Alta Terra di Lavoro

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“FABRIZIO RUFFO RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE DI NAPOLI” scritto da Barone Von HELFERT Vol. Terzo (II)

Posted by on Mar 15, 2025

“FABRIZIO RUFFO RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE DI NAPOLI” scritto da Barone Von HELFERT Vol. Terzo (II)

SBARCO DEI RUSSI IN PUGLIA

Con l’apparizione del Suvorov sul campo di battaglia dell’Europa centrale cominciava ad essere messo ad effetto l’obbligo che lo Czar Paolo da lungo tempo aveva assunto verso il re delle Due Sicilie, e che era quello di mandare un considerevole corpo d’esercito contro i francesi nell’Italia meridionale. Se non che il corpo scelto a tale scopo e comandato prima dal generale Hermann e poi dal luogotenente generale Rehbinder era pel momento necessario sul campo di battaglia dell’Italia superiore (342), per modo che il soccorso russo doveva per il momento ristringersi a quelle poche forze che potevano esser distratte dall’isole Joule. E questo non cessava di chiedere istantemente il cav. Micheroux, che in quel mentre era stato in Palermo e di li avea fatto ritorno verso l’armata dei collegati.

Il 27 di marzo erano giunte a Corfù la fregata Scastlivni e la nave da guerra portoghese Concesion, con le due vecchie principesse francesi a bordo (343). Ma le nuove recate da esse non eran tali da dar conforto e coraggio; poiché appunto in quel tempo i francesi e i patriotti ottenevano continuamente lieti successi su tutta la regione da S. Severo a Bari e anche più a mezzogiorno. Tanto più stringenti però giungevano ancora i gridi di distretta e di ajuto dalla Puglia, dalle province di Bari, Lecce ed Otranto; e appena l’oppressione repubblicana scemava di forza in quei luoghi, apparivano in Corfù deputazioni di diverse città, le quali rappresentavano come facile la vittoria della causa reale. Talché a poco a poco andò l’ammiraglio Usakov maturando il disegno di attaccare il regno dalle coste adriatiche, mentre gli anglo-siculi, come si sapeva esser deciso, dal mar tirreno immediatamente contro la metropoli operavano. Per contrario, cosa singolare, dell’impresa del cardinale non si teneva in Corfù verun conto; sembra anzi che non avessero nessun sentore dei continui progressi dell’armata cristiana, altrimenti il cav. Micheroux non si sarebbe di certo potuto comportare come realmente fece. Arrivato verso la fine d’aprile sulla fregata siciliana Fortuna in terra d’Otranto, ei pubblicò senz’altro il manifesto reale del 31 di marzo, lo diffuse da tutti i lati, e in virtù di esso si comportò come rappresentante di Ferdinando IV. Tolti nelle città e nelle borgate gl’impiegati repubblicani d’ufficio, nominò in lor vece impiegati regj, rivestendoli di tutti gli attributi della nuova carica. Così fece anche in Lecce, dove il Ruffo, in luogo del conte Marnili ucciso fai patriotti, avea nominato preside interinale Don Francesco Loperto. Il Micheroux, che di ciò non sapeva certamente nulla e per contrario aveva avuto intorno al Loperto informazioni suggerite da malevolenza ed invidia, credette di non aver nulla di meglio da fare che mandargli la destituzione da una carica nella quale era appena entrato. Avvenne per tal ragione una rottura, poiché Fabrizio Ruffo volle a buon diritto opporsi a un atto, che danneggiava non solamente il suo proprio credito ma anche la causa che entrambi servivano. Era impossibile — così egli fece osservare al cavaliere — che due persone esercitassero l’una accanto all’altra i pieni poteri reali (344). Ben presto però si vide che il Micheroux non aveva avuto l’intenzione di recar disturbo all’opera del Cardinal generale, dacché, fattegli molte scuse, cambiò subito di condotta, e da indi in poi ristrinse la sua operosità fra i confini dell’ufficio di agente politico nel campo russo-turco.

E da questo lato in fatti l’azione era già cominciata. Nel tempo stesso che la Fortuna salpava da Corfù, il capitano Sorokin con quattro fregate russe e due corvette turche levava le ancore; il luogotenente Maksejef era stato mandato innanzi con una goletta e quattro cannoniere a Otranto. Qui tutto era compiutamente tranquillo, talché il Maksejef fece vela verso Brindisi, dove si riunì alla squadra del Sorokin che per venti contrarj s’era dovuta fermare alcuni giorni (34 di maggio). Il comandante repubblicano della piazza era a tavola quando si vide comparire la bandiera russo-turca; fece in fretta e furia raccogliere e impacchettare gli oggetti di valore, e accompagnato da molti patriotti se la svignò. Il Sorokin, ricevuto con giubilo dagli abitanti, occupò la città ed il forte, e mandò colonne volanti ai punti principali del territorio, nel quale andarono nei giorni seguenti le sottomissioni l’una all’altra succedendosi. Una deputazione di Monopoli annunziò, che alla nuova dell’arrivo della squadra russo-turca tutti i repubblicani erano fuggiti dalla città.

Il 10 di maggio, lasciando il Maksejef con alcune navi in Brindisi, il Sorokin fece vela col grosso della sua squadra, e andò costeggiando il littorale, accolto dappertutto dagli abitanti con dimostrazioni di gioja ed onore. La piccola città di Mola é soltanto da eccettuare, che inalberò la bandiera tricolore partenopea (12 di maggio). Ma un breve bombardamento bastò per ridurre a miglior consiglio gli abitanti; i colori regj furono sostituiti ai repubblicani, gli alberi della libertà abbattuti, una deputazione si presentò al Sorokin, il quale chiese compiuta sottomissione al legittimo sovrano e agli ufficiali nominati da lui (345). Il 13 sul far del giorno la squadra approdò a Bari. Fino a pochi giorni innanzi aveano ivi spadroneggiato i soldati del generale Duhesme e i legionarj del conte Ruvo; adesso una deputazione della città corre a presentare gli omaggi al comandante russo. Egli fece sbarcare 150 uomini con quattro pezzi di campagna, e occupare il castello, che aveva già inalzato la bandiera del re. Allora comparve egli stesso in città, col cavaliere Micheroux a fianco, e un solenne servizio di ringraziamento fu celebrato nella cattedrale. Il capitano Marin con la fregata S. Niccola rimase nel porto per proteggere la ripristinata autorità regia; il Sorokin parti, la sera del 17 comparve a Barletta, e, lasciato anche colà una fregata, un giorno o due dopo gittò le ancore nella rada di Manfredonia. L’occupazione di tutti questi luoghi sul littorale era accaduta senza nessun contrasto; ma, cosa assai più importante, in Manfredonia vennero a presentarsi al comandante russo deputati delle principali città della Puglia. In quei luoghi dopo la partenza dei francesi e fino a pochi momenti prima i patriotti aveano avuto il disopra; talché il raccogliersi cosi sollecito della fazione regia e, quasi a dispetto dei recenti dominatori, accorrere a visitare il campo russo, fu segno della gran mutazione che s’apparecchiava.

