbrajo (202). Il Duhesme si accinse a far progredire le sue forze a mezzogiorno di Foggia; il 4 di marzo assediò Cerignola, ma sopravvenne un fatto che gli fece cambiare indirizzo.
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Quanto più avea saputo lo Championnet ingrazionirsi gran parte dei napoletani — giunsero persino a frugare nelle vecchie matricole di Santa Anna e, trovatovi un Giovanni Championnet, si persuasero che fosse della stessa famiglia, mentre in realtà non aveva che vedere col generale — tanto più era fatto segno all’invidia e all’animosità di molti suoi compatriotti, massimamente del Faypoult, il quale, scacciato da lui, non lasciò nessun mezzo intentato per denigrarlo presso il Direttorio esecutivo. In fatti venne da Parigi ordine che il generale lasciasse il comando, anzi, avendo egli impedito l’azione del potere confidato dal governo al commissario civile, fosse tratto in arresto. Lo Championnet obbedì all’ordine ingiusto, e di prigione in prigione fu condotto a Grenoble per essere ivi giudicato da un consiglio di guerra. La rivoluzione dell’8 preriale gli ridonò la libertà: giustificatosi pienamente e’ rientrò in grazia del governo; ma il comando dell’esercito di Napoli non lo riebbe più.
In difficili condizioni gli successe il generale Macdonald (203). Dalle province settentrionali erano pervenute gravi notizie, che fecero sentire sin presso la capitatela loro trista efficacia. Nello stesso giorno che lo Championnet lasciò l’ufficio, fu annunziato in Casoria, a poche miglia da Napoli, l’arrivo delV Abate degli Abruzzi; la gente buttò via a un tratto le coccarde repubblicane, e mise in pezzi l’albero della libertà, aspettando il re che, com’era corsa la voce, dovea presto arrivare in persona. Per buona sorte dei francesi giunsero quasi contemporaneamente te nuove di vittoria ed i trofei del Duhesme da Foggia, che dettero loro argomento di riprendere animo ed autorità. Un proclama del governo provvisorio dette ai napoletani notizia dei disordini «suscitati negli Abruzzi e nella Puglia da’ vili agenti del profugo tiranno;» ma li rassicurò aggiungendo: «gl’invitti francesi, uniti a’ vostri generosi compagni, volarono colà; gl’insorgenti furono veduti, vinti e puniti;… il generate in capo Macdonald, sdegnando a ragione di collocar fra i suoi trofei le disonorate insegne degli insorgenti, che avrebbero profanati i suoi gloriosi allori, le ha inviate al governo provvisorio per darsi alle fiamme ed estinguersi con esse la memoria funesta degli esecrabili avvenimenti.» Il 18 di marzo alle quattro dopo mezzogiorno, sulla piazza innanzi al Palazzo Nazionale, l’Autodafé fu compiuto (204).
Ma il giubilo dei patriotti fu di breve durata. Quella che essi chiamavano ribellione, ma che in realtà non era altro se non un levarsi lealmente in favore del legittimo sovrano, non doveva lasciarli tranquilli; simile all’idra di Lerna, per un capo che le era reciso gliene crescean due. Ripristinato appena l’ordine in Casoria e imprigionatovi alcuni dei cittadini più autorevoli, ecco che in Pagano presso Nocera un muratore, Luigi Magiorino, eccita il popolo a rovesciar la repubblica; egli e un magnano, Gaetano Contaldo, alla testa di una turba armata di fucili e coltelli sfondano la porta del collegio di San Carlo, e poi si rivolgono contro i più noti patriotti e ne invadono e saccheggian le case. I repubblicani però non penaron molto a vincere la sedizione. I capi di essa furon sottoposti ai giudizio dei tribunali di guerra. Il Magiorino, il Contaldo e il tessitore Carmine Grazioso da Casoria lasciarono la vita sul patibolo; altri furon condannati ai ferri, chi per 10, chi per maggior tempo, chi a vita. Ciò accadde il 10 di marzo (205). Ma il nuovo generale in capo giudicò tanto pericolose siffatte manifestazioni dello spirito popolare, mentre nei paesi del Garigliano superiore e del Volturno i disordini delle bande crescevano, che ordinò al Duhesme di lasciare piccoli presidj in Foggia, Ariano, Avellino e Nola, e ricondurre il grosso del suo esercito nei pressi della capitale (206).
