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“FABRIZIO RUFFO RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE DI NAPOLI” scritto da Barone Von HELFERT Vol. Secondo

Posted by on Feb 23, 2025

“FABRIZIO RUFFO RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE DI NAPOLI” scritto da Barone Von HELFERT Vol. Secondo

Il cardinal generale e l’armata cristiana

IL DECRETO REALE DEL 25 DI GENNAIO 1799

Dopo la perdita del regno continentale non restava alla real casa altro che l’isola di Sicilia. Ma se la regina Carolina aveva molto da apporre alla sua nuova dimora e a quelli che vi abitavano, anco i siciliani dal canto loro non sapevano lodarsi di tutto ciò ch’era venuto d’oltre il Faro. Una quantità di persone, che aveano accompagnato eseguito la corte, le erano parte a carico, parte cagion d’inquietudine; costretta a ristringere da ogni lato le spese per le persone di famiglia, bisognava ch’ella mantenesse da 80 a 100 estranei, e si esponesse intanto, di fronte ai permalosi isolani, al rimprovero di aver allagata la Sicilia di forestieri. Tali erano in fatti, secondo loro, i napoletani del continente, incomodi, sgraditi e forse odiati sempre, ed ora anche con maggiore animosità e sfiducia accolti, come quelli cui erano tutte le migliori cariche affidate, mentre i nativi, certamente più atti a conoscere e curare i bisogni dell’isola e i modi da provvedere alla pubblica sicurezza, si vedevano dai più alti posti quasi interamente esclusi.

Ma più dell’avversione contro i compatriotti continentali era aspro in Sicilia l’odio contro i francesi, le origini del quale risalivano ai famosi Vespri. Nelle sue presenti condizioni la real famiglia aveva motivo di chiamarsene contenta. Poiché se occorreva far qualche cosa contro i francesi, i siciliani si prestavano volentieri di là dal bisogno. Quando il 20 di gennajo una nave proveniente dall’Egitto sbarcò presso Augusta 140 uomini, quanti si trovavano ne’ dintorni, marinari e popolani, accorsero per dare addosso ai francesi, 87 ne uccisero, e gli altri respinsero al mare dove furono da una nave napoletana raccolti. Sì fatto odio si estendeva anche ai circoli di corte; e poco dopo l’arrivo di questa in Palermo, fu ordinato in nome di Ferdinando IV che tutti i francesi venuti con essa dovessero lasciar la Sicilia, il che per altro, per la lontananza dell’isola e per la poca sicurezza dei mari traversati da navi da guerra di tutte le nazioni, non era facile di mettere prontamente in atto. Si dettero anche dei casi degnissimi di speciale riguardo, ne’ quali la regina avrebbe volentieri stesa la sua mano protettrice (114). E così sembra che prendesse provvedimenti per accogliere le due sue zie francesi, e con tal proposito mandasse a Taranto una nave per prenderle; se non che poi fu costretta a revocare gli ordini, come colei che tanto meno osava contrastare alla opinione pubblica, quanto più ella e i suoi erano soggetti ai capricci degli eccitabili isolani.

La regina, appena rimessasi alquanto in forze, avea rivolto la sua attenzione alla difesa della Sicilia per il caso che i francesi portassero contro di essa le armi. «Io desidero,» aveva ella scritto fin dal primo dell’anno a lady Hamilton, «di poter pacatamente conferire intorno a ciò col nostro ottimo ammiraglio; poiché tutto quello che vedo e sento non mi fa star punto tranquilla» (115). Non che mancasse, per quanto ella poteva scorgere, la buona volontà; ma gli ordini che la previdenza dei superiori impartiva, erano dai subalterni e dal po polo così lentamente messi in opera e così fiaccamente e trascuratamente condotti a fine, che si veniva a perdere il tempo più prezioso. Carolina non senza ragione attribuiva questo inconveniente ai difettosi ordinamenti dello stato: «Qui non si ha nessuna idea di ciò che vuol dire governo o ordine; non si conosce diligenza né sforzo; erano avvezzi a vivere dall’oggi al dimani» (116). Però non è dubbio che vi contribuiva la sua parte la scontentezza del popolo per essere il governo quasi esclusivamente in mano ai napoletani.

Gl’inglesi non si dissimulavano punto tali condizioni di cose. Non ostante l’affetto verso la sventurata coppia reale, non erano tanto ciechi da non vedere i torti che gl’isolani sopportavano; ed è certamente da notare che lo stesso Nelson, di sentimenti così benevoli e delicati, indicasse il punto, sopra il quale un decennio più tardi il brutale Bentinck dovea fondare i suoi pieni poteri. Tanto è vero che ciò risiede negl’istinti politici della nazione a cui entrambi appartenevano, e che le opinioni e le tendenze, che pigliano origine dalla natura, passano in eredità dagli avi ai nepoti. Sebbene il Nelson probabilmente lasciasse di rado la sua nave, tuttavia sino dalle prime settimane della sua dimora in Sicilia non gli sfuggì che i pubblici affari e gli ordinamenti dell’isola erano tutt’altro che ben condotti, e non senza colpa della corte e de’ più intimi consiglieri di essa (117). Bisognava, a suo avviso, pensar sul serio a dotare il regno di migliori istituzioni, altrimenti era da temere di perdere la Sicilia come s’ era perduto Napoli.

Quanto al più prossimo futuro, così a Palermo come sulla nave ammiraglia inglese si confortavan pensando essere il numero dei francesi (118) talmente esiguo, che aveano abbastanza da fare per prendere e conservar la metropoli, e non che avanzarsi aggressivamente contro la Sicilia, potevano difficilmente attentarsi ad andar oltre nel paese. Se non che col correre delle settimane tal conforto andò dileguandosi, secondo che i francesi si rinforzavano a Napoli e il seme rivoluzionario da essi sparso cominciava a germogliare. Almeno così pareva. È vero che dalle province orientali giungevano a Palermo voci indeterminate che sonavano pienamente favorevoli. Si diceva che in Puglia, Lecce ed Otranto non s’era visto ancora un francese, e le popolazioni da per tutto duravano al re fedeli. Ma di diversa qualità erano le novelle che pervenivano dalle parti occidentali, e specialmente da quelle situate a sudovest, e quindi alla Sicilia più prossime e in continuo commercio con Messina, Siracusa e Palermo. Le isole nel golfo di Napoli erano state le prime a essere attratte nell’orbita della rivoluzione; il 27 di gennajo, cioè quattro giorni dopo la conquista della città, il marchese de Curtis, regio governatore di Procida, dovè far fagotto, e pochi giorni appresso giunse fuggiasco con sua sorella in Palermo. Sul continente erano quasi esclusivamente le città dove i giacobini contro i fautori del vecchio sistema si sollevavano, e ora gli uni ora gli altri prendevano il sopravvento. In molti luoghi la paura degli eccessi della moltitudine avida di sangue e di bottino era cagione che la classo dei possidenti in braccio alla repubblica si gettasse.

Così per una via o per l’altra la rivoluzione avanzava per Salerno e pel Cilento sino alle Calabrie, dove Paola, Rosarno ed altre città compiutamente ad essa si abbandonavano. In Cosenza, città capo della provincia, i realisti formavano un potente partito, il quale per altro in breve rimase al di sotto per cagione, a quanto pare, della mancanza di carattere di un antico ufficiale, per nome de’ Chiara, che era dai fautori della monarchia tenuto per uno de’ loro (119), ma che all’ultimo momento si mostrò alla testa dei rivoltosi patriota, Nella città capo della Calabria ulteriore II la rivoluzione ebbe pieno trionfo. Appena giunse a Catanzaro la nuova dell’entrata de’ francesi in Napoli, i patriotti sollecitamente raccolti, seppero ridurre tutto il potere nelle loro mani; il preside regio, Don Antonio Winspeare, provvedendo alla propria sicurezza, riparò in Sicilia; il Tribunale, pochi giorni prima prodigo di dichiarazioni di lealtà, si fece ligio del nuovo potere e con proclami indegni oltraggiò l’antico. Nella vicina Cotrone il presidio fu costretto a passare al servizio della repubblica, il colonnello Fogliar che lo comandava fu messo in carcere, un antico ribelle, che per aver preso parte alla congiura del Logoteta era stato condannato, fu sciolto dai ceppi e in luogo del Fogliar incaricato del supremo comando militare. Via via la febbre rivoluzionaria sempre più ardente alle città della Calabria ulteriore 1 si estese, sicché da ultimo sole quattro rimasero nelle quali i realisti predominavano: Reggio, Scilla, Palmi e Bagnara. Il che era dovuto principalmente alla vigilanza e all’opera pronta e vigorosa dell’auditor Di Fiore in Reggio. Poi si parlò di un padre Minasi, che prese con buon successo a difendere la causa del re e, raccolta una mano di armati, si fortificò a S. Domenico di Soriano, su i confini della Calabria meridionale (120).