La nuova dell’apparizione e dei prosperi successi d’una squadra russa sulle coste dell’Adriatico era intanto pervenuta ad Altamura, di dove il Ruffo non tardò a mettersi in rapporto ed intendersi. col comandante russo. Nello stesso tempo lo pregò che volesse mandargli dei soldati; egli non avea tanto bisogno di accrescere il numero delle sue forze, quanto di rinforzarsi con soldati regolari, dei quali pativa sempre grandissimo difetto (346). E poiché il Micheroux, consigliere politico del commodoro russo, era dello stesso avviso, si risolse il Sorokin di mandare nell’interno della Puglia una piccola colonna; la componevano 390 soldati e marinari russi con quattro cannoni, e 30 uomini dell’equipaggio della Fortuna; 60 abitanti di Manfredonia a cavallo si unirono ad essa. Sotto il comando del capitano Ballile, di nascita irlandese, e accompagnato dal plenipotenziario militare Micheroux, la colonna si mise in movimento il 20, e il giorno appresso giunse a Foggia. Era tempo di fiera; il che contribuì grandemente a far conoscere in breve ora da per ogni dove l’avanzarsi dei russi (347). La presenza di forze regolari impedì anche grandi sventure, poiché le classi inferiori della popolazione, costrette a reprimere fin allora i lor sentimenti contro i francesi, sentendo che i russi si avvicinavano si sarebbero sollevate e avrebbero menato strage dei patriottì, se i più notevoli realisti con l’ajuto dei soldati del Baillie non avessero preso solleciti provvedimenti per contenere gli eccessi.

La notizia di tali fatti sbalordì la fazione dei ribelli, che fino allora, sebbene in minoranza, protetta dal terrore del nome francese, s’era conservata al timone del governo. Un corpo repubblicano, apparso nelle vicinanze di Foggia e giudicato della forza di 2000 uomini, si dileguò rapidamente senza osare di combattere; era senza dubbio il conte Ruvo, o una parte della sua legione, con la quale egli si volse a settentrione verso Sansevero. Si trovava ora quasi solo, non rimanendogli come ultimo punto d’appoggio se non Pescara. I russi lo lasciarono da parte, e restarono intanto a Foggia. Ma poco appresso, avendo il Sorokin mandato un rinforzo di 95 uomini con due cannoni e un trasporto di fucili per armare gli irregolari, il Baillie marciò verso Montecavallo, a due miglia e mezzo da Foggia, e là fortificatosi decise di attendere che le forze del cardinale si avvicinassero (348).

***

Mentre Fabrizio Ruffo dimorò in Altamura, l’autorità sua andò sempre più estendendosi. Egli s’era, prendendo seco il Decesari, procurato una forza d’attrazione, dalla quale venivano continuamente nuove schiere al suo campo condotte. Da Terra di Bari, dalle provincie di Brindisi, Lecce ed Otranto, dalle pianure di Puglia giungevano senza posa al quartier generale manifestazioni di lealtà, proteste di sottomissione, commissioni deputate a presentare gli omaggi delle varie città. Dovunque la fama delle sue gesta, il credito del suo nome e del suo grado di vicario generale pervenivano, doveano le insegne repubblicane e gli ufficiali della repubblica cedere il posto alle insegne del re e ad ufficiali provvisoriamente incaricati di governare in suo nome. Salvo alcune piazze forti dell’interno, come Picierno e Potenza a nord ovest della Basilicata dove ancora drappelli di patriotti tenevano disperatamente in mano il potere (349), le province meridionali erano oramai riguadagnate alla causa del legittimo sovrano.

Il dominio del Ruffo o direttamente o per mezzo degli aderenti e sottoposti, come per esempio i rappresentanti del regio governo nel Cilento, si estendeva oramai sulla massima parte del regno continentale. Le contrade non ancora sottomesse pareva non aspettassero se non il momento opportuno. Di certo egli era informato, che il territorio che intercedeva fra lui e la metropoli era quasi del tutto libero dai nemici. I patriotti aveano abbandonato la difesa della prossima città di Gravina; il general Mastrangiolo e il commissario repubblicano Palomba si trovavano già in Napoli. Il piccolo presidio francese napoletano di Campobasso era stato novamente ritirato; dopo di che il contado di Molise in tutta la sua estensione fino a Terra di Lavoro era aperto all’influsso del partito regio, che non mancava di guadagnarvi terreno. Benevento ed Isernia, Monteforte presso Avellino, Cerreto del Cusano ed altri luoghi furono persi per la Partenopea. Né altrimenti accadde all’importante città di Nola. Bastò che una schiera di regj si mostrasse, e le popolazioni fin sotto le mura di Napoli si sollevarono.

E che aspetto presentava allora la stessa capitale? Il governo repubblicano, cominciando ad aver paura, cercò di reggersi col terrore. I patriotti aveano già con grande inquietudine sentito dei continui progressi del Ruffo; l’arrivo dei fuggiaschi di Altamura e Gravina non contribuì poco a crescere tale inquietudine, tanto più che, per iscusare la loro condotta, le forze del cardinale fuor di misura esageravano. Si aggiunse poi la infausta nuova dello sbarco de’ russi e del loro avvicinarsi dalla spiaggia di Puglia all’esercito del Ruffo. A fine di attenuare gli effetti di cosi tremende notizie, Eleonora Fonseca dové scrivere nel Monitore napoletano, che il Ruffo avea vestito con divise russe i forzati mandatigli di Sicilia per far credere al mondo ch’egli avesse alleati. Ma i patriotti mandarono segretamente messi fidati, fra i quali un certo Coscia, per indagare quanto in tali racconti vi fosse di vero. Nello stesso tempo si sparsero voci di vittorie francesi sul Reno e di immense quantità di austriaci morti, feriti e prigionieri. Lo stesso Foote sembra che a si fatte voci credesse; non cosi il Nelson, che alla prima giunta le segnalò come pure invenzioni (350).