Intanto troppo bene il generale Macdonald riconosceva che con la sola forza non si approderebbe a nulla, anzi si farebbe peggio quando non riuscisse distruggere le radici del male. Al quale intento era egli possibile di giungere senza la cooperazione del clero, che presso quel popolo dal sangue caldo aveva tanto credito e potere? Non ostante la riverenza ipocritamente testimoniata dai generali francesi al santo nazionale, non ostante le assicurazioni da essi fatte al cardinale arcivescovo di non volerlo punto disturbare nell’esercizio del suo ufficio (207), fino allora lo Championnet e il Macdonald avevano a gara compatrioti più libertini contrastato alla chiesa ed. al clero, e più d’una volta offeso i sentimenti religiosi del popolo. Si era proclamata la incorporazione dei bèni ecclesiastici senza avere il coraggio di recarla ad effetto; talché ne venne solamente la conseguenza che i preti si scagliarono senza misura dal pulpito contro il nuovo ordine di cose (208). Ad altre classi e più numerose dette noja l’introduzione del calendario repubblicano, secondo il quale i francesi, e ad imitazione loro i patrioti datavano i pubblici atti; ne nacque infinita confusione, e il culto dei santi, articolo principale della religione napoletana, ne ebbe grandemente a soffrire. Al clero fu severissimamente tenuto gli occhi addosso. Una commissione, preseduta dal Della Torre vescovo di Lettere e Gragnano, ebbe incarico di badare attentamente alle prediche del clero secolare e regolare e all’insegnamento nelle scuole, di compilare un nuovo catechismo che trattasse la morale con linguaggio popolare, di metter da parte i pastori d’anime e prelati che al nuovo ordine di cose contrastassero, e via discorrendo (209).
A poco a poco però nelle classi superiori si capì che, per assicurarsi la cooperazione delle moltitudini più necessaria che mai, faceva mestieri prendere un’altra via. In un proclama In data del «17 ventoso, anno VII (9 di marzo 1799) della repubblica francese una e indivisibile.» e dirette contro il manifesto del real vicario generale in Calabria, il Macdonald così parla: «Popolo napoletano, eccoti svelata la verità. La Provvidenza ha contrassegnato questo memorabile avvenimento…. La religione, ella stessa, e i suoi fedeli ministri, coloro che seguono i precetti del Vangelo, coloro che complici non sono della tirannia e de’ suoi delitti, han proclamato il tuo irrevocabile destino… La parola dei Re fu sempre una parola ingannatrice, e pensa che saresti più che insensato ove tu prestassi fede a quella d’un Re che non è più tale, che ti ha perseguitato, tradito, spogliato e abbandonato.» Due giorni appresso il Conforti, ministro dell’interno, invitò i cittadini arcivescovi, vescovi e prelati a distruggere quello spirito d’insurrezione che continuava ad agitare le loro diocesi, a insegnare al popolo la verità democratica fondata sul Vangelo, a prendere i più severi provvedimenti contro quegli ecclesiastici, cui era piaciuto abbandonare la divina missione di rendere felice il genere umano per divenire ministri della tirannia; «imperciocché la democrazia è fra tutte le forme di governo la più conforme alla mente del Vangelo, e fu commendata da Gesù Cristo.» Per far credere al popolo che il governo parlava sul serio di religione e di Vangelo, il comitato di polizia generale pubblicò un editto col quale, per festeggiare la settimana santa, ordinava che stessero chiusi i teatri, e che il giovedì e venerdì fosse impedito il giro di ogni sorta di vetture per la città (210).