Ma quanto poteva ciò durare? E non durando, le cose volgevan male per la Sicilia. Tutto quello che l’isola possedeva in fatto di armamenti e mezzi di difesa era stato, innanzi che cominciasse la guerra, mandato nel continente, dove nel corso dell’infelice campagna parte era caduta in mano dei francesi, parte, nella confusione che accompagnò la partenza per Palermo, fu lasciata indietro, parte finalmente, che era stata creduta salva, andò perduta per l’imperversare degli elementi: armi e munizioni, approvvigionamenti da guerra d’ogni qualità, cannoni e navi. Onde la Sicilia si trovava quasi del tutto sprovvista. Non vi erano magazzini, né fabbriche di armi, né fonderle; e poiché anco le opere di fortificazione erano state da molti anni trascurate, quel poco che rimaneva ancora appariva o rovinato o in tali condizioni da essere inservibile. Messina però dava con ragione maggior pensiero alla corte, tanto più che il governatore di quella piazza importante, di nome Dañero, era uomo debole e da persone poco degne di fiducia circondato (121).

Il Nelson, spinto senza dubbio dalla regina e da lady Hamilton, scrisse al Niza e al commodoro Mitchell nella rada di Messina, a Carlo Stuart, al Troubridge a fin che pigliassero provvedimenti per la sicurezza dell’isola.

Allora vi fu un uomo che non era soldato di professione e fino a quel giorno avea consacrato l’operosità sua piuttosto al vicino stato romano che alla sua patria, il quale concepì il disegno di trapiantare dalla Sicilia al continente la controrivoluzione, e procedè con tanto valore all’attuazione del suo disegno, con tanta costanza al conseguimento del suo fine, che tanto più ammirabile ci apparisce, quanto più esigui erano i mezzi che i poteri costituiti erano in grado di somministrargli. Sì fatti mezzi — così diceva egli fin da principio a se stesso — doveva principalmente trarli da quel medesimo paese ch’egli voleva riconquistare al suo re; e fece assegnamento sulle relazioni e parentele che la sua famiglia, da lungo tempo risedente nel mezzogiorno della Calabria, aveva in quelle regioni, che essendo vicinissimi alla Sicilia potevano sperare in caso di bisogno dalla Sicilia stessa appoggio ed ajuto.

***

Fabrizio Ruffo, nato il 16 di settembre 1744 a San Lucido presso Paola in Calabria, dove la sua famiglia, a cui appartenevano i feudi di Bagnare e Scilla, di Scaletta (di faccia a Reggio) ed altri, aveva una numerosa dipendenza di sudditi e aderenti, d’impiegati e di ecclesiastici, era figliuolo di Littorio Ruffo, duca di Baranello, e di Giustiniana della casa principesca dei Colonna. Uno zio, Tommaso Ruffo, cardinale della Chiesa romana e decano del sacro collegio, prese sotto la sua custodia il fanciullo, che in tal modo a quattro anni cominciò a riguardare come sua seconda patria Roma. Fra gli amici dello zio e tutore era l’auditore Giovanni Angelo Braschi da Cesena; co’ capelli del quale copiosi e riccioluti volendo un giorno baloccarsi il piccino, e mal soffrendo che l’altro facesse atto di difendersi e d’impedirglielo, preso da sdegno infantile gli menò uno schiaffo, con gran diletto dell’auditore a cui il vivace fanciullo era caro.

Nò mai schiaffo ha certamente portato migliori frutti a colui che lo diede. Mentre Fabrizio compiva la sua educazione nel collegio dementino, il suo protettore Braschi a grado a grado s’inalzava, sino a divenire uno de’ più autorevoli cardinali e a sedersi finalmente nel 1775, come Pio VI, sulla sedia di S. Pietro. Il papa prese da prima il suo giovine amico presso di sé come chierico di camera, poi nel 1785 lo nominò tesoriere generale, nella qual carica il Ruffo non solamente attuò una quantità di provvedimenti utili all’universale, ma rimise in ordine e assetto tutto il sistema delle finanze papali. Non mancò senza dubbio d’attirargli disfavore la fermezza con la quale quei provvedimenti recò ad effetto; una gran parte delle classi privilegiate era sdegnata contro di lui per aver loro diminuito gli antichi diritti feudali; i contrabbandieri l’odiavano e maledicevano perché i nuovi ordinamenti doganali sciupavan loro il mestiere; e via discorrendo. Non si può dall’altro canto negare che il Ruffo corse in molti casi tropp’oltre con le sue riforme e dopo più maturo esame fu costretto a tornare addietro, del che Pasquino e Marforio presero argomento di motteggi, presentando una volta fra le altre l’immagine del tesoriere generale del papa, scrittovi in una mano: «ordine» nell’altra: «contrordine» e sulla fronte «disordine.» Però la vastità delle sue cognizioni era ammirabile; si hanno suoi scritti sulle fonti e condotture d’acqua, sui costumi delle diverse specie di piccioni, sui movimenti delle milizie, sull’equipaggiamento. della cavalleria. I romani in complesso aveano più ragione di essergli grati che di sbeffarlo; il suo nome è collegato a istituzioni di cui dura ancor oggi la benefica efficacia. Nessuno poteva attaccarlo nella interezza del suo carattere pubblico. Anco gli avversarj doveano rendergli giustizia e confessare, che tutto quello a cui egli metteva le mani sapeva con rara energia e con incontrastabile abilità condurlo a fine. Oltre di che si raccontavano di lui tratti umani e pietosi, che lumeggiavano favorevolmente l’indole sua; così per esempio una volta, essendo a caccia nelle paludi pontine — nel prosciugamento delle quali gran parte del merito spettò a lui — s’imbatté in un uomo colpito dalla malaria; e poiché nessuno del seguito si trovava vicino, ei lo caricò sulle sue proprie spalle, e per un miglio quasi di strada lo portò fino alla sua carrozza, nella quale adagiatolo, lo menò a Roma e lo consegnò da sé allo spedale di S. Spirito.

Scoppiata la gran rivoluzione francese, Fabrizio Ruffo attese con grandissimo zelo a mettere in istato di difesa lo stato pontificio, provvide a reclutare, ordinare ed esercitar l’esercito; a restaurare e porre in buon assetto le piazze forti come Civitavecchia; a introdurre riforme negli armamenti e nel servizio dei cannoni, le quali fecero così buona prova e levarono tanta fama, che Ferdinando IV mandò a Roma due ufficiali di artiglieria perché col consenso del papa più da vicino in tal servizio si ammaestrassero. Conferitogli nel concistoro del 29 di settembre 1791 il cappello cardinalizio, il Ruttò lasciò il suo posto di tesoriere, che avea dato modo ai predecessori suoi di accumular grandi ricchezze, e lo lasciò con le mani vuote, tanto che gli fu mestieri di contrarre un imprestito per coprire le prime spese occorrenti alla sua novella dignità (122). Sulla proposta delI’Acton il nuovo cardinale — che del resto avea soltanto gli ordini minori, e per conseguenza non potea dir messa né amministrare i sacramenti né impartire neanche la benedizione (123)— fu invitato a tornare in patria, dove però non ebbe altro se non l’intendenza di Caserta e l’alta vigilanza della colonia di San Leucio, opera favorita del re, assai modesto e tranquillo ufficio per colui che dalla operosità spiegata a Roma aveva acquistato la reputazione di uomo intraprendente e vago de’ più arditi disegni. Tuttavia seppe anche in quell’ufficio rendersi utile occupandosi fra le altre cose nell’allevamento dei bachi da seta. E al suo solito zelo avrebbe di sicuro corrisposto un felice successo, se l’esito sventurato della campagna del novembre 1798 non l’avesse impedito, inducendolo, come tanti altri personaggi di uguali sentimenti, a lasciare la città ed il paese per seguire la corte fuggitiva a Palermo (124).