Ma non in terra ferma solamente un colpo dopo l’altro percoteva i repubblicani, era loro sfavorevole anche il mare, dove i francesi furono più volte dalla inclemenza del tempo travagliati. Due davi partite dall’Egitto e in rotta per la Francia furono dalla tempesta separate. L’una carica di feriti e malati fu con gravi danni sbattuta sulla costa orientale della Sicilia, dove entrò nel porto di Agosta; ma, accortisene appena gli abitanti, alcuni uomini risoluti si gettarono nelle barche, assaltarono la nave nemica, e salitivi su, quegl’inermi che vi trovarono spietatamente uccisero (351). L’altra, che aveva a bordo tre generali e parecchi scienziati, fra cui il famoso minerálogo e geologo Dolomieu, fu nel mare jonio scoperta da’ russi che le diedero la caccia. Riuscì ai francesi di guadagnare il porto di Taranto, nella qual città i sentimenti erano certamente pel re, sebbene ancora i repubblicani governassero. Il Dolomieu si rivolse per iscritto al cardinale, esponendogli che egli e i suoi compagni non eran venuti con le armi alla mano, ma dalla tempesta spinti sulla spiaggia, domandavano si desse loro passaporto e sicuro accompagnamento sino al più vicino corpo francese. Fabrizio Ruffo non credè di potere entrare in discussioni sopra tali dimande del diritto delle genti; e specialmente dopo aver saputo, che non propriamente la tempesta, ma la paura dei russi che inseguivano, aveva spinto la nave a Taranto, mandò gli scienziati e gli ufficiali superiori prigioni a Messina, lasciando al re la cura di decidere le loro sorti.

A tutte queste cose si aggiunse l’apparizione dei russi sul campo di battaglia napoletano, la quale fu d importanza definitiva per i progressi del cardinale. Le forze erano di certo poche, non si trattava se non di un manipolo di soldati; ma grande era il concetto che rappresentavano, come vanguardia di quei soccorsi di gran lunga maggiori che la corte di Palermo, tanto dalla parte dei russi quanto da quella dei turchi, aspettava. Sembra che anche il Ruffo sulle prime guardasse sotto tale aspetto la cosa; in ogni modo era egli prudente abbastanza da farla agli altri sotto tale aspetto apparire. Non era cosi adempiuta la condizione, che l’accorta regina avea dichiarata indispensabile perché egli procedesse al coronamento della sua impresa, alla conquista della metropoli? Dall’altra parte, non essendogli altrimenti pervenute dal mezzo di maggio in poi le comunicazioni della regina, egli ignorava affatto i recenti successi del mediterraneo, e fece i suoi apparecchi supponendo che ancora il Troubridge nel golfo di Napoli navigasse. Con questa idea partecipò al commodoro la sua risoluzione di muovere contro la capitale, e lo pregò che volesse dalla parte del mare ajutarlo; i vescovi Ludovici di Policastro e Torrusio di Capaccio ebbero avviso di lasciar partire i loro stuoli dal Cilento verso Salerno. Ma per non svelare troppo presto il suo disegno, e dall’altro lato per tenere, durante la effettuazione di esso, coperto il suo fianco destro e le spalle, ordinò al Decesari di passar l’Ofanto, di avanzare fino a Cerignola nella Puglia meridionale e poi volgere verso Ariano. Nello stesso tempo scrisse a Palermo rinnovando la stringente preghiera che il re si determinasse ad apparire di persona nel golfo di Napoli, perché con la presenza di S. Maestà si potesse forse ottenere la sottomissione della capitale senza spargimento di sangue (352).

Il 24 di maggio l’armata cristiana partì da Altamura; e si racconta che il fratello del vicario generale, l’ispettore dell’armata Francesco Ruffo, dovette andare di casa in casa per raccogliere ufficiali e soldati, tanto s’erano essi, per così dire, annidati in una città, che quindici giorni prima aveano con crudel furore conquistata. In Altamura il Cardinal generale lasciò un presidio di 150 uomini sotto il comando del tenente colonnello Vincenzo Campagna, che doveva anche condurre gli affari politici (353). La marcia dell’armata cristiana fu. da principio rivolta verso Gravina; di lontano accorsero gli abitanti incontro all’esercito del Ruffo gridando: Viva il Re! Viva la Religione! Da Gravina passando per Spinazzola e Venosa si andò a Melfi, nella qual città il Ruffo entrò la sera del 29, e il giorno appresso fece solennemente celebrare l’onomastico del re.

Nello stesso tempo il Decesari era giunto a Cerignola, di dove aveva ordine di piegare a ponente. Ma avendo saputo che Foggia e Manfredonia erano occupate dai russi, e così il cuore della Puglia si trovava in mani sicure, risolvé di marciare a settentrione verso Monte Gargano, e così facendo non obbedì certamente alle ingiunzioni del suo capo, ma in altra maniera rese assai più importante servigio alla causa reale (354). Poiché all’annunzio del suo avvicinarsi il conte Ruvo lasciò con tanta fretta la città di Sansevero, che non potè portar via gran parte del bottino di Bari e di Andria; e, come gli era stato dal Macdonald per un caso estremo prescritto, si ridusse sotto la protezione dei cannoni di Pescara. Così tutto il territorio della Capitanata sino ai confini dell’Abruzzo Ulteriore fu sgombrato dai nemici, e allora solamente il Decesari si accinse a marciare verso Ariano.