Stimolato dal Conforti il cardinale arcivescovo di Napoli pubblicò il martedì santo, 19 di marzo, una lettera pastorale, con cui ammoniva i fedeli di «prestare sommessione, non già pel motivo umano del timore, ma per dovere di coscienza, e perciò sincera e di cuore, alla temporale potestà costituita» (211). E un ordine della Commissione ecclesiastica ingiunse di leggere e spiegare al popolo dai pulpiti e dalle cattedre, predicando e catechizzaudo, la pastorale del cittadino arcivescovo, di eccitare negli animi la gratitudine verso i beneficj del nuovo governo, e simili. In fatti per questa via riuscì di fare accostare alla repubblica non pochi principi della chiesa, (212) e anche più ecclesiastici di minor grado, i quali, rassicurata la propria coscienza con l’esempio de’ loro superiori spirituali,dettero opera zelante in favore del nuovo governo, «conforme alla vera dottrina del Vangelo.» E cosi l’abate Vincenzo Troysi che compose una messa repubblicana l’abate Michelangelo Ciccone che voltò i Vangeli in dialetto, Giuseppe Belloni che col Crocifisso in mano sulla piazza del palazzo nazionale a più dell’albero della libertà predicò «la religione della libertà e dell’uguaglianza.»
Il ministro avrebbe principalmente voluto vedere il cardinal Ruffo messo fuori la comunione della chiesa; ma per lungo tempo non potette essere indotto a tal passo il collega cardinale Capece Zurlo.
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Sotto la intelligente e moderata amministrazione dello Championnet s’era tuttavia venuta accumulando tanta materia di scontento e di animosità, che sembrava non occorresse altro se non un impulso esterno o una speranza di buona riuscita per accendere da capo il furore dei lazzaroni. Il Macdonald con non minor cura del suo predecessore si studiò di amicare la moltitudine al nuovo ordine di cose; a tal fine, per recarne un solo esempio, permise ai venditori di tener aperte le loro botteghe sino a tarda ora di notte, come era antico e solito costume (213). Circa le prepotenze dei militari, egli ebbe dal Direttorio di Parigi, al quale il malcontento del popolo napoletano non poteva essere indifferente, incarico preciso di citare davanti un consiglio di guerra tutti gl imputati di furti, esazioni e dilapidazioni, qualunque fosse il loro grado, impiego o professione (214).
Cosi pure il Faypoult, che dopo la partenza dello Championnet era ritornato al suo antico posto, si mostrò più mite, prolungò più volte i termini pel pagamento del prestito forzoso, concesse che il terzo, invece che in danaro, potesse rimettersi in oro e argento, in giojelli e altri oggetti di valore, e altre simili agevolazioni. Se non che il provvedimento, per sé medesimo odioso, eccitò maggiormente l’indignazione del pubblico per essersi sparsa la voce di favori concessi ad alcuni, mentre altri erano severissimamente trattati, rinchiusi a Sant’Elmo, o puniti col sequestro de’ loro beni per somma doppia del debito (215). Appariva generalmente che tutto dipendesse dall’arbitrio di coloro che comandavano, i quali del resto non facevano nessun mistero della parzialità loro. «Noi tassiamo le opinioni», rispose un impiegato francese ai lamenti di una signora, il cui marito ufficiale era andato col re in Sicilia.
Di pari passo con si fatti provvedimenti fìnanziarj procedé la leva per la guardia nazionale e per l’esercito. Si voleva trasformar Napoli in un vero e proprio stato militare (216). Era tenuto a servire ogni uomo da 16 a 50 anni, che non avesse macchia di delitto o di vita viziosa, e gravi pene erano minacciate a chi si sottraesse a tal debito. Non erano esclusi né i preti e frati, né i pubblici ufficiali; che anzi nessuno era atto a un pubblico ufficio qualunque se non avesse sodisfatto a quell’obbligo. Generale della guardia nazionale fu nominato Agamennone Spanò, comandante in secondo Gennaro Serra; ajutanti generali Gius. Schipani, Frane. Grimaldi, Frane. Avalos, Ant. Pineda, Gasp. Tschudy, Flaminio Scala (217). Se con si fatto ordinamento s’intendeva rendere più accetto al popoloil servizio militare, perché tutti vi doveano aver parte, il fine non fu raggiunto. Al contrario agli eccessi dei soldati francesi, di cui si durava tuttora a levar lamenti (218), si aggiunsero quelli delle milizie native, le quali tanto duramente a volte si comportavano verso gl’indifesi cittadini, che l’autorità militare si vide costretta a minacciar loro gli effetti delle severe leggi di guerra, poiché adoperavano le armi — cosi è detto in un proclama ufficiale — piuttosto per offendere che per difendere i concittadini.