Pietro Calà Ulloa duca di Lauria, riferendosi alla sentenza di Tacito, che le cagioni delle grandi cose sono per la più parte sconosciute o mal note, congettura che la vicendevole gelosia fra l’Acton e il Ruffo abbia portato a maturità l’impresa di quest’ultimo. E forse l’Ulloa non ha interamente torto. Poiché se ha un alto grado di verisimiglianza l’opinione che l’ambizioso e accorto britanno e l’operoso e appassionato calabrese non sentivano scambievolmente singolare benevolenza, risulta pure dalle lettere del Nelson, ed è da alcune espressioni della regina confermato, che dopo l’arrivo della corte in Palermo nacquero d’ogni maniera malintesi e screzj che dettero per un momento all’Acton Videa di ritirarsi (125). L’arditissimo disegno di muovere dalla punta meridionale della Calabria contro le forze repubblicane Ano alla metropoli continentale, dall’estremo termine del regno cominciar la riconquista di esso, e arrischiarsi a una impresa di tal momento con mezzi così incerti, si confaceva compiutamente col carattere e col grande animo del Bagnare, mentre l’Acton, quando non potè più lungamente contrastare, dovè senza dubbio adoperarsi per attraversar sottomano la via all’incomodo rivale, essergli apparentemente largo di conforti, ma in realtà abbandonare il temerario a se stesso, alla sua follia, alle sue illusioni (126). Dall’altra parte non c’era da far carico all’assennato ministro, che l’esito dell’ultima campagna, tanto dolorosamente e vergognosamente contrario alle sue aspettazioni, gli stesse sempre, come un avvertimento, innanzi agli occhi; dove il general Mack con un bell’esercito di 60,000 uomini avea dovuto soccombere, potrebbe forse trionfare un cardinale di Santa Chiesa col crocifisso in mano? Sulla riuscita degli ampollosi disegni del Ruffo, quando forze alleate non soccorressero, la regina medesima non faceva assegnamento veruno; non ostante la vivacità e l’impazienza del suo spirito immaginoso ella non riguardava quell’impresa se non come un impedimento al progredire dei repubblicani; il cardinale occuperebbe le Calabrie e cerchèrebbe di tenerle, a guisa di antemurale di Sicilia. Questo doveva, secondo lei, essere senza indugio e risolutamente eseguito, poiché il malato era agli estremi e occorrevano estremi rimedj. E il Ruffo, quale ella oramai lo conosceva, era l’uomo da eseguir ciò. Né apprezzava l’ingegno, ne vedeva il coraggio, ne ammirava la operosità indefessa. Quanto le rincresceva di non averlo meglio conosciuto per lo innanzi! non sarebbe stato lui, invece dell’inetto Pignatelli, l’uomo chiamato a difender la metropoli? (127) Ma oramai non c’era da far nulla; non si poteva tornar addietro, bisognava drizzare avanti lo sguardo. Fabrizio Ruffo rimaneva solo ad appoggiarla, ed ella lui. Era lei il miglior amico ch’egli avesse alla corte di Palermo; onde prese cognizione de’ suoi divisamenti, si fece spiegare i suoi disegni, e instancabilmente con lui cooperò. Quando tutti disperavano del buon successo, ella restava non meno del Ruffo ferma nel proposito. Con la pertinacia propria delle donne che, fatto un proponimento, voglion raggiungere il fine, ella tanto tornò sulla medesima idea, che la vide finalmente recata in atto.

E cosi fu pubblicato il dì 25 di gennajo dalla cancelleria reale di Palermo un decreto firmato da Ferdinando, che incaricava il fedel cardinale nientedimeno che di riconquistare il continente napoletano. Vi si diceva che il re sperava soccorsi d’ogni sorta dall’imperatore; il Turco avea promesso il simile, e la Russia altresì, e lo stesso gl’inglesi che si erano obbligati a invigilare con la loro squadra la sicurezza della Sicilia. Per ottenere tal sicurezza e potere appoggiare dalla parte di terra le operazioni sul mare, per impedire commerci pericolosi e tentativi di seduzione dal continente sull’isola e viceversa — «per rendere immune l’una e l’altra parte da ostilità e da mezzi di seduzione» — bisognava in prima linea che nei luoghi ancora liberi delle Calabrie mettessero piede e si fortificassero le milizie reali. Il cardinale nella sua qualità di vicario generale del regno e alter ego del re aveva pieni poteri di adoperar tutti i mezzi che reputerebbe necessarj al ristabilimento della religione, alla difesa della proprietà, della vita e dell’onore delle famiglie, alla ricompensa di coloro che per tal rispetto avessero meriti, e anche alla severa punizione de’ rei. Egli aveva autorità di privare dell’ufficio qualunque presidente e amministratore reale, giudice e impiegato di qualunque grado, e sostituirgli qualunque persona gli sembrasse più capace: «acciò tutti i dipendenti del governo riconoscano nell’Eminenza Vostra il Superiore primario da me destinato a dirigerlo.» Tutti i corpi di esercito ancora raccolti o che fossero per raccogliersi e tutti i comandanti di essi gli dovevano essere sottoposti; e così pure tutte le casse reali (128). Queste ampie facoltà non contenevano che una clausola, la quale, se dalle due parti non si concorreva con pari fiducia,

senza ombra di gelosia e di sospetto, era capace di essere diversamente intesa ed applicata: «Mi darà conto regolare di ciò che sull’assunto avrà stabilito e penserà di stabilire, e sopra di cui vi fosse tempo da sentire le mie risoluzioni e ricevere i miei ordini» (129).

In fatto di danaro furono dati al cardinale 3000 ducati pel viaggio e pel primo equipaggiamento, 500 altri doveva in breve portarglieli il marchese Taccone a Messina; come assegno regolare gli furon promessi 1500 ducati mensili, salvo il di più che gli potesse occorrere per la sua impresa. Pel servizio militare il re mise il suo ajutante, marchesino S. Filippo Malaspina, a disposizione del cardinale; al general Dañero in Messina fu in pari tempo ordinato che si somministrassero al cardinale armi, munizioni e in generale tutti i soccorsi e sussidj adattati.

Con quella rapida risoluzione che gli era propria il cardinal generale, come da indi in poi fu chiamato, prese congedo dalla corte e partì due giorni dopo che fu firmato il decreto, il 27 di gennajo. Avea mandato innanzi nella Calabria meridionale il consigliere Di Fiore, che probabilmente in quella congiuntura era stato chiamato a Palermo, ingiungendogli che dai possessi di Ruffo Scilla e di Ruffo Bagnara levasse quanta più gente armata gli fosse possibile, e mettendosi alla testa di quelli aspettasse sulla spiaggia a nord di Reggio l’approdo del contingente siciliano.

Ma un tal contingente…. mancò affatto; giunto appena in Messina a dì 31 di gennajo il cardinal Fabrizio dové per questo rispetto rimanere del tutto disingannato, come in generale riuscirono vane e false tutte le promesse che gli erano state fatte a Palermo. Il tesoriere generale Taccone non sapeva di ordini relativi al pagamento di 500 ducati; e il general Dañero non credette di potere arrischiarsi a spogliare di uomini e di strumenti da guerra quella città, la cui sicurezza era nelle sue mani commessa. La regina dal canto suo non cessò dal mostrare zelo e avvedutezza. Dal primo momento che il cardinale lasciò Palermo, ella cominciò con lui un carteggio inteso a tenerli entrambi informati, per quanto la crescente lontananza fosse per concederlo, delle circostanze e degli avvenimenti, di ciò che a lui per condurre la sua impresa abbisognasse, e di ciò che ella co’ mezzi che aveva a sua disposizione potesse somministrargli. Il Ruffo era appena arrivato a Messina, e già ella gli mandava una risposta stampata al primo proclama dello Championnet, «a fin che per le Calabrie la diffondesse da sé dove gli sembrasse opportuna; altrimenti la bruciasse.» Qualche giorno appresso gli raccomandava di invitare i soldati e ufficiali del disciolto esercito reale ad accorrere sotto le sue bandiere e a servir da quadri alle indisciplinate masse calabresi. Né si contentò soltanto di scrivere. Si sforzava indefessa di mandargli danaro, armi, munizioni; dava al governatore di Messina ordini a questo medesimo fine; stimolava i fornitori a sollecitare l’esecuzione delle commissioni ricevute, gli armatori a caricare senza indugio e spedire la roba ch’era pronta. Se nondimeno le cose procedevan tutte con lentezza e le promesse non erano compiutamente mantenute, ella non ci aveva certamente colpa. Altro era dare ordini, altro eseguirli; e noi sappiamo in che pessime condizioni s’era in Sicilia per questo secondo rispetto.

E così il futuro vicario generale del regno sin dal principio si vide ridotto a quegli spedienti che il suo spirito vivace, la sua operosità e costanza, la sua risoluta volontà erano per trovare e per mettere in opera. Avendo il Di Fiore scritto da Reggio che i paesi tenuti fino a quel momento in soggezione da lui, qualora non sovvenissero pronti soccorsi, minacciavano di cadere in braccio alla rivoluzione, credette il Ruffo di non potere più a lungo aspettar la risposta che alle domande del Danero e del Taccone dovea giungere da Palermo, e, confidando nella sua stella e nell’ajuto del Dio degli eserciti, mosse da Messina all’opposta riva. L’accompagnavano, oltre il cameriere e un servo, il marchese Malaspina, gli abati Lorenzo Sparziani come segretario particolare, Domenico Sacchinelli come sotto segretario della segreteria (130) e Annibale Caporossi come cappellano, il primo e il terzo romani e nella sessantina. Come insegna gli serviva una bandiera, impressovi da un lato le armi reali, dall’altro la croce con l’iscrizione: In hoc signo vinces,

Per regola di prudenza, forse consigliata dal Ruffo, fu dato da Palermo l’ordine di mandare sotto sicura custodia da Messina a Siracusa tutti i calabresi che erano per motivi politici in prigione (131).

***

Secondo le nuove che si avevano in Palermo della repubblica napoletana recentemente istituita, non c’era nessun motivo da credere che ella dovesse aver lunga durata. Navi di Austria e di Ragusa portavano di continuo siciliani fuggiaschi, che non avean potuto allontanarsi più presto da Napoli e che facevano dello stato di cose lassù descrizioni da destar raccapriccio, narrando come il popolo esercitasse atti frequenti di vendetta contro gli odiati invasori, come ogni notte uccidessero francesi e gli gittassero nel mare che poi ne ributtava nel lido i cadaveri, come si giovassero delle donne loro per adescarli e poi gli ammazzavano, e via discorrendo.