Mentre il vicario generale dimorava ancora a Melfi, gli furono offerti rinforzi di milizie regolari. Comparvero in fatti due ufficiali turchi, e gli annunziarono che un corpo di soldati del Sultano era pronto a venirsi ad unire al suo esercito. Né quegli ufficiali si mostrarono punto ritrosi a divenir compagni d’armi dei nemici ereditarj della mezza luna; anzi per amor loro non esitarono a trasgredir subito i precetti del Corano; dacché invitati dal cardinale a pranzo, e peritandosi quegli di offrir loro del vino, sorridendo osservarono: Difendere cristiani, bevere vino. Per il Ruffo al contrario la cosa era tutt’altro che indifferente. Egli avea dato al suo esercito uno spiccato carattere cristiano, la croce facea mostra di sé sulla bandiera, la santa fede era la parola e il grido di guerra; che figura farebbero i credenti dell’Islam in mezzo a un’armata cristiana? Per queste ragioni fu deciso che gli ajuti turchi sarebbero condotti per mare nel golfo di Napoli, ed ivi attenderebbero il momento opportuno per cooperare alla conquista della città (355).

***

Il 31 di maggio l’esercito mosse da Melfi e, passato l’Ofanto, entrò nel territorio della Puglia, che però non dovea traversare se non nella parte meridionale. La scarsezza delle sorgenti in quei luoghi consigliava d’usare grandissima prudenza, e questa servì di scuola e d’esercizio alle schiere del Ruffo. Non trovandovi acqua corrente, ma solo di quando in quando pozzi, i quali non avrebbero giovato a dissetar nessuno se tutti, uomini ed animali, senza ordine vi si fossero affollati, il cardinale prese l’espediente di ordinare che persone a ciò deputate portassero le provviste occorrenti di acqua e di vino sopra carri che seguivano ciascun corpo, e che là dove fosse necessario fermarsi per ristorar le forze dei soldati, nessuno si movesse prima che al suono del tamburo fosse il bisognevole a tutti distribuito. È vero che in tal maniera il già numeroso traino di carriaggi crebbe dell’altro, e il lungo strascico dell’armata cristiana prese una estensione da potere in certe congiunture diventar pericolosa (356); ma il nemico era o del tutto sgombrato da quelle contrade o ridotto a una cosi esigua parte delle popolazioni da non avere a temere, non che un assalto, una qualunque sfavorevole dimostrazione.

Invece i patriotti dovean chiamarsi contenti se il popolo avido di rappresaglia rispettava la vita e proprietà loro. Se n’era avuto un esempio in Foggia all’arrivo de’ russi e in Ascoli all’avvicinarsi de’ sanfedisti. In quest’ultima città la moltitudine avrebbe preso vendetta di alcuni nobili segnalati come giacobini, se il cardinale, chiamato dai pericolanti in ajuto, non avesse speditamente mandato un drappello di soldati con cannoni, e la vista dei cannonieri con le micce accese non avesse tosto ripristinato l’ordine e la tranquillità.

In Ascoli ebbe il Ruffo la visita del Micheroux e del Baillie, coi quali egli s’intese circa l’incorporare nel suo esercito i rinforzi russi. Fu deliberato che il colonnello Carbone con alcune compagnie di cacciatori calabresi e una parte della cavalleria marcerebbe incontro ai russi, e accompagnandosi a loro li condurrebbe nella valle di Bovino, a traverso la quale il Ruffo pensava di menare il suo esercito alla volta di Napoli. E così fu fatto. La mattina del 2 di giugno il Carbone e il Baillie passarono il ponte di Bovino; verso mezzogiorno giunse allo stesso punto la testa dell’armata cristiana; il 3 e il marciarono oltre verso Ariano, che non offri resistenza (357). Il cardinale si trattenne il 4 in Bovino, di dove scrisse alla regina, e il 5 fece il suo ingresso in Ariano. La vicina città di Benevento si arrese ai condottieri Falbo e Studuti, i quali poi per ordine del cardinale occuparono le gole caudine.

Fabrizio Ruffo si trovava ora in cammino diretto verso la capitale per due vie, per quella di Avellino verso il Vesuvio, e per quella di Benevento a traverso le gole caudine. Da tutti i lati gli si offrivano compagni. Il duca di Roccaromana, oramai convertito alla causa dinastica, si profferse semplice soldato dell’armata cristiana; il Cardinal generale lo nominò comandante supremo di tutte le squadre armate in Terra di Lavoro, e lo incaricò d’investir Capua e impedir le comunicazioni fra quella piazza forte e la metropoli; in tal modo Fra Diavolo, che fin allora era stato solo a percorrere quelle contrade, si trovò ad avere sopra di sé un abile ed esperto capo. Mandato dal Pronio comparve al quartier generale del Ruffo il barone De Riseis, e vi ricevè la commissione di ordinare al suo generale di tener d’occhio il conte Ruvo in Pescara con una parte dell’armata degli Abruzzi, e con l’altra marciare verso Capua. In Ariano poi comparve Scipione della Marra venuto di Palermo per portare la bandiera ricamata dalla regina e dalle principesse; la quale Fabrizio Ruffo fece benedire dall’arcivescovo Spinucci di Benevento, e poi consegnare al 1° reggimento reale di Calabria (358).

Col della Marra erano anco giunte due compagnie di granatieri reali ed alcuni cannoni; e il Ruffo si risolvé di non indugiare più a lungo, e di procedere all’ultima e più diffidi parte della sua impresa, a riconquistare la capitale del regno.

Del buon esito ei non dubitava più. In quel tempo fu preso prigione il Coscia, una delle spie mandate dalle autorità repubblicane per aver ragguagli intorno alle condizioni dell’esercito nemico. Il Ruffo se lo fece condurre dinanzi, e gli disse di andare a raccontare a Napoli quello che avea visto; i russi — così egli astutamente soggiunse — erano la vanguardia di un esercito ausiliario che si trovava in via; e gli fece mettere in mano alcune monete russe perché in Napoli le mostrasse. Finalmente prese un pezzo di carta, vi scrisse alcune parole, e le dette al Coscia perché alla sua sorella, principessa di Campana, lo consegnasse. Vi era scritto: «la malaga è sempre malaga,» il che nel linguaggio noto ai familiari voleva dire, che tutto andava bene e presto si rivedrebbero.