Sotto il Macdonald al commissario civile francese Abrial fu dato incarico di condurre i lavori di ordinamento. Si fece questi, al contrario del Favpoult, lodare per moderazione e lealtà; se non che, mancandogli, come a tutti i francesi, la conoscenza del paese e delle condizioni di esso, dovette fidarsi di consiglieri nativi, la cui scelta non fu sempre felice. La prima mutazione ch’ei fece fu quella di dividere in due i poteri che sotto lo Championnet erano uniti: la commissione legislativa e la esecutiva. Nella prima sederono Mario Pagano, Domenico Cirillo, Galanti, Signorelli, Scotti, De Tommasi, Colangelo, Coletti, Gambale, Magliani, Marchetti, oltre a molti altri avventizi. La seconda fu composta da Giuseppe Abamonti, Ercole d’Agnese, Giuseppe Albanese, uno dei Ciaja e Melchiorre Delfico; ma il secondo di essi dimorava da trent’anni nei suoi possessi di Francia, e l’ultimo per via della ribellione degli Abruzzi non potè recarsi a Napoli. Alla commissione esecutiva sottostava il ministero, il quale, quasi come a tempo del governo monarchico, si divideva in quattro dipartimenti: interno, De Filippis; giustizia e polizia, Pigliaceli; esteri, guerra e marina, Mantbonè; finanze, Macedonio. In generale tal partizione del potere in due non portò buoni frutti; in tempi come quelli d’interne agitazioni e di esterni e sempre crescenti pericoli, l’unione di tutti i poteri in mano di un dittatore sarebbe stato assai più opportuna che la divisione di essi in diverse e numerose commissioni (219).
In complesso la repubblica tanto pomposamente annunziata e i suoi tanto vantati benefizj andavano sempre più declinando nella comune opinione. I patriotti s’erano sollecitamente appropriato il nuovo frasario francese; fin dal primo giorno in luogo dell’antico calendario avean messo il nuovo co’ suoi nevoso, piovoso, ventoso, col suo anno primo della libertà ovvero anno VII secondo il conto di Francia; e certamente non andavano a rilento nel promettere la pace e felicità universale, nel portare a cielo tutte le qualità e virtù repubblicane, nel condannare e tor via ogni abuso. Ma che cosa faceva questo al popolo, il quale si fermava ai fatti e desiderava vantaggi reali là dove non gli si dava altro che belle parole? (220) La gente ordinaria aspettava dalla tanto strombazzata libertà alleggerimento di pesi e di contribuzioni, abolizione del vassallaggio e dei carichi che ne dipendevano, sebbene né cosi numerosi fossero né così gravi come altrove (221). E massimamente ai contadini facea gola la partizione delle grandi terre della corona, dei baroni, del clero, come quella delle immense cacce reali di Persano che avean cominciato a fare gli abitanti di Campagna e Controne, di Albanella e Altavilla. Anche nei pressi di Napoli, appena aboliti i diritti signorili su boschi, la gente di campagna avea principiato ad ammazzare la selvaggina, ad abbattere gli alberi, a leticare ed azzuffarsi per la partizione del suolo, non altrimenti che se si fosse trattato di beni non appartenenti a nessuno. Alla fine intervenne il governo provvisorio con un decreto che ascrisse le cacce del re ai beni nazionali; ma al contadino, se non doveva averne parte, importava assai che la terra rimanesse proprietà reale o fosse dichiarata possesso della repubblica. Miglior successo ottenne il nuovo governo togliendo la gabella del pesce; con sì fatto provvedimento si cattivò gli animi di tutti i marinari e pescatori della città. Ma allorché volle applicare il provvedimento medesimo all’introduzione del grano e della farina, parve questa al popolo una derisione. Per un pezzo vi era stata sovrabbondanza di grano, pane e viveri d’ogni maniera, perché dalle campagne vicine, temendo sempre il saccheggio per parte de’ francesi, i contadini correvano a portare i prodotti loro al mercato (222). Ma esaurita la provvista, cominciò la penuria e il rincaro, che porse nuovo alimento al mal umore e all’indignazione. Si abolisce la tassa sul grano, dicevano, quando non c’è più in Napoli grano da poter tassare! Le cose che non si trovavano prossime divenivano ogni giorno più rare e salivano, come il sale, la carne e le legna, a prezzi esorbitanti, perché pericolosa per più rispetti era l’importazione di viveri e merci per via di terra specialmente dalle province lontane, dove andava sempre crescendo l’agitazione, e quasi del tutto impossibile per via di mare, dove cosi le navi inglesi e portoghesi come le navi del re ogni comunicazione impedivano.