Dal canto suo la regina manteneva, per quanto era concesso, relazioni col continente, riceveva segreti messaggi da aderenti serbatisele fedeli, mandava ragguagli, esortazioni, ordini a coloro che giudicava ancora devoti, al governatore d Ischia, al comandante di Longone; barche d’ogni maniera sotto colore di pesca o di trasporto di comestibili erano adoperate per tenere aperte senza destar sospetto le comunicazioni. Anco manifesti, proclami, giornali ella facea diffondere sulla terra ferma; intendeva bene che parecchi, la più parte forse di quei fogli, andavano smarriti per via, o erano per paura di tradimento distrutti,ocadevano in altre mani; ma pensava pure che alcuni giungerebbero finalmente al recapito; né altrimenti adoperavano dalla parte loro i nemici, che bisognava con le stesse loro armi combattere (132). Se non che doveva convenire che con tutto questo non c’era da avanzare gran cosa, quando non venissero adeguati soccorsi di fuori via, e specialmente l’imperatore non entrasse in campo; senza di ciò il male, ancor leggiero in principio, andrebbe a poco a poco aggravandosi ed estendendosi, e l’animo del popolo, fino allora ancor buono, sarebbe ammaliziato e guasto. Se eran bastati da sei a ottomila francesi a conquistare il regno continentale, di mille soli ne avanzerebbe a impadronirsi dell’isola (133). In tali momenti le sue speranze si ristringevano in angustissimo spazio, e tanto lo sconforto la signoreggiava da farla disperare di tutto e di tutti. In una lettera a Vienna del 28 di gennajo, cioè tre giorni dopo la partenza del cardinale da Palermo, ella scriveva: «Io fido poco nella buona riuscita del Ruffo, che deve conservarci le provincie ancora rimasteci, e rifacendosi dalla Calabria ricondurle alla fedeltà e alla lotta per la buona causa; perché io scorgo il disegno pur troppo ben condotto dei nostri avversari, che riuscirà compiutamente e ci renderà infelici. Ho la trista convinzione, che quando il regno di Napoli sarà in rivoluzione da un capo all’altro, la Sicilia non tarderà a seguire il cattivo esempio, e tal rivoluzione sarà sfrenata e selvaggia; son persuasa che nessuno di noi ne uscirà con la vita salva.»

In fatti indizj rivoluzionarj apparivano in più luoghi delF isola; o almeno nei circoli di corte, spaventati dopo le esperienze delle ultime settimane, si credeva di essere sulle tracce di essi. Non ostante l’ingenita repugnanza contro tutto ciò che veniva di Francia, le parole di libertà e d’indipendenza erano tuttavia tanto seducenti che non potevano non esercitare efficacia sul vivace animo dei siciliani. Accadeva or qua or là qualche disordine, qualche subbuglio, talora qualche piccola sommossa che doveva essere sedata con le armi (134). Per parte della corte non s’indugiò a convocare secondo le forme tradizionali il parlamento, ma senza impromettersene gran vantaggio. Si sarebbero sentiti più sicuri potendo ancora disporre di un esercito, o se il Niza e il Campbell non avessero distrutto il real naviglio, e tutto il materiale di guerra non fosse caduto in mano del nemico. Spogliati di tutti questi strumenti di difesa, si vedevano ridotti in balìa de’ siciliani; e bisognava aspettarsi, così si andava dicendo nel circolo della regina, a vedere un giorno o l’altro rizzare l’albero della libertà: «e questo sarebbe il segnale della nostra fuga; poiché presso a quell’infausto albero noi non possiam rimanere.» Carolina non aveva minor paura di un altro viaggio per mare in quella stagione burrascosa, già stata cagione della perdita di uno dei suoi figli, che non ne avesse pensando all’indole «sanguinaria e selvaggia» degl’isolani, in mezzo ai quali, raccolti in folla e concitati, bisognerebbe passare per andar dal palazzo reale lungo la via Cassaro al porto e alla nave liberatrice. E dove dovrebbero cercar rifugio? Ferdinando pensava all’Inghilterra, che a lei «per più d’un motivo» non andava a genio; ella preferiva, quando fosse necessario cercare scampo in paese straniero, «Pera o Costantinopoli.» Certamente i suol pensieri e desiderj la traevano a riparare nella cara sua patria, o almeno a farvi riparare le due innocenti figliuole e il bambino Leopoldo; ella, suo marito e il suo primogenito dovevano trattenersi fino all’ultimo momento in Sicilia; Mimi, Amalia e Toto troverebbero asilo in Vienna presso i Salesiani del convento della Visitazione della B. M. V., Leopoldo a tutti i casi nel vicino Belvedere, fino a che per l’uno e per l’altro di loro si presentasse occasione di miglior collocamento.

In tali ore d’angoscia l’infelice regina era piuttosto pronta a rassegnarsi a perdere anche la Sicilia che ad abbandonarsi alla speranza di riacquistar Napoli. Sopra tutto però le dava pensiero la sorte di Messina. «Io mi corico la sera,» scriveva ella a Vienna, «e mi alzo la mattina sempre con la paura di sentire che Messina è perduta; perché questa perdita si tirerebbe dietro quella di tutto il regno.» Si giudicava che in Messina dominassero peggiori sentimenti che nelle altre città dell’isola; la qual cosa per la vicinanza del continente appariva pericolosissimo. Oltre di che il comando di quell’importante piazza si trovava in mano del governatore Danero, che da gran tempo alla regina era noto come uomo di debol cervello e ligio alle persone assai dubbie che lo circondavano; tuttavia non le bastava l’animo di licenziare quel vecchio servitore per sostituirgli un uomo più vigoroso e fidato; il che sarebbe apparso tanto più necessario, in quanto che nel porto di Messina si custodiva tutto ciò che in fatto di navi da guerra era rimasto alla real casa: due vascelli di linea, quattro fregate, quattro corvette e alcuni piccoli trasporti. Perciò subito dopo la partenza del Ruffo, la cui impresa non ebbe immediatamente ma doveva avere per effetto una nuova diminuzione di presidio sull’isola, si provò di mandare a Corfù il cavaliere Antonio Micheroux perché chiedesse all’armata russo-turca i soccorsi formalmente promessi, e innanzi tutto almeno 3000 uomini per presidiare Messina. Il Micheroux parti con una lettera del ministro russo Mussin-Puskin all’Usakof intesa ad appoggiare le sue domande (135), e nello stesso tempo con incarichi relativi alle due principesse francesi, che la regina desiderava vedere al più presto possibile in asilo sicuro (136).

Il Nelson giudicava, sebbene Corfú non fosse ancor presa, che i due ammiragli potessero facilmente privarsi di un certo numero di bastimenti da guerra con soldati a bordo e cosi ottemperare, «con vantaggio della causa comune,» al desiderio di re Ferdinando (137). In fatti l’Usakof, al quale si presentò il Micheroux nel giorno 20 di febbrajo, si mostrò pieno di buon volere e tanto maggiormente inclinato a far qualche cosa, perché poco prima eran venute deputazioni da Brindisi e Lecce a chiedere premurosamente ajuto contro le minacce dei giacobini. Ma, oltre che la presa di Corfú, principal proposito dell’Usakof e di Kadir bev, non era ancor riuscita, non erano di tutto punto armate le navi, né gli approvvigionamenti e altri apparecchi pienamente condotti a termine; sicché la faccenda andò in lungo (138). La sola cosa che per il momento potè fare l’Usakof fu di mandare a Brindisi la fregata Sciastlivni e un bastimento mercantile, perché accogliessero le principesse di Francia. Se non che sembra che queste non si trovassero allora in quel luogo ma in Taranto, di dove speravano imbarcarsi sopra qualche nave diretta verso la Sicilia; onde passarono settimane innanzi che la fregata potesse eseguire l’incarico.

È singolare che il Nelson, il quale conosceva cosi esattamente i disegni e le speranze della regina, in tutte le lettere che da tutti i lati scriveva nel febbrajo non menzionasse minimamente il cardinale e continuasse a riguardar le due Calabrie come perdute. Da poi che la «Repubblica vesuviana», com’egli la chiamava, era sorta, e Gaeta, Castellamare, il golfo di Napoli, le isole aveano inalberato la nuova bandiera tricolore, mentre dall’altra parte l’imperatore tedesco, secondo il giudizio dell’eroe inglese ardente d’impazienza, in modo inconcepibile e imperdonabile esitava sempre a far valicare al suo esercito le Alpi, non solamente il continente italiano era divenuto un possedimento francese, ma tutte le monarchie della penisola sarebbero presto o tardi rovesciate, e presa anche la Sicilia (139).