III

APPARECCHI DIFENSIVI DEI PATRIOTTI IN NAPOLI

I patriotti della capitale, cominciando a vedere oramai chiara la gravità delle condizioni, furono da un sentimento d’incertezza, di dubbio, di confusione in tal maniera compresi, che tentennando e or da una parte or dall’altra volgendosi, presero provvedimenti e arrischiarono tentativi da mostrare troppo manifestamente l’inconsulto zelo che li moveva. È vero che dai generali francesi rlcevevan sempre le più favorevoli notizie: dovunque gli eserciti repubblicani si mostravano— così era lor fatto credere — sempre arrideva loro la fortuna, e sempre o fuggivano o restavano sconfitti i mercenarj del tiranno (359). E la potente gallispana non facea forse sventolare la sua superba bandiera a terrore dei nemici e a pronta difesa degli alleati? Ma dall’altro canto a che giovavano vittorie riportate su lontani campi di battaglia, delle quali non giungevano fino a loro gli effetti? A che giovava la gallispana, che non mostrava ancora l’orgogliosa bandiera e col nome solo non poteva incuter timore al vicino nemico? A che giovava loro, che gli stuoli del Ruffo si componessero d’un’accozzaglia di mascalzoni, di forzati evasi o di condannati rimessi in libertà, e che i soldati russi ausiliarj, secondo che il ministro della guerra Manthoné volle fino all’ultimo momento dare ad intendere (360), non fossero altro che bordaglia siciliana, per cura di Ferdinando, con divise russe travestita? Una cosa non si poteva negare né dimenticare, ed era che il nemico stava lì, che tutti i giorni guadagnava terreno e faceva progressi, che teneva loro i piedi sul collo, che da tutte le parti li stringeva.

Di certo il lor nemico principale con la sua armata cristiana era pel momento ancora in fondo al Principato ulteriore; ma la via diretta della capitale era in suo potere. A settentrione della città, le popolazioni armate, che con le loro schiere scomposte circondavano da alcune settimane Capua, avean trovato nella persona del duca di Roccaromana un duce ardito ed esperto. In Caserta il tenente colonnello Luigi Gambs aveva inalzato la bandiera reale; Aversa sollevatasi aveva interrotto le comunicazioni con Napoli. Presso Venafro nell’estremo canto della Campania era accampato Mammone, e da un giorno all’altro poteva giunger notizia che quella città, che ancora ostinatamente resisteva, fosse caduta. Il terribile Mammone! Si raccontava di lui con raccapriccio, che, dichiaratosi contro la repubblica, aveva in due mesi fatto fucilare 450 persone; e altrettante e forse più erano cadute vittime de’ suoi subalterni. Mammone vigilava la contrada del Garigliano superiore, e le sue schiere assalivano colà e trucidavano tutti i francesi o altri viaggiatori provenienti da Napoli; mentre Michele Pezza, guardando le strade di là da Itri sino a Terracina, impediva le comunicazioni con Roma e si dilettava principalmente d’intercettar lettere e consegnarle agl’inglesi, i quali solevano di lui dire scherzando: «questo gran diavolo è per noi un vero angelo.» Il Ruffo dal canto suo non era d’intesa col Pezza e co’ fratelli Mammone per rispetto all’arrestare i viaggiatori; egli avrebbe anzi preferito che le strade conducenti al confine fossero lasciate libere. Secondo lui, quanti più francesi e patriotti andavan via, tanto meglio. Scrisse al Troubridge, che supponeva sempre nel golfo, pregandolo di persuadere in questo senso Fra Diavolo e Mammone. Il movimento antirivoluzionario s’estendeva già nel territorio romano. Un certo Cellini dal suo quartier generale in Camerino fra Foligno e Macerata pubblicò un proclama ai popoli dello stato Pontificio, ai quali metteva sotto gli occhi l’esempio dei prodi Sanniti e delle popolazioni limitrofe agli Abruzzi, e gli esortava ad unirsi a lui che si dichiarava comandante in nome del re (361).

Ai patriotti assennati parve tanto più pericolosa la condizione delle cose, in quanto che la città di Napoli per la sua immensa estensione avea da tutte le parti punti esposti all’attacco, e sarebbe occorso per difenderla un presidio degno di maggiore fiducia, e specialmente un numero d’armati maggiore di quello del quale si figuravano di poter disporre. Per queste ragioni prima l’Arcorito, che aveva avuto una parte eminente nelle giornate del gennajo, e poi il generale Girardon comandante francese di Capua, fecero la proposta di ritirare dalla città tutti i soldati e le provviste, di distruggere tutti gli arnesi da guerra e i viveri che non era possibile trasportare, e porre un campo fortificato presso il Garigliano, dove si potesse aspettare l’arrivo dei rinforzi, e intanto mantenere le comunicazioni co’ presidj di Capua e di Gaeta (362). Ma la proposta fu rigettata, forse per effetto dei ragguagli che il Coscia aveva portati da Ariano. Si volle, a quanto sembra, fare un colpo contro il Ruffo innanzi che il grosso delle forze russe tenesse dietro alla colonna del Baillie, che il cardinale faceva credere loro vanguardia. Il general Federici fu prescelto a cogliere questi allori, mentre lo Schipani era mandato a Salerno per contrastare alle squadre sanfediste dei vescovi Ludovici e Torrusio e a quelle di Panedigrano, e respingerle ai monti dond’erano discese.

Con gran chiasso e pompa i due capitani uscirono da Napoli, lo Schipani per la via di Portici e il Federici per quella di Nola e Avellino. Ma quest(9) ultimo, toccando appena Marigliano a occidente di Nola, si vide da schiere messe in agguato ricinto, assalito e sopraffatto; i vecchi soldati del suo corpo ritornarono sotto la bandiera reale, che non liberamente ma costretti dalla forza delle circostanze avevano abbandonata; la guardia nazionale, lasciando i fucili per via, voltò le spalle e corse a Napoli, dove fra l’oscurità della notte anche il generale con pochi seguaci rientrò (363). Lo Schipani dal canto suo, saputo della trista sorte toccata al suo compagno d armi, perso la voglia d’arrischiarsi più oltre, e fatta fermare la sua gente dietro Torre del Greco, cercò di fortificarsi alla meglio. Aveva sotto i suoi ordini 1500 uomini (364), e poteva oltre a ciò fare assegnamento sull’ajuto del Caracciolo dal lato del mare.