Né tra i repubblicani regnava più la concordia. I francesi diffidavano de’ nativi, e si mostravano astiosi se qualcuno dei patriotti stava alto nel favore del popolo. Fin dal 6 di febbrajo si era deliberato che la repubblica partenopea dovesse mandare una deputazione alla repubblica francese, per porgere il riconoscente omaggio della figlia alla madre, e raccomandar la più giovane e debole alla protezione e all’appoggio della più vecchia e più forte. A tale ufficio furono alla prima eletti Girolamo Pignatelli e Marcantonio Doria, e aggiunti ad essi come consiglieri, per il caso che occorressero pratiche di affari, Leonardo Panzieri e Francescantonio Ciaja (223). Ma quando più tardi, sotto il Macdonald, si fu sul recare ad effetto quella deliberazione, furono invece deputati ad andare a Parigi il Moliterno e il Duca d’Angri. Forse nei circoli repubblicani si sospettava che non fosse più da aver piena fiducia nel principe; e non si prevedeva che pel debole Roccaromana, il quale, partendo il Moliterno, gli fu sostituito affidandogli anche un comando militare, il caso era precisamente lo stesso. È certamente un notevole riscontro che entrambi questi uomini, che dopo la fuga del re aveano avuto grandissima fiducia e autorità presso il popolo di Napoli ed erano poi stati i principali a invocare la venuta de’ francesi, erano adesso fra i primi che cominciassero a dubitare del buon esito di una causa alla quale s erano con troppa sollecitudine accostati (224). Nel pubblico si credè fermamente che il Moliterno fosse mandato a Parigi sol perché il supremo generale francese desiderava levarsi di torno un uomo amato od autorevole, e oltre a ciò molto reputato nell’arte della guerra; e così pure si fecero maliziosi commenti su altre variazioni di personale che furono decise in seguito nelle alte sfere governative (225).
In generale, appena messa alla meglio in piedi la repubblica, cominciò la caccia agli ufficj, e l’osteggiarsi e denigrarsi scambievole, talché seguivano sempre nuovi screzj fra le file di quelli, i quali non potevano sperare di far saldo e durevole il nuovo ordine di cose che aveano introdotto se non mantenendo inalterata la concordia fra loro. Mentre ne’ primi giorni bastava che altri si chiamasse buon patriotta per poter pretendere senz’ altra prova qualunque ufficio, poche settimane appresso tutti coloro che coprivano alti posti e godevano ricche prebende eran bersaglio alle più violente accuse, alle più atroci calunnie, ai più ostinati attacchi; e parecchi uomini onesti furon privati di cariche, nelle quali avean l’attitudine e la miglior volontà di servire lealmente la patria. Dopo molte dispiacevoli esperienze il governo provvisorio istituì un comitato di cinque persone, il quale dovesse sottoporre a diligente esame tutti quelli che ambivano a un pubblico ufficio; né da tal comitato c’era da appellare; chi era da quello rigettato, rimaneva escluso per sempre. S’intende bene, secondo lo statuto; poiché se un aspirante sapeva armeggiare a modo, cattivarsi il favore della combriccola e far molto chiasso, tutte le objezioni del comitato dei cinque non gli faceano nessun danno e, fosse o no capace, otteneva l’impiego (226).
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