Perciò la difesa della Sicilia dalla parte della terra ferma fu la prima cosa, alla quale il Nelson, d’accordo con la regina, rivolse la sua attenzione. «Se la Calabria è occupata dai francesi,» scriveva egli l’11 di febbrajo all’Acton, «il conservare Messina e la torre sul Faro è di capitale importanza.» Lo stesso giorno mandò al marchese Niza ordine di far partire alla volta di Palermo un vascello di linea; il quale poi portò il giorno 14 da Palermo a Messina 500 uomini per rinforzarne il presidio. Dal lato del mare la squadra portoghese era per il momento l’unica difesa dello stretto verso Reggio, poiché le forze navali del Nelson, sebbene assai rilevanti, si trovavano parte trattenute in diversi punti del Mediterraneo, parte in alto mare, a fin di mantenere le comunicazioni fra le varie stazioni, ovvero per potere a un caso accompagnar sicuramente qualche squadra di bastimenti mercantili appartenenti ad inglesi (140). Il Nelson in persona stava nel porto di Palermo a vicenda sulla Vanguardia o sul Bellorofonte. A Malta il capitano Ball avea tentato nella seconda metà di gennajo un assalto contro il forte di La Valetta; le colonne avean già varcato il primo fosso, quando i soldati nativi— «damn them» scriveva al Nelson al St. Vincent nel 3 di febbrajo — si volsero io fuga, e l’impresa fu abbandonata. Ma fino a che Malta non era sgombrata dai francesi, e sulle mura della metropoli piantata la bandiera di Ferdinando come di «legittimo sovrano,» non poteva il Nelson né richiamare né naturalmente indebolire il navilio che stava colà fermo, il cui comandante godeva dell’amicizia e piena fiducia sua. Il simile accadeva col Troubridge, che incrociava innanzi alle bocche del Nilo con sei vascelli di linea da 80 e 74, una fregata da 38 cannoni e le due cannoniere Perseo e Bulldog, né poteva facilmente cedere alcune delle sue navi innanzi che trasporti da guerra russi e turchi non venissero a sostituirle. Nondimeno il Nelson deliberò finalmente di chiamare il Troubridge con la maggior parte delle sue navi nelle acque tirrene, del che la corte di Palermo gli fu singolarmente grata. Da un’altra parte fu G. L. Stuart invitato a mandar da Minorca 1000 uomini per presidiare il forte di Messina; il qual desiderio si avea motivo di credere che fosse per essere prossimamente compito. Le forze proprie, sulle quali il re poteva fare allora assegnamento per la difesa dell’isola, montavano, secondo i calcoli del Nelson, a 4,000 uomini; 10,000 stavano per essere sollecitamente raccolti e messi in ordine di combattere; al che c’era da aggiungere 26,000 uomini della milizia (141).

In tutti questi provvedimenti non era punto questione di aver riguardo all’impresa del Ruffo, e di appoggiarla dalla parte del mare, come lo stesso real decreto del 25 di gennajo avea promesso. Tanto preoccupava gli animi la sicurezza dell’isola, a cui la sollevazione calabrese nel miglior dei casi serviva di antemurale, e tanto poco presso gl’inglesi avea favore l’audace impresa d’un uomo, che per la sua origine e precedente educazione non era giudicato degno compagno di guerra!

II

RIPRISTINAZIONE DEL NOME E DELL’AUTORITÀ REALE NELLA CALABRIA ULTERIORE

A dì 8 di febbrajo 1799 il Cardinal Ruffo co’ suoi pochi compagni scese a terra presso la Catona all’imboccatura dell’Aleccio (142), dove il preside D. Antonio “Winspeare, il Di Fiore e Don Fr. Carbone, già ufficiale della milizia, a capo di circa 80 uomini l’aspettavano.

Era un venerdì, ed è stato poi notato che tutte le vicende decisive di quell’audace campagna occorsero in tal giorno. Dalla Catona il cardinale, andando lungo la spiaggia, si recò a Pezzo, lontano circa cinque chilometri, dove si acquartierò nel casino del fratel suo, duca di Baranello, e presto fu veduta sventolare sul tetto la sua bandiera. Mandando a Messina la nuova del suo sbarco sul continente pregò che gli si spedisse due pezzi di campagna con le necessarie munizioni. Nello stesso tempo il porporato della chiesa romana pubblicò un manifesto ai vescovi e parroci, e a tutto il clero, e lo fece da celeri messi per ogni dove diffondere; gli invitava «a difendere la religione, il re, la patria, la proprietà,l’onore delle famiglie,» a raccogliere schiere armate e condurle, quelle del piano a Palma, quelle dei monti a Mileto (143). La voce dei sacerdoti tonò dai pulpiti e tutti gli animi accese. Tutti i paesi si commossero e si agitarono; chiunque aveva braccia e gambe sane si armò e scese in campo; i facoltosi, che non potevano andar da sé o non volevano, assoldarono i poveri. Cosi adoperarono specialmente e senza risparmio parecchie corporazioni religiose, i certosini di S. Stefano del Bosco, i frati di S. Domenico di Soriano. Il vescovo di Mileto Capece Minutalo si fe’ zelante sostenitore dell’impresa, provvide all’alloggio delle torme che, condotte da’ suoi preti, precedute dall’insegna della croce e con una piccola croce bianca sul cappello, provviste di viveri per più giorni, da tutte le contrade, da tutti i monti agl’indicati ritrovi affluivano.

Non avea da gran tempo il Cardinal Fabrizio preso possesso del casino di famiglia, quando una piccola nave s’accostò a terra, e ne scesero Don Francesco Caracciolo e un emigrato di nome Périer. Erano diretti a Napoli e, per non cadere in mano degl’inglesi, volevano fare il viaggio lungo le coste parte per terra e parte per mare. Invitati a casa del cardinale, significarono la loro riconoscenza ma non accettarono, non avendo tempo da perdere. Richiesto il Ruffo, che cosa pensasse di fare in quel luogo, rispose: Vedete quella barca? È destinata a ricondurmi a bordo come prima apparisca necessario (144). Non gli riuscì però d’ingannarli; pare invece che il Caracciolo e il Périer lungo il viaggio contribuissero principalissimamente a diffondere la nuova della strana apparizione del Ruffo di qua dal Faro. Del resto, anche senza di ciò, con la rapida ed estesa diffusione del suo manifesto, non poteva a lungo ciò che egli andava apparecchiando rimanere ignoto agli ufficiali della repubblica. Il tribunale provvisorio di Catanzaro, preseduto dal caporuota Vincenzo Petroli, non indugiò un momento a mettere al bando tutti e singoli i partigiani realisti, e a porre una taglia sulle teste del Ruffo, del Fiore, del Carbone. Se non che l’effetto non corrispose all’aspettativa. Il moto realista andò di giorno in giorno guadagnando estensione e forza. Là dove qualche tempo innanzi, eccitate dai messi della Partenopea, s’eran levate le grida: Viva la repubblica, muojano i tiranni!, si sentiva adesso gridare: Viva il re, viva la religione, muojano i giacobini! Guai a chi fosse per questo ultimo rispetto in mala fama! Fin dal terzo giorno dopo l’arrivo del Ruffo un 120 armati da S. Eufemia di Sinopoli comparvero presso Bagnara; i cui abitanti, rimasti perla più parte fedeli al re, credendo che quelli fossero repubblicani, dettero tutti, uomini e donne, vecchi e fanciulli, di piglio alle armi per respingere l’assalto, mentre tre giovani ardenti, facendo assegnamento su pronti ajuti, gridavano: viva la libertà! L’inganno fu presto chiarito, quando quelli di S. Eufemia gridando: viva il re, viva la Santa Fede! si avvicinarono; e allora il popolo di Bagnara diede addosso a quei tre apostoli della libertà e gli uccise (145). I fautori e strumenti del governo francese, non istimandosi più sicuri in aperta campagna, si andarono rifugiando tra le mura delle città, che si vennero popolando di fuggiaschi dalle vicine e dalle lontane contrade. Di queste forze raccolte il partito repubblicano si giovò per opprimere i realisti, tanto più che faceva assegnamento sul prossimo arrivo delle schiere francesi. Apparve in fatti in quel tempo una nave con bandiera repubblicana presso la spiaggia di Cotrone; la quale però non da Napoli per portare ajuto, ma veniva dall’Egitto per chiederne, e sbarcò 32 bassi ufficiali d’artiglieria con un ufficiale e un chirurgo; che furono accolti volentieri come rinforzo del presidio nel forte, e contribuirono non poco ad attizzare il fuoco repubblicano.