Nuovo spavento invadeva a tali novelle i patriotti della capitale, mentre la plebe commossa stringeva i pugni e mostrava i denti. Si fecero degli arresti, si parlò di condanne ed esecuzioni; parve che i repubblicani volessero scacciare il terrore, che occupava l’animo loro, con quello che incutevano ai realisti. Intanto si trovavano in termini sempre peggiori co’ francesi loro amici; i quali si lagnavano d essere stati tratti in inganno, d’essere stati spinti innanzi con promesse che non serano avverate, fidando nell’autorità e nel credito che i patriotti vantavano di avere ma che in fatti non aveano. Correa voce per la città che il presidio di Sant’Elmo avesse avuto ordine di difendersi con ogni mezzo contro una sollevazione di popolo; ma che, dove apparisse una forza regolare nemica, dovesse capitolare, a patto di uscire con gli onori militari e di potere i capi più compromessi liberamente riparare in Francia. In tale stato di cose i patriotti andarono via via raccogliendo le loro forze armate nei castelli Nuovo, dell’Uovo e del Carmine, e le fortificazioni in diversi punti della città e lungo la spiaggia di Chiaja abbandonarono, temendo che il popolo se ne impadronisse e per i suoi propositi se ne giovasse (365).

A sud est della capitale tutta la contraila fino a Torre del Greco, dove si trovava lo Schipani, era in possesso dei patriotti, come pure più in là il forte di Castellamare e Pisola fortificata di Revigliano presso le foci del Sarno. Fra questi due punti però e il campo dello Schipani c’era la Torre dell’Annunziata, che occupavano i regj tagliando così la linea di difesa del repubblicani. Il Caracciolo comparve innanzi a quella città più volte e la cannoneggiò senza potersene impadronire (366). Di là dal Sarno non c’era più patriota. I vescovi Ludovici e Torrusio comandavano in Cilento col segno della Santa Croce, mentre Panedigrano avanzava verso Salerno coi suoi 1000 uomini terribili, che del resto si sforzava di tenere con la disciplina e il buon ordine a freno; il commodoro Troubridge, prima di essere richiamato dal golfo di Napoli, avea fatto sbarcare il capitano d’artiglieria Harlev con un distaccamento di soldati e due cannoni; al comando di lui doveva il generale del popolo assoggettarsi. Poco tempo prima il colonnello Tschudy avea menato 500 granatieri dalla Sicilia, e s’era fermato a Sorrento. A lui si congiunse il colonnello Zender con 300 uomini, che avea fatti uscire da Napoli e ricoverati a Procida; appartenevano forse alla colonna dello Schipani, dalla quale non di rado ormai si partivano i soldati per passare ai regj (367).

Sembra che lo Tschudy e lo Zender intendessero insignorirsi innanzi tutto del forte di Castellamare.

***

Il 7 di giugno partì Fabrizio Ruffo da Ariano. Prese l’antica via consolare, passò le gole di Montefusco, occupò l’importante posizione di Monteforte, e si avvicinò ad Avellino, dove tutto era ordinato ad accogliere solennemente l’armata cristiana. Da tutti i dintorni accorreva la gente, deputazioni andavano incontro al Cardinal generale e ne salutavano l’arrivo come d’un liberatore; non meno di tre volte negli ultimi mesi aveano le schiere repubblicane scorrazzato la città e il territorio saccheggiando e devastando. Mentre in tal maniera la gioja universale prorompeva, sonò a un tratto un grido: Viva la repubblica, abbasso i tiranni! Era la voce d’un solo, del capo d’una vicina municipalità, il quale, battutosi coraggiosamente if giorno innanzi contro una mano di realisti e rimasto nella infruttuosa pugna ferito, aveva avuto la strana idea di provocare un subbuglio in Avellino e metter così tra le file dei regj il disordine. Ma la cosa ebbe un tristissimo esito. Furiosa la plebe gli si gettò addosso, e lo avrebbe messo in pezzi, se non fossero riusciti a levarglielo di tra le mani e condurlo innanzi ai magistrati. Il suo difensore volle spacciarlo per matto; ma i giudici, non ammettendo sì fatta scusa, proferirono la condanna di morte che fu senza pietà né indugio eseguita. Apparve questa una prima e pronta vendetta dei tanti e gravi danni, che quella contrada sotto la dominazione del partito repubblicano avea sofferti (368).

Da Avellino Fabrizio Ruffo mandò il suo ajutante Mazza verso Napoli per riconoscere lo stato delle cose. Imbattendosi in qualcuno dei generali repubblicani, egli doveva esortarlo a chiamare alla ragione i repubblicani della capitale, far loro comprendere l’inutilità d’una più lunga resistenza, e persuaderli a deporre le armi, a fine di por termine alla lotta senza spargimento di sangue. Il Mazza non incontrò quel che cercava. Trovò di là da Nola l’avanzo della disfatta legione del Federici, vide presso Marigliano i cannoni abbandonati in mezzo di strada, e giunse senza impedimento a Casalnuovo, a poche miglia da Napoli, donde per altro, non volendo più oltre avventurarsi per timore che gli toccasse la sorte dei parlamentarj del Ruffo a Cotrone e Altamura, tornò indietro al quartier generale del suo capo.

Il quale fu dai ragguagli del cavaliere confermato nel proposito che fin dal suo arrivo in Avellino rivolgeva nell’animo. E tanto più gli pareva di doverlo senza indugio porre ineffetto, poiché non facendolo uvea da temere che i ribelli ricevessero ajuto dal lato di mare, e così lo stato delle cose fosse a un tratto mutato. A tal fine il 9 di giugno fece intendere al Foote ch’egli pensava di giungere il 13 o il 14 a Torre del Greco, e con certi segni convenuti avrebbe fatto conoscere il suo arrivo al capitano, perché le navi alleate potessero allora cominciare d’accordo le operazioni ec. ec. Il capitano inglese era compiutamente d’accordo col Ruffo. Altrimenti avrebbe da lungo tempo dato un più forte colpo alla squadra repubblicana; se non che da sé solo era troppo debole, e il conte Thurn, a cui egli chiese tre galee di rinforzo, non aderì subito alla dimanda, sia perché in fatti non credeva di poter privarsi delle sue navi presso Precida, sia perché volle per la prima volta far notare al comandante inglese che non dipendeva da’ suoi comandi, ma si riteneva autorizzato e obbligato ad operare soltanto secondo il proprio giudizio o secondo gli ordini che da Palermo gli pervenivano (369).