In tali circostanze non erano le condizioni dei realisti nelle città meno difficili e pericolose di quelle dei repubblicani nelle campagne. Molti fra essi, per evitar danni a sé ed alle proprie famiglie, nascondevano i loro veri sentimenti ed aspettavano chetamente l’ora che dall’indegno freno gli sciogliesse; altri in non minor numero erano segreti partigiani del cardinale, e gli apparecchiavano la strada. Ma il nuovo reggimento si adoperava esso pure a crescere il numero de’ seguaci del Ruffo. L’abolizione assoluta dei diritti feudali, dei fidecommessi,, dei tribunali provinciali aveva tolto il pane a una quantità di persone; talché poteva, come i mercenarj del medio evo, prenderle al suo servigio chiunque offerisse loro speranza di lavoro e di guadagno. In tal modo a’ ingrossarono di giorno in giorno le schiere de’ volontari, che raccolte presso Palmi e Mileto contarono in breve i loro armati a migliaia. Era certamente la più strana accozzaglia di gente che altri potesse immaginare o dipingere; ricchi possidenti, ecclesiastici d’ogni qualità e grado, cittadini e operaj, armigeri baronali licenziati e militi delle disciolte corti di giustizia. Questi ultimi, come pure alcuni soldati e ufficiali del disfatto esercito reale, erano i soli elementi disciplinati in mezzo a una moltitudine, che pur troppo concorrevano a comporre in gran copia scioperati e bricconi, non tratti certamente sotto le bandiere del cardinale dal sentimento del diritto o dalla devozione alla monarchia, ma piuttosto dai più volgari motivi, dal gusto per la vita sfrenata, dal desiderio del bottino, dalla sete di sangue e di vendetta contro personali nemici. Il Ruffo, massime in principio, non poteva nella scelta esser severo; non avendo a sua disposizione corpi di soldati regolari, come gli avean fatto sperare a Palermo, gli rimaneva l’unico spediente di operar con le masse. Ma queste masse non potea lasciarle lungo tempo disoccupate, mancandogli il danaro per il soldo e mantenimento loro; e perciò riusciva difficile il serbarle in qualche modo ordinate. Ottenne da Messina due piccoli cannoni e poi due obici, ma poche munizioni e per giunta inservibili. Bisognò dunque che pensasse a provvedersi del materiale da guerra per via di contrabbando. Anche uomini per servire i cannoni mancavano affatto; un antico caporale d’artiglieria, De Rosa, assunse provvisoriamente l’incarico di prender cura di quelle armi e d’istruire de’ soldati à metterle in opera.

E così il 13 di febbrajo il Ruffo montò sul suo cavallo di battaglia, e partito da Pezzo alla testa della schiera di Carbone e del suo parco di artiglieria, in tutto 350 uomini (146), si avanzò da prima su Scilla, il cui principe, suo cugino, dimorava nella lontana metropoli. Senza indugio continuò la marcia lungo la costa per Bagnara verso Palmi, dove era raccolta la prima massa di crociati che avean risposto al suo invito. Colà, dal suo «quartier generale,» pubblicò come «vicario generale del Regno di Napoli» in nome di Ferdinando IV un nuovo proclama, col quale esortava tutti i cittadini ad accorrere sotto la bandiera della santa croce e della legittima monarchia, per cacciare gli stranieri dai confini di Napoli e d’Italia, e infrangere le indegne catene fra le quali il santo Padre languiva: «Il vessillo della Santa Croce ci assicura una completa vittoria» (147). Non essendovi in quel tempo in tutte le tre Calabrie neppure una stamperia, il proclama dovette essere scritto a mano, nel che i numerosi ecclesiastici che si trovavano fra i suoi aderenti mostrarono zelo e diligenza grandissima. In Palmi cominciò anche il Ruffo a prendere i primi provvedimenti per ordinare la sua «armata cristiana» improvvisata, che da allora in poi ebbe tal nome. Quell’armata moltitudine fu divisa in compagnie di 100 uomini con tre capi, non subordinati l’uno all’altro ma pari; i già soldati e militi furono raccolti in un corpo distinto sotto gli ordini di ufficiali della milizia territoriale o sottufficiali di linea. Il danaro occorrente fu tratto, con promessa di rivalsa sul tesoro dello stato, dalle rendite di quei beni, i cui proprietarj, lontani dai sudditi loro, vivevano sotto la protezione francese; il principe di Scilla e il duca di Bagnara, fratello del cardinale, che dimoravano in Napoli, furono i primi, dei quali in tal modo si sequestrarono i beni. Don Pasquale Versace, uomo facoltoso di Bagnara, fu nominato provvisoriamente tesorier generale dell’armata cristiana, e a capo dell’intendenza militare fu messo il consiglier Di Fiore (148).

Da Bagnara il cardinale co’ suoi combattenti, a cui in ogni luogo per dove passava s’aggiungevano nuovi drappelli, avanzò per Rosarno verso Mileto, dove era pronta la seconda armata, quella dei volontarj montanari. Colà ordinò a tutti gli uomini atti alle armi levatisi in massa nei paesi circostanti a mettersi in marcia il 28 di febbrajo verso Monteleone; e in tal guisa portò le sue forze a circa 17,000 uomini, quasi tutti in armi. Di spavento furon compresi a tal nuova quanti erano repubblicani in Monteleone; in una notte tutti i patriotti se la svignarono e la più parte ripararono a Catanzaro. Così la maggioranza realista ebbe campo libero; caddero gli alberi della libertà, e nel luogo loro s’inalzarono croci; il consiglio municipale repubblicano dové ritirarsi, e una processione in oaore del santo protettore della città festeggiò solennemente la felice rivoluzione. Nello stesso tempo andarono legati al cardinale per fargli conoscere l’accaduto e invitarlo a prender possesso della città in nome del re: una contribuzione volontaria di 10,000 ducati fu con segnata nelle mani del regio vicario generale, cui la città promise oltre di ciò tredici cavalli forniti d’ogni cosa. Il 1° di marzo (149) fece Fabrizio Ruffo la sua entrata in Monteleone, dove prese alloggio nel palazzo del duca. Da Tropea ed altre città calabresi giunsero deputazioni, che fecero atto di sommissione, e offrirono di aggiungere combattenti all’esercito, o di levarsi in armi nel proprio territorio.

L’incruento e generoso sottomettersi di Monteleone, l’aderire spontaneo di quella città, forse la più importante e cospicua della Calabria meridionale, alla causa regia, fu il primo felice e decisivo successo del Ruffo, e la fama rapidissimamente se ne sparse da tutti i lati. Anche le sue forze militari erano alquanto cresciute; oltre di che con la volontaria contribuzione entrò la prima somma rilevante nella cassa. Due pezzi di campagna, abbandonati dai patriotti fuggenti, gli vennero singolarmente opportuni. Soldati congedati e militi si presentarono in gran copia, tal ché in breve ei fu in grado di formare tre battaglioni di 600 uomini; e fattone il primo reggimento reale Calabria Ultra, ne nominò colonnello il De Sectis (150), già comandante della milizia, e luogotenente colonnello il Carbone.

Questo corpo regolare, benché di poco momento, gli fu già utile durante il suo soggiorno a Monteleone occorrendogli di dare un serio esempio alla sua indisciplinata soldatesca. Le cose andarono nel modo seguente. Alcune compagnie irregolari, acquartierate nel convento dei Cappuccini, avean cominciato a frugare per tutte le stanze cercando patriotti nascosti. Non se ne trovò nessuno, ma invece uno dei volontarj scoperse nella cassetta di un povero frate coccarde repubblicane, il che bastò a’ suoi compagni per metter sossopra e saccheggiare il convento. L’esempio fu contagioso, le parole: incendio e distruzione, corsero fra quelle squadre selvagge, e l’armata cristiana minacciò di cambiarsi in una masnada di ladri ed assassini. Sollecito raccolse il cardinale i soldati regolari, fece avanzare il De Rosa co’ cannoni accompagnati dai cannonieri con le micce accese in mano, ed egli innanzi a loro traversò a la città, la quale a tal vista tornò subito tranquilla. Coloro che avevan fatto danno al convento furon sottoposti a severo giudizio; tre dei capi condannati alle forche e senza indugio giustiziati. Le cose rubate dovettero essere restituite, tanto più che venne in chiaro come il povero frate non sapesse nulla del nascosto tesoro; alcuni patriota, che qualche giorno innanzi erano stati nel convento, s’erano prima di fuggire affrettati a deporlo nella cassetta.

I tredici cavalli regalati dai Monteleonesi al vicario generale, formarono con altri parecchi che sopravvennero il nucleo della sua cavalleria. Ei ne fece due squadroni, assai disugualmente armati; alcuni portavano lunghe aste appoggiate all’arcione con la punta inclinata innanzi. Due architetti, Giuseppe Vinci da Monteleone e Giuseppe Olivieri da Sinopoli, furono destinati a comandare il genio, ohe consisteva in due compagnie di zappatori borghesi. Faceva da comandante dei trasporti militari Don Antonio Falange; a provvedere agli affari giudiciali fu deputato il giurisperito Don Saverio Lacquanitl, facoltoso cittadino di Lauriana. Più vicino al cardinale stava l’abate Domenico Sacchinelli, che scrisse la biografia del Ruffo e la storia della campagna; il Caporossi e il Presta ebbero ufficio di ajuti.

***

Fra i torbidi delle ultime settimane erano rimaste giacenti una gran quantità di lettere alla posta di Monteleone; dal contenuto di esse il Ruffo rilevò, che tra Napoli e Palermo si faceva un diligentissimo spionaggio, e che però gli conveniva usare il massimo riguardo possibile nel mandare ragguagli alla corte e nel dare ordini a quelli che sotto di lui comandavano. Alla prima egli prese per regola di non annunziare se non i fatti compiuti, di non rispondere alle domande intorno alla forza e agli ordinamenti del suo esercito, di non far conoscer nulla dei propositi e disegni suoi. E anche co’ suoi soldati ebbe il medesimo accorgimento; neppure i capi sapevano con certezza il fine della prossima marcia; e spesso accadde ch’e’ facesse improvvisamente cambiar la direzione di essa e volgere verso un luogo che non sarebbele venuto in mente a nessuno (151). Così avvenne alla sua partenza da Monteleone. Mentre mandava una colonna sotto Giuseppe Massa alla volta di Nicastro, un’altra sotto Frane. Ciglio a quella di Catanzaro, egli stesso moveva verso il Pizzo, dove giunse in tempo per salvar la vita a tre ufficiali del re. Erano il general Naselli e due aiutanti che, fuggiti tardi da Napoli, cadevano colà nelle mani d’una moltitudine inferocita, la quale, accagionandoli della sventurata ultima campagna, voleva senza tanti complimenti farne giustizia da sò. Il cardinale ordinò che da una parte e dall’altra stessero fermi, e fatti prendere i tre ufficiali, ingiunse al marchese Malaspina che alla cittadella di Messina li conducesse, dove il re sentenzierebbe sul loro destino (152).

Nel marciare verso Pizzo il cardinal Fabrizio aveva principalmente mirato a ottenere dal lato del mare novelle delle province settentrionali e a far pervenire a esse la sua voce. La apparizione sua aveva già di lontano commosso, ñno a Salerno e più oltre, il clero, e per mezzo del clero le popolazioni; in molti luoghi del Cilento erano abbattuti gli alberi della libertà e ripristinate le insegne reali; si mandavano messaggi al vicario generale del regno, gli si chiedevano consigli ed ordini, si sperava da lui ajuto e protezione. Ma pel momento egli non era in grado di ajutare e proteggere, bisognava che si ristringesse a dar consigli ed ordini; e così fece scrivendo al vescovo Ludovici di Policastro; lo esortò a seguire il suo esempio, a porsi a capo del movimento,a ordinarlo; a questo fine lo nominò suo rappresentante e plenipotenziario nel Cilento, gli mise a lato per governare le faccende della finanza il proprietario Domenico Romano da Scido, e lo munì di commendatizie pel comandante della squadra inglese, perché questi dal mare appoggiasse l’impresa dei rivoltosi.

Dopo uh giorno di fermata al Pizzo — dove furon trovati due cannoni di bronzo che aumentarono il parco del cardinale e lo portarono a otto pezzi — l’armata cristiana proseguì verso il settentrione, e giunse dopo difficile e faticosa marcia nel cuor della notte a Maida, feudo di casa Ruffo. Così si trovò il Cardinal Fabrizio sulla stessa linea di Catanzaro, dove frattanto era arrivato il suo sottocomandante Fra. Giglio. Questi, noto nel paese dove avea molti amici, seppe appiccar pratiche con provati realisti, con ufficiali licenziati dal governo repubblicano, e con altri che del nuovo ordine di cose erano ristucchi, per modo che ebbe quasi mestieri di combattere per impadronirsi della città. Le sue orde selvagge unite al popolo cominciarono a scorrere sfrenatamente per le strade, alcune case saccheggiando, bruciandone altre, nel che, come in quella guerra accadde da per tutto, non avea poca parte il bisogno di sodisfare personali vendette. Vi furono anche uccisioni di tali che eran segnalati come giacobini; un gran numero di essi fu messo in prigione, a pochi riuscì di salvarsi con la fuga.

Appena informato di questi avvenimenti, il Ruffo mosse da Maida verso sud, passò i fiumi degli appennini meridionali, e scese dall’altra parte nella valle di Palagoria. In Borgia gli venne incontro una deputazione di Catanzaro, che lo pregò sollecitasse la marcia e corresse a por fine agli eccessi delle masnade inferocite. L’avvocato Saverio Laudari parlò in nome della deputazione, a capo della quale stava Vincenzo Petroli, uno di quelli che aveano apposto il loro nome alla dichiarazione che metteva al bando il cardinale e i suoi seguaci. In questa prima congiuntura il Ruffo si mostrò quale in tutto il resto della campagna rimase, libero da meschini sentimenti di vendetta, sempre inclinato a perdonare le offese, a stendere all’avversario, che non era più da temere, la mano, a fin che, sorreggendosi a questa, potesse il raumiliato rialzarsi. Con nobile e prudente contegno egli non dimenticò solamente la condotta ostile del Tribunale di Catanzaro, ma fece atto di stima all’uomo autorevole, che poco innanzi era stato suo oppositore, e dette alla deputazione benigna risposta.

Quanto al Giglio, e’ si contentò di ammonirlo, doversi condur quella guerra contro i giacobini ostinati e non già contro gl’infimi cittadini che alla clemenza reale si assoggettavano; e giunto in Catanzaro si sforzò di ordinare provvisoriamente la città e la provincia in modo da evitare qualunque turbamento pel futuro. A reggere l’amministrazione provinciale della Calabria ulteriore I egli chiamò il vescovo Varano di Bisignano, e non già l’antico preside Winspeare, che s’era unito all’armata cristiana, ma che egli avea mandato a Messina perché ivi aspettasse altra destinazione. Nominò il Giglio comandante militare di Catanzaro, nel quale ufficio si troverebbe sottoposto al preside provvisorio della provincia; gli affidò nello stesso tempo la cura della pubblica sicurezza, facendolo in tal guisa custode di quelle leggi che le sue orde sfrenate nell’occupar la città aveano cosi gravemente offese. In siffatta maniera egli sapeva, dando incarichi di fiducia a persone, che apertamente o in segreto sarebbero potute tornargli a danno, a sé legarle e renderle innocue. Il Petroli ebbe ufficio di auditore dell’armata cristiana, gli avvocati Laudari e Greco di assessori. Oltre di che il Greco fu fatto difensore, e il D. Alessandro Nava procuratore della commissione straordinaria di Stato, la quale preseduta dal Di Fiore doveva «ad modum belli et per horas» giudicare e condannare. Innanzi a tal tribunale di guerra ebbero subito a comparire i «giacobini» messi in carcere al tempo dell’occupazione della città. Il loro processo ebbe termine quando il cardinale era già partito da Catanzaro; quattro furono fucilati, parecchi condannati alla galera: ad alcuni toccò la prigionia, altri ne uscirono con multe, e dovettero andare presso i padri missionarj di Stilo e Mesuraca a far gli esercizj spirituali, che ridestassero nell’animo loro dolore e pentimento di ciò che contro il sovrano aveano slealmente pensato o fatto.

In quel mentre il Mazza, ajutante del cardinale, non era rimasto inoperoso. Da Nicastro s’era recato alla spiaggia, avea preso la forte Amantea, assaltato dopo un vivo bombardamento Paola e abbandonatala al saccheggio. Poi s’avvicinò a Cosenza, capoluogo della Calabria citeriore. La città era piena di gente fuggita da tutte le contrade circostanti, e contava fra le sue mura circa 7000 armati, che il già mentovato De Chiara comandava. Ma all’appressarsi del Mazza ei si perse d’animo, ovvero, antico ufficiale del re, si risvegliò in lui Incoscienza; forse ebbe anche paura di un moto realistà in città, e per questo deliberò di sgombrarla. Se non che il popolo sollevatosi dette addosso ai ‘patriota che si trovarono a dover combattere gl’interni ed esterni nemici. Due de’ più zelanti fra loro, il Labonia e il Vanni, si partirono di Cosenza sotto colore di tornare alla lor città natale e portare ajuto agli oppressi e travagliati concittadini. I repubblicani che in Cosenza rimasero, dopo breve resistenza e gravi perdite batterono in ritirata, mentre le schiere del Mazza prendeano possesso della città. Da Cosenza questi marciò, traversando la provincia, verso Rossano sul golfo di Taranto, e l’ebbe per capitolazione in suo potere. Ivi si deliberò di aspettare l’arrivo del suo generale, al quale mandò incontro una deputazione per fare atto di omaggio e di sottomissione della città.

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Il lavoro del cardinale era di gran lunga più difficile e da dover quindi durare maggior tempo. Dopo la presa di Catanzaro ei si proponeva innanzi tutto d’impadronirsi di Cotrone, a cui, per la situazione della città presso i confini della Calabria citeriore e pel porto fortificato, egli attribuiva importanza grandissima. Mandò avanti il luogotenente colonnello Perez de’ Vera con due compagnie di linea e tre cannoni, oltre a 2000 irregolari, fra cui le compagnie di Giuseppe Spadea e di Giovanni Celia; e gli diede compagno per le trattative diplomatiche il capitano Dardano da Marcedusa, il quale aveva incarico di chiedere senza indugio la resa della fortezza, di offrire ai francesi libero ritorno in patria, e di lasciare ai triottì la scelta fra l’implorare la clemenza sovrana o riparare a Napoli.