Il Cardinal generale aveva oramai, quanto al numero, un ragguardevole esercito, che secondo un ragguaglio, forse assai esagerato, ascendeva a 50,000 uomini (370). Oltre di che dopo l’arrivo dei russi, dopo la ‘spontanea aggregazione di molti soldati provenienti dal disciolto esercito regio e dal corpo recentemente disfatto del Federici, dopo la venuta infine del Marra con due compagnie di granatieri, le parti regolari dell’armata siciliana non eran più di cosi poco momento come al principio della guerra. Quando la sera dell’11 giunse a Nola, arrivò anche il capitano turco Achmed con i suoi 84 uomini, che su due navi da guerra turche erano stati condotti da Corfù. Non ostante questo nuovo accrescimento di forze, il Ruffo non volle marciare immediatamente su Napoli, ma invece decise di raggiungere dapprima il littorale per render libera la strada fra Salerno e la metropoli; così guadagnava anche l’altro vantaggio di poter prendere le schiere alleate che avanzavano dal Cilento, e unito ad esse arrischiarsi all’ultima e più difficile operazione della sua impresa. Allora però gli pervenne dalla Sicilia un ordine, che con sua maraviglia e rincrescimento gli legò a un tratto le mani.

Mentre i repubblicani francesi e i patriotti nativi aspettavano la comparsa della Gallispana nelle acque di Napoli, nel campo opposto, e specialmente nella marina inglese, gli animi erano incessantemente travagliati dal dubbio pensando da che parte l’armata franco-ispana fosse per dirigere gli assalti. Le forze di cui il conte St. Vincent disponeva nel mediterraneo (371), erano di numero inferiore a quelle del nemico, ma per esperienza, intimo vigore e fiducia nella vittòria d’assai le superavano. Però il nemico aveva il vantaggio di potersi gittare con tutte le sue forze a piacere sopra l’uno o l’altro punto di quelli difesi o attaccati dagl’inglesi e alleati loro, mentre questi non potevano condursi tutti insieme a un punto determinato se non seguendo semplici indizj e vaghi presupposti, né così facendo potevano al tutto lasciare scoperti gli altri oggetti della loro azione marittima. Le due più importanti stazioni, nelle presenti congiunture, erano per gli alleati le Baleari, a motivo della loro posizione fra la costa a nord est della Spagna e il porto di Tolone, e la Sicilia sì perché vicina a Napoli, e sì per ragione di Malta e della via che, passando per quell’isola, conduce in Egitto. La corte di Palermo poneva naturalmente la riconquista di. Napoli innanzi a qualunque altra cosa; ma anche per rispetto all’interesse generale bisognava convenire che con la capitale partenopea si toglierebbe all’armata nemica uno de’ più validi punti d’appoggio. Perciò il Nelson ebbe nella prima metà del giugno continui rinforzi. Da lord Keithj che incrociava allora nelle acque di Nizza, furono mandati il Belle-rofonte e il Potente, con una lettera scritta da Monaco, nella quale egli comunicava al Nelson che il vento spirava fresco dall’oriente e però assai favorevole ai francesi se avessero in mira la Sicilia, e molto sfavorevole a lui, Keith, se volesse inseguirli. La lettera era del 6 di giugno; in uno dei prossimi giorni le due navi avrebbero dovuto far vela, ma passò più d’una settimana innanzi che arrivassero al loro destino.

In questo medesimo tempo la corte siciliana si sforzava più che mai d’indurre l’ammiraglio inglese ad un’azione immediata su Napoli; si sapeva che il valoroso lord inclinava fortemente a tale disegno, e lady Hamilton, messa dalla regina nella confidenza, prese l’incarico di condurlo all’effettuazione di esso. In connessione con queste pratiche fu mandato al Ruffo l’ordine di non far nulla contro la capitale fino a che il principe ereditario non comparisse con una squadra anglo-portoghese nel golfo; e quest’ordine giunse al cardinale appunto allora che, come dianzi dicevamo, egli voleva con la cooperazione del Foote e del Thurn spianarsi la via verso Napoli (372). All’ammiraglio scrisse Ferdinando, senza dubbio dopo accordi presi con lui in proposito, una lettera in data del 10 di giugno, intesa ad abilitare e in certo modo giustificare un’impresa, che quegli era per fare all’insaputa de’ suoi superiori immediati. Le presenti condizioni di cose in Napoli — così diceva il re in quello scritto— domandano una sollecita risoluzione; a lui le circostanze non permettevano di lasciare l’isola e la sua famiglia; ei riponeva dunque la sua piena fiducia nel potente aju. to dell’armata degl’inglesi suol alleati messa sotto gli ordini del Nelson; egli dal canto suo intendeva rinforzare la divisione di linea che si trovava già sulle isole; alla testa di tutte queste forze egli collocava il suo primogenito, e in tal senso i generali ne riceverebbero gli ordini; pregava però il Nelson di essergli consigliere e guida, essendo alle armi inglesi assegnata la parte precipua da cui dipendeva l’esito finale, e commettendo egli al giudizio del Nelson la cura di prendere tutti i provvedimenti necessarj per ridurre a freno gli oppressori del popolo e per estirpare il nido dei malfattori (373).

La sera del 12 lady Hamilton ebbe un nuovo colloquio con la regina, la quale le fece premura perchó inducesse il Nelson a mettere senza indugio l’armata alla vela verso Napoli;ella e il re si unirebbero a lady Hamilton e al marito di lei per accompagnar l’ammiraglio, se questi la giudicasse cosa desiderabile (374). La qual cosa però non parve necessaria; e si decise che il solo principe ereditario, i cui bagagli erano già stati nel corso del giorno portati a bordo, prendesse parte all’impresa. Circa 2000 fanti, 600 cavalli, con cannoni e d’ogni maniera materiali da guerra, furono parte imbarcati, parte spediti per terra alla volta di Messina (375). Al Foote fu mandato ordine di tenere per ogni occorrenza pronte le sue navi: «Keep your vessels readv to join me at a moments notice.» La mattina del 13 alle tre il Fulminante levò l’ancora, cinque ore più tardi si trovava fuori della baja; alle 10 comparve il duca di Puglia col suo seguito, accompagnato dall’Acton, dal Gravina, dall’Ascoli e altri che dovevano starglicome consiglieri a lato. Anco il re e la regina erano con esso lui, ma la sera stessa tornarono a terra. L’armata salpò verso il settentrione. Il vento era favorevolissimo da sperare che si potesse giungere a Napoli in meno di 48 ore (376).