Le cose però presero un’altra piega. Il recente esempio del sacco di Catanzaro, la speranza di far nuovo bottino e di sfogar l’ira contro gli abitanti repubblicani delle città, attirò da tutti i dintorni torme di volontarj, per modo che la colonna ingrossava secondo che andava accostandosi alla meta (153). La città di Cotrone, quando il tenente colonnello Perez comparve sotto le sue mura il giovedì santo 21 di marzo, si vide circondata da innumerabili armati, il che non fece altro che accendere maggiormente la pazza ira dei repubblicani. Il Dardano, venuto qual parlamentario con occhi bendati in mezzo a loro, fu preso e messo in catene; e a lui e a parecchi fra i cospiratori realisti della città, al luogotenente colonnello Fogliar, al barone Farina, fu fatto processo che finì con la loro condanna a morte. Ne# campo dell’esercito cristiano fu vanamente atteso il ritorno del parlamentario; e nella notte dal 21 al 22, non vedendolo altrimenti ritornare, si fecero gli apparecchi dell’assalto. Sull’alba del venerdì santo le prime granate caddero nella città; il presidio tentò una sortita, ma si vide tosto sopraffatto ai due fianchi dal rapido allargarsi delle schiere del famigerato ladro e assassino Panzanera, tanto che dovette sollecitamente tornare indietro lasciando sul campo i cannoni. Il Panzanera penetrò insieme col nemico dentro le mura, le due compagnie di soldati regolari lo seguirono, mentre i cannoni tiravano sul forte. Una palla colpì la stanga della bandiera repubblicana, e con la caduta di questa cadde anche l’animo dei difensori. I vecchi soldati che si trovavano fra il presidio si dichiararono per la causa del loro re, i francesi e i patriotti intimoriti resistevano debolmente, il ponte fu abbassato, entrambe le compagnie di linea marciarono dentro e misero in libertà Dardano, Fogliar, Farina, la cui condanna di morte i repubblicani fortunatamente non aveano avuto il tempo di eseguire. Tuttavia toccò alla città maggiore sventura che a Catanzaro. Specialmente le nuove torme venute durante la marcia, e fra esse quelle del Panzanera, predarono e saccheggiarono, distrussero e devastarono con avidità sfrenata, senza che preghiere, esortazioni, comandi valessero a trattenerle.

Il cardinale s’era, dietro il Perez, senza indugio condotto innanzi col nerbo delle sue forze da Catanzaro fino alla Tacina, le cui acque erano per le piogge di più giorni tanto cresciute da non potersi tentare senza gravi pericoli il passo con una moltitudine per la più parte inesperta e con pesanti carriaggi. Bisognò dunque fermarsi sulla riva destra e aspettare che Tacque calassero. Il Ruffo aveva il suo quartier generale in Calabricata, possesso della famiglia Schipani, ed ivi gli giunse un messo da Sicilia lungamente desiderato, il Marchese di Taccone, che gli dovea portare da Palermo i sussidj promessi per la impresa calabrese. Se non che venne con le mani vuote; invece di danaro, del quale il Ruffo avea tanto desiderio e bisogno, gli consegnò una lettera dell’Acton che lo proponeva al cardinale come «tesoriere dell’armata.» Pel quale ufficio il Ruffo sapeva, come abbiam visto, provvedere meglio che non avrebbero potuto fare i consiglieri lontani; onde rimandò senz’altro in Sicilia il raccomandatogli finanziere. Di certo questo incidente non dispose l’animo del potente ministro in favore dell’ostinato calabrese, il quale dal canto suo sospettò che gl’inglesi avessero intercettato il danaro, e non tardò a mandarne avviso al re (154).

Non prima del sabato santo, 23 di marzo, il cardinale volle che si passasse la Tacina; occorsero tuttavia gravi difficoltà, ma non si ebbe a lamentare nessuna perdita. Presso Cutro, di là dal fiumiciattolo littorale Dragone, si raccolsero di nuovo le sue schiere, le quali, ricevendo ivi l’annunzio della presa della città e fortezza di Cotrone (155), ne furono tanto riconfortate da dimenticar presto le durate fatiche e i travagli sofferti. La sera del lunedi di Pasqua il Ruffo entrò nella città conquistata, piantò con le proprie mani la croce in luogo dell’abbattuto albero di libertà, e poi mise il suo quartier generale nel palazzo Farina, solo forse fra i migliori edifìcj non danneggiato dall’orrenda furia de’ suoi volontarj. Mandò i francesi prigionieri in Sicilia, e fece sottoporre a severo giudizio i nativi ch’erano stati a capo del movimento, quattro dei quali furono fucilati, il 3 di aprile (156).

Poco meno degli umiliati ribelli gli davano però da fare i suoi proprj sfrenati aderenti, a cui bisognava come a Monte leone dare una lezione. Ma la cosa non potè altrimenti aver effetto per la semplice ragione che coloro i quali erano stati questa volta colpevoli, si trovavano già lontani da quei luoghi in via di tornare alle case loro per mettervi in sicuro il pingue bottino. E, quel ch’è peggio, il cattivo esempio fu efficace su quelli che, entrati col cardinale, si mostravano scontenti di rimanere in mezzo a così ricca preda con le mani vuote. Una minima parte soltanto si mostrò afflitta degli orrori ch’erano stati commessi, e questa dimostrazione era forse anche per molti un pretesto col quale nascondevano la loro poca voglia di assoggettarsi per l’avvenire a disagi e travagli da non dover essere con qualche bottino ricompensati. Il cardinale e quelli che gli stavan dintorno dovettero durare indicibil fatica, esser larghi di lusinghe e promesse per tenere in freno, oltre ai soldati di linea, almeno quelli della milizia regolare e qualche migliajo degl’irregolari; la maggior parte di questi ultimi andaron via, e sebbene promettessero di ritornare, non si rividero più.

Il disperdersi d’un esercito a mala pena formato, ed efficace piuttosto pel numero che per le attitudini guerresche di coloro che lo componevano, fu cagione al general vicario di non poca inquietudine; poiché troppo si era già inoltrato da poter pensare a tornar addietro. Scrisse all’ammiraglio, che comandava nelle acque di Corfù, pregandolo che mandasse senza indugio un corpo di russi; nondimeno su tal ajuto non potea fare assegnamento se non che come su cosa secondaria; il paese stesso bisognava che gli somministrasse l’appoggio principale. Furono dunque invitati il nuovo preside di Catanzaro e tutti i vescovi calabresi, che per mezzo degli ufficiali secolari e dei paroci esortassero quelli ch’eran partiti a far ritorno. A fin di rinforzare la cavalleria, il cardinale richiese la milizia provinciale a cavallo; e invitò i signori feudali, che tenevano dal re, a provveder di cavalli i capi degli armigeri loro e a concedere che al suo esercito si accompagnassero. Con lo stesso proposito sospese a tutti gl’impiegati regj lo stipendio fino a che, messo in campo un cavallo in buon ordine e assetto, non lasciassero rinnovare da lui, come general vicario del regno, i lor pieni poteri.

Qualche tempo innanzi, il 23 di marzo, Francesco fratello minore del Ruffo era venuto al campo in Cutro; come avea sentito dei fatti e dei felici successi dell’armata cristiana, non bastandogli l’animo di trattenersi più lungamente a Palermo, avea preso dalla corte congedo. Il cardinale gli commise «l’ispezione della truppa e il ripartimento delle finanze,» e gli dette per segretario il canonico Giuseppe Antonio Vitale, per «commissario dei viveri» l’arciprete della cattedrale di S. Severino Giuseppe Apa, e per ajutante Giov. Batt. Rodio. Quest’ultimo, stato fino a poco tempo prima partigiano dei francesi, s’era trovato fra quei fuggiaschi giacobini che avean cercato ricovero dentro le mura di Catanzaro; raccomandato caldamente da suo zio, cavaliere Pasquale Governa, fu ripreso in grazia dal Ruffo, il quale avea per principio far ponti d’oro agli avversari ravveduti, e questa volta non ebbe a pentirsi di avere applicato tal principio (157).

Lo zelo e la indefessa operosità del cardinale e de’ suoi cooperatori portarono presto i loro frutti. Ogni giorno o spicciolati o a frotte tornavano al campo quelli che n’eran partiti, o nuova gente veniva, cosi che sui primi d’aprile fra regolari e irregolari s’eran raccolti di nuovo 7000 uomini, alla cui testa il Ruffo poteva far disegno d’invadere la Calabria citeriore. La deputazione di Rossano, venutagli innanzi a quei giorni, gli era stimolo ad affrettar la sua marcia a quella volta. Innanzi di lasciar Cotrone egli vi stabili come governatore interino civile e militare il cavaliere Governa, sotto gli ordini del vescovo Varano, preside provvisorio della provincia.

fonte

https://www.eleaml.org/ne/stampa2s/1885-Fabrizio-Ruffo-Barone-von-HELFERT-2025.html#VITTORIA_DEI_PATRIOTTI_SOPRA

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