Ma a mezza via tra Palermo e Napoli sopravvenne un inaspettato messaggio: il Belle-rofonte e il Potente portavano la già menzionata lettera dell’ammiraglio Keith, al quale appunto in quei giorni il conte Saint Vincent tornando in patria ammalato avea commesso il comando dell’armata nel mediterraneo. Il Nelson tenne consiglio di guerra, e fu risoluto di tornare immediatamente in Sicilia per deporre ivi le persone e le cose che si riferivano solamente alla spedizione di Napoli, e tenersi pronti a un incontro con Tarmata nemica. E così con gran maraviglia della corte e della popolazione di Palermo, la mattina del 14 il principe col seguito fu novamente sbarcato e condotto a terra; e la squadra del Nelson, cresciuta di due vascelli, 48 ore più tardi facea vela daccapo. L’ordine era di condursi all’altezza di Maritimo, dove s’era dato ritrovo a quante navi inglesi e alleate da guerra erano nelle vicinanze; da Malta furono richiamati l’Alessandro e il Goliat, e il Foote nel golfo di Napoli ricevè il comando di raggiungere senza ritardo la grande armata. Tal comando fu deciso il 18 in alto mare, ma la spedizione di esso dovè patire qualche indugio, poiché passarono i giorni e il Foote rimase dov’era senza aver sentore di ciò che il suo capo da lui richiedeva.

Le forze navali, che il Nelson comandava nelle acque a occidente di Sicilia, erano composte di 16 vascelli di linea, fra i quali 3 portoghesi, 1 brulotto, 1 brigantino, e 1 goletta (377).

***

Che cose sapevano i patriotti della capitale dei disegni che il 10 di giugno si facevano in Palermo contro di loro e di tutti gli apparecchi per effettuarli? Poco o nulla; dacché quand’anco avessero avuto ancora a quel tempo spie sull’isola e velieri a loro disposizione, il che non appar credibile per la somma vigilanza che vi teneva la polizia, tuttavia le notizie sarebbero sempre, secondo ogni verisimiglianza, venute troppo tardi. Del resto doveva abbastanza occupare i repubblicani quello che a poche miglia dalle porte della città soprastava. Non poteva più a lungo dubitarsi che un assalto contro Nola e Portici era imminente; onde s’industriarono frettolosamente di riparare da quel lato a tutto ciò che in tanto tempo avean trascurato di provvedere. Sulla riva sinistra del Sebeto, fiumiciattolo di breve corso, che passando sotto il ponte della Maddalena sbocca in mare a oriente della città, si eressero trincee, si collocarono 33 cannoni e 2 mortaj, lo stesso ponte della Maddalena e il corto fiumicello furono gagliardamente muniti, il forte Vigliena fuori di città provvisto di batterie da mura e da costa; formavano la guarnigione 150 uomini della legione calabrese, che erano scelti tra i più destri cacciatori (378). Le cannoniere del Caracciolo doveano tener libero il lato del mare, appoggiar le operazioni dei soldati di terra, molestare e occupare quanto era possibile il nemico tirando sulle sue colonne.

Nella città stessa l’aria si faceva ogni giorno più opprimente. I lazzaroni, con le schiere del loro re a poca distanza, era difficile tenerli. Non avevano dimenticato le giornate di gennajo, i terribili vuoti che quella battaglia avea fatti nelle loro file, l’arroganza dello straniero, la durezza della mano che s’era inesorabilmente aggravata su di essi; coloro che in quelle gloriose giornate gli avean condotti, voltatisi poi al potere dominante e diventatine docili strumenti, avean perduto ogni credito, ogni efficacia sul popolo, e doveano, in caso di rivoluzione, temer forse più che i patriotti per la loro vita. Anche fra i realisti della classe alta e mezzana cominciavano gli animi ad accendersi. Fra i patriotti si bisbigliava di nuove congiure, di segreti apparecchi per annientare tutti i nemici della monarchia, di croci rosse con le quali doveano esser segnate le porte dei più noti realisti a fine di salvarli dalla vendetta della soldatesca irrompente in città.

Il 10 di giugno la polizia repubblicana aveva in mano tutte le fila. Così almeno si diceva e così vollero i patriotti far credere al mondo; poiché di certo nonsi è mai saputo nulla. Erano a capo della congiura i due commercianti Gennaro e Gerardo Bacher, svizzeri di nascita, ma dimoranti a Napoli da molti anni, dove aveano acquistato ricchezze e gran numero di chenti ed amici. Nello stesso tempo abitava a Napoli Luigia Malinea, che dopo l’invasione francese vi si era trasferita dalla provincia con suo marito Andrea de’ Monti Sanfelice, non perché fossero singolarmente teneri del nuovo ordine di cose, ma perché speravano di poter meglio riparare nella capitale ai dissesti del loro patrimonio. Ivi la conobbe uno dei Bacher e se ne invaghì; ella non ne disdegnò gli omaggi, ma in cuor suo era veramente inclinata verso un giovine di squisita bellezza chiamato Ferdinando Ferri (379). Quando poi — così si raccontava — i congiurati, che aveano relazioni con gli ufficiali della squadra inglese nel golfo, erano già in procinto di attuare il disegno loro, il Bacher procurò alla sua amante una specie di passaporto o salvacondotto, che doveva contro ogni violenza del partito vincitore assicurarla; ma la Luigia non indugiò a darne comunicazione al preferito del suo cuore, che dal canto suo ne informò il governo al cui servizio egli stava. Talché i fratelli Bacher e i complici loro furono presi e cacciati nelle segrete del castello Nuovo; mentre la Sanfelice riceveva ricompense ed onori, era lodata dalla Pimentai nel Monitore napoletano, e chiamata per decreto madre della patria (380).

fonte

https://www.eleaml.org/ne/stampa2s/1885-Fabrizio-Ruffo-Barone-von-HELFERT-2025.html#LIBRO_TERZO